Se Sallusti andrà in carcere, è colpa della legge Cirielli, cioè di Berlusconi

Relitto di un passato che certo liberale non poteva dirsi, la legge sulla stampa partorisce sempre nuovi mostri.

La legge 8.2.48 n. 47 , all’art. 3 ha imposto ad ogni giornale o periodico (imposto non è un termine usato a caso, la norma dice deve ) la figura del direttore responsabile.

Di cosa debba essere responsabile, la legge si premura di indicarlo in seguito, ma è soprattutto il codice penale, all’art. 57, che disciplina uno dei rari casi di responsabilità oggettiva, meglio sarebbe dire di agevolazione colposa del fatto altrui prevista dal nostro ordinamento: quella del direttore (responsabile) che omette di esercitare sul contenuto dell’articolo il controllo necessario ad impedire che col mezzo di pubblicazione siano commessi reati.

Innumerevoli sono state le questioni di costituzionalità sollevate sia con riferimento all’art. 3 della Costituzione ( principio di uguaglianza) che all’art. 21 della stessa (libertà di stampa), incidenti però dichiarati sempre non fondati in ragione di una intima coerenza che secondo i giudici costituzionali rivestono le norme citate con i principi generali, in special modo avendo ritenuto il direttore responsabile punibile a titolo di colpa e quindi in presenza di un elemento psicologico del reato di molto attenuato.

Non è questa la sede per approfondire questi aspetti, certo è che se le carceri non sono stipate di giornalisti e direttori responsabili ciò è dovuto alla natura del trattamento sanzionatorio previsto dalle norme incriminatrici.

Con la sola eccezione del reato di diffamazione aggravato dall’attribuzione di un fatto determinato ex art. 13 della citata legge, il reato di diffamazione a mezzo stampa è punito con la multa o con la reclusione da 6 mesi a tre anni, mentre nell’ipotesi precedente, la pena è della multa e della reclusione sino a 6 anni.

Ora è evidente che spesso il giornalista ed il direttore responsabile sono imputati per aver diffamato taluno attribuendogli un fatto determinato, ed allora perché, se condannati, non vanno in carcere?

Ciò accade poiché il giudice , qualora ritenga almeno equivalenti le circostanze attenuanti generiche sull’aggravante contestata (quella appunto dell’attribuzione del fatto determinato), ai fini della pena applica le sanzioni previste per il reato di diffamazione semplice e cioè può applicare la multa che è prevista in via alternativa alla detenzione.

Quindi , per ovviare ai rigori della legge, comprensibilmente il Giudice largheggerà nella concessione delle attenuanti generiche sinanche in presenza di condotte reiterate in violazione della legge.

Del resto è anche logico considerando la natura del reato e la personalità del reo nonché la criticabilissima scelta legislativa di imporre la detenzione agli autori (e non solo a loro come abbiamo visto) di articoli ritenuti diffamatori.

Tuttavia, in alcuni casi, le cose vanno diversamente.

Ciò può dipendere da diversi fattori, non ultimo che l’esercizio del Giudice nel riconoscere le attenuanti generiche è del tutto discrezionale.

Qualora infatti non riconoscendo le attenuanti dovesse condannare l’autore della diffamazione o il direttore responsabile , la pena non potrebbe essere che il carcere per giunta congiuntamente alla multa, ferma restando comunque la possibilità del giudicante, nell’ambito dei suoi già detti poteri discrezionali di applicare comunque la pena detentiva anziché quella pecuniaria.

Questa è la situazione in cui è venuto a trovarsi il direttore Sallusti nella vicenda di cui oggi si occupano le cronache e la politica, giusto viatico per imporre una riflessione sulla giustezza di norme che collidono col senso di giustizia e con la stessa diversa sensibilità giuridica nei confronti delle norme ispirate ad ideologie passate.

Tra l’altro, apparirebbe anche erronea l’applicazione dell’aggravante al direttore responsabile in quanto l’omesso controllo ex art. 57 cp è da ritenersi ipotesi autonoma rispetto l’aggravante che è invece tipica del reato di diffamazione di cui risponde l’autore e non il direttore responsabile.

Tuttavia, anche nei casi in cui il colpevole è condannato in via definitiva e quindi diventa eseguibile una sentenza, esistono diverse norme dell’ordinamento penitenziario che, in caso di condanne brevi, permettono che la pena venga espiata con modalità alternative alla detenzione, la più note delle quali è l’affidamento in prova ai servizi sociali, nota alle cronache perché spesso ne usufruiscono condannati più o meno eccellenti e che è infatti la meno afflittiva rispetto ad altre poiché il condannato deve solo attenersi ad una serie di prescrizioni imposte dal Tribunale di Sorveglianza che in verità non risultano essere estremamente restrittive, potendo il soggetto interessato lavorare e più in generale continuare a condurre una vita normalissima avendo cura solo di rientrare presto la sera e non essere troppo mattiniero nell’uscire da casa, oltre ad osservare uno stile di vita morigerato e seguire alla lettera le indicazioni del Tribunale che spesso sembrano ispirate più ad un sermone di salvation army che alla deterrenza dal crimine vero e proprio .

La legge prevede (art. 656 quinto comma del Codice di procedura penale) che , per le condanne sino a tre anni, il Pubblico Ministero sospende l’esecuzione per trenta giorni ed il condannato in questi termini chiederà che gli atti vengano trasmessi al Tribunale di Sorveglianza che valuterà se il condannato è meritevole di fruire della detta misura alternativa.

E lo chiederà da libero, cioè aspetterà l’esito del Tribunale di Sorveglianza ma a piede libero.

Ciò, come è noto accade abbastanza spesso, cioè ogni qualvolta il condannato segue con attenzione il suo caso avendo cura di non far trascorrere i 30 gg previsti dalla legge per avanzare la richiesta.

Ed allora perché il direttore Sallusti e con lui tutta l’opinione pubblica è cosi preoccupato? In fondo è sicuramente ben difeso ed il Tribunale di Sorveglianza con molta probabilità non avrà difficoltà a concedere la misura dell’ affidamento in prova anche a lui.

La risposta sta nella cosiddetta Legge Cirielli, che mentre abbatteva drasticamente i termini di prescrizione del reato, con il non dichiarato scopo di evitare processi e condanne per taluni imputati eccellenti, nel medesimo tempo interveniva sull’impianto normativo in tema di misure alternative alla detenzione, vietando, in talune circostanze, la sospensione per trenta giorni della esecuzione della sentenza.

Questo accade nel caso di imputati cui viene contestata la recidiva aggravata.

Non abbiamo avuto modo, come nessuno che abbia letto i giornali l’ha avuto, di leggere la sentenza a carico di Sallusti, quindi in verità non sappiamo se le sue preoccupazioni nascano dall’essere stato dichiarato recidivo.

Ma i problemi , in questa vicenda, prescindono dal caso concreto, ed investono invece questioni più generali che attengono in primo luogo alla opportunità che il reato di diffamazione a mezzo stampa venga punito col carcere e poi, problematica di stringente attualità data la frequenza con cui si pone, che l’esecuzione della pena possa essere sospesa per trenta giorni anche in presenza di imputato ritenuto recidivo e che l’eventuale inidoneità del condannato a godere del beneficio dell’affidamento (o di altro beneficio) sia dichiarata dal Tribunale di Sorveglianza ma con il condannato a piede libero non essendo ragionevole la distinzione tra recidivi e non recidivi se la differenza di trattamento si concretizza esclusivamente nell’attendere l’esito del giudizio in stato d’arresto o a piede libero, visto che comunque anche il recidivo è chiamato a fruirne al pari del non recidivo, non essendovi impedimenti di legge.

Tra tanti strepiti, il punto dolente della questione è questo, una legislazione poco attenta ai possibili epiloghi di scelte insensate, ispirate da motivi di opportunità politica piuttosto che armonizzate col sistema.

 

 

 

 

I commenti sono chiusi.

Gestione cookie