Pd non poteva cacciare Luigi Lusi, non fu garantista

di Antonio Del Giudice
Pubblicato il 20 Febbraio 2015 - 06:49 OLTRE 6 MESI FA
Pd non poteva cacciare Luigi Lusi, non fu garantista

Luigi Lusi

ROMA – Il garantismo, si sa, è il sale della giustizia in ogni paese civilizzato. E il sale, si sa anche questo, può essere causa di ipertensione. Sottile questione di dosi. Ecco, se non si dosano bene gli ingredienti, non è facile capire la storia e la sentenza del tribunale di Roma sul contenzioso fra il senatore Luigi Lusi e il Pd, il suo (ex)partito. Era il febbraio 2012. Il senatore era finito al centro di uno scandalo: accusato di aver sottratto alle casse 13 milioni di euro alle casse della Margherita. Il Pd, dove era approdato con i democristiani del Ppi, lo aveva espulso.

Il processo penale aveva condannato Lusi a otto anni in primo grado. Ma lui aveva in parallelo intrapreso azioni contro la Margherita e il suo vecchio segretario, Francesco Rutelli, per la questione dei soldi; e contro il Pd per l’espulsione patita con disonore.

In alto mare il contenzioso con Rutelli; il giudice Stefano Cardinali ha condannato il Pd, reo di non aver seguito le procedure previste per l’espulsione dal partito.

Giusto. Al povero Lusi, pur sotto scopa per una questioncella da 13 milioni, erano state negate le procedure previste dalla legge. Insomma, le carte non stavano apposto. Ineccepibile. Mi viene in mente una storiella tipica dell’Italia garantista alla bisogna. Me la raccontò il mio amico Biagio Giliberti, prefetto in pensione scomparso meno di un anno fa. Lui era capo della squadra mobile a Roma al tempo del sequestro di Aldo Moro; il questore di Roma era Emanuele De Francesco, poi divenuto prefetto di Palermo e alto commissario antimafia, dopo l’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Dunque, la mattina del 9 maggio 1978 le Brigate rosse lasciano a Roma, in via Caetani, la famosa Renault rossa con dentro il cadavere di Moro. Giliberti corre sul posto, forza il deflettore, apre l’automobile e constata che effettivamente si tratta del cadavere dello statista.

Si scatena il finimondo, le Camere riunite di urgenza, speciali a raffica del Tg1, l’Italia è sottosopra come la mattina del 16 marzo, il giorno del sequestro.
Giliberti torna trafelato in Questura e conferma la notizia a Di Francesco. Il quale, senza scomporsi, domanda: Giliberti, siamo sicuri che è Moro? Il poliziotto conferma, dice che non c’è nessun dubbio. Il questore replica: Giliberti, le carte devono stare apposto. Ineccepibile.