Così Sandro Viola raccontava Lecce nel 1985

di Antonio Sansonetti
Pubblicato il 20 Giugno 2012 - 18:34| Aggiornato il 2 Dicembre 2015 OLTRE 6 MESI FA
Così Sandro Viola raccontava Lecce nel 1985

Sandro Viola fra Giorgio Bocca e Bernardo Valli (Repubblica, Agf)

ROMA – Se n’è andato Sandro Viola, grande firma di Repubblica, giornale di cui fu uno dei fondatori. Capace di descrivere una piccola città di provincia con la stessa grazia e felicità di penna con la quale aveva raccontato Beirut, o Mosca, o Varsavia, o Gerusalemme. Voglio ricordarlo così, con un gran pezzo (forse un po’ troppo idilliaco) scritto da lui sulla mia città, Lecce.

Era il 28 settembre 1985 e quella punta estrema del sud-est della Penisola era una regione remota anche per le pagine dei giornali, oltre che per i collegamenti ferroviari e autostradali. Il boom dei brand “Salento” e “Taranto” sarebbe arrivato solo 20 anni più tardi.

VIAGGIO IN PUGLIA /1 Gli sfasci italiani, le rapine, la lebbra urbanistica sono lontanissimi. La città è come una piccola Austria: un’isola quieta, benpensante, moderata

IL RITARDO CHE HA SALVATO LECCE

Quando al Sud lo sviluppo lento è una fortuna. L’autocontrollo della borghesia e la buona prova della Dc. “Sarebbe difficile entrare nel Circolo cittadino a chi ha commesso scempi edilizi”. Il fiorire delle riviste letterarie

dal nostro inviato SANDRO VIOLA

LECCE – Di diverso, dopo vent’anni d’assenza, trovo soltanto il tavolo dello “chemin de fer”. E’ l’una di notte, e secondo il vecchio costume leccese al Circolo cittadino si sta giocando forte. Ma l’ultima volta che avevo occhieggiato in questa stanza, dovevano essere i primi Sessanta, attorno al tavolo verde c’erano una dozzina di persone in giacca e cravatta, composte silenziose.

I famosi “signori di Lecce”. Adesso ne vedo invece molte di più, forse il doppio, e tutte scamiciate. Il brusio è intenso, ogni tanto s’ode un’esclamazione nervosa. E la novità di questi vent’anni sta qui, in quest’immagine di mobilità sociale intorno al panno verde del Circolo cittadino. L’emergere, come si dice adesso, dei nuovi ceti, la partita di “chemin” che s’è fatta più rumorosa e concitata; meno composta d’un tempo. Per il resto, trovo Lecce deliziosamente uguale a com’era.

Identica è la notte, calda, un po’ sciroccosa, nel cortile del vecchio circolo fitto di palme, araucarie e magnolie, un po’ Palermo e un po’ il giardino del “Raffles” a Singapore. Identica la cadenza pigra e dolce del dialetto, quel “tu” mai arrogante, anzi gentile, dato dai vecchi soci agli inservienti. Identico quel gesto della mano, un lieve svolazzo di dita, con cui il leccese indica al cameriere del circolo, del bar, del ristorante, che il conto è “suo”: il gesto spagnoleggiante che ancora, dopo secoli, impedisce all’”ospite” di mettere mano al portafoglio.

Poiché s’impone subito, già nelle prime ore dell’arrivo a Lecce, questo repertorio d’immagini produce una sensazione di “tempo fermato”. Gli sfasci italiani, la lebbra urbanistica, la maleducazione uscita dai mutamenti tumultuosi del costume, sembrano lontanissimi. In piccolo, Lecce si pone nei confronti del resto d’Italia come l’Austria di questi ultimi vent’anni si pone nei confronti dell’Europa: un’isola quieta, senza troppi sussulti o grida, benpensante, moderata. Il caso me ne fornisce l’altro giorno una curiosa dimostrazione.

Proprio di fronte a quel tempio della borghesia che è il Circolo cittadino, ecco una trentina di operai – appena licenziati dall’azienda della nettezza urbana – che “occupano” l’androne del Comune. Stanno lì vestiti correttamente, senza agitarsi, mentre i rappresentanti sindacali fanno la spola tra occupanti e autorità. Nessun fracasso o turbolenza.

Ma la sera ci sarà un grande pranzo al circolo, presenti tutti i notabili della città, per festeggiare la fine dei lavori del nuovo stadio, e uno degli operai dice con tono risentito: “Quando arrivano, gli faremo un bel battimano”. Allora interloquisce un altro, più anziano e autorevole: “No, non stiamo qui per sfottere. Quindi niente battimani…”.

D’altronde “tempo fermato” non significa stagnazione. Lecce non è più come l’aveva vista Guido Piovene trent’anni fa, “appartata e statica, l’industria quasi nulla, con poca tendenza alle iniziative economiche”. La crescita c’è stata, e anzi, a scorrere qualche statistica, risulta una delle più veloci di questo decennio italiano. Il fatto singolare è che lo sviluppo ha mutato di poco, senza squassarli, i metri dell’esistenza, il volto della vecchia città, i tratti cortesi della gente.

La transizione tra l’economia agricola d’un tempo (imperniata sulla viticoltura e sulle tremende fatiche contadine della coltivazione del tabacco) e la realtà mista di oggi, agricolo-industriale, è avvenuta a prezzi sopportabili. In ritardo rispetto ad altre parti d’Italia, ma meno convulsa, meno virulenta. Per accorgersene, basta passeggiare un paio d’ore nel centro storico. La Lecce barocca è praticamente intatta. Nessuno ha tentato di sventrare, sopraelevare, riadattare.

Il gomitolo delle vecchie strade, i palazzi di tufo dorato, la fuga delle decorazioni gongoriane, il susseguirsi degli stemmi sopra i portali (Tresca, Lopez y Royo, Bozzi Corso, Personè, dell’Antoglietta), il rigoglio dei putti e dei fogliami, dei santi e dei “cartocci” sulla facciata delle chiese, tutto è discretamente conservato. Vedo dei puntelli attorno a palazzo Vernazza, e sulla facciata di Santa Croce i ponteggi d’ un restauro che dura ormai da troppi anni.

Ma in compenso mi mostrano una serie di palazzi restaurati o in via di restauro che le famiglie della nuova ricchezza, significativamente, già abitano o verranno ad abitare. E’ il segno che la città coltiva la memoria di sé stessa, il senso della sua continuità. Un prodigio, se si fa il paragone con l’irrimediabile degrado di Palermo o con la fatiscenza dei “quartieri” a Napoli, le altre grandi città dei tre secoli di dominazione spagnola.

Vado allora a vedere le periferie costruite negli ultimi anni, Santa Rosa, San Cataldo, e anche qui scorgo una decenza, un certo equilibrio. I nuovi quartieri sono brutti ma non orridi, l’effetto estetico è di scontento, d’irritazione ma non di ripugnanza. E lo stesso è per i negozi, tanto quelli della città vecchia come gli altri delle periferie: tutti lontanissimi dall’oscenità dei negozi di Taranto, di Cosenza o di Reggio, persino meno chiassosi di quelli in stile beiruttino che stanno invadendo Roma.

Questa è la peculiarità leccese: un senso della misura, la riluttanza ad inseguire il nuovo in quanto tale, come che sia. A Lecce nessuno deve aver mai pensato – al contrario di quel che intanto avveniva in molte parti d’ Italia – che per crescere economicamente bisognasse tagliarsi i ponti alle spalle. A Taranto, non qui, ci sono stati impulsi del genere, impulsi da Terzo Mondo. Qui lo sviluppo economico, gli incrementi demografici, le mutazioni del comportamento, tutto s’è prodotto (forse a causa della marginalità geografica, forse per una saggezza conservatrice) in modo graduale.

Dalla Lecce monarchico-liberale che scandalizzava le nostre sensibilità sinistroidi tra i Cinquanta e i Sessanta, sono venuti più pregi che danni. Certo, l’esistenza d’una tradizione signorile ha favorito questa inclinazione alla sobrietà. Dice Marcello Strazzeri, professore universitario e consigliere regionale del Pci: “Bisogna riconoscere che la borghesia leccese ha dimostrato un grande attaccamento per la propria città. Rapine edilizie, sconquassi urbanistici non se ne sono avuti. E si capisce: qui non sarebbe stato facile andare al Circolo cittadino, la sera, come se niente fosse, essendo gli autori d’uno di quegli scempi che avvenivano nel resto d’Italia.

Il costruttore troppo avventuroso, l’amministratore notoriamente corrotto si sarebbero visti voltar le spalle da tutta la gente che conta…”. “Infatti”, interloquisce il sociologo Paolo Fumarola, “qui non è soltanto questione di maggioranze e minoranze politiche. Vari uomini politici troppo spregiudicati sono stati messi fuori gioco, prima ancora che in Consiglio comunale, all’interno delle loro Logge massoniche…”. Un auto-controllo della borghesia, un tracciato sotterraneo di memorie che è servito a conservare i valori della dignità personale?

“La cosa certa”, dice Luigi Pedone alla Federazione del Pci, “è che negli anni tra Sessanta e Settanta, quando ancora la Dc collezionava scandali in tutta Italia, i democristiani leccesi dettero prova d’un certo perbenismo…”. In uno dei bei palazzi della città, una famiglia maggiorente m’invita ad una serata con alcuni esponenti dell’industria e della banca, un paio di grandi proprietari agricoli, un ex presidente della Regione Puglia, il rettore dell’Università. I balconi sono aperti sul giardino interno, il giardino affaccia sulla càvea d’un teatro romano illuminato dalla luna, i padroni di casa e un cameriere passano tra gli ospiti offrendo pasticcini, gelati, liquori. Si parla appunto di come sia avvenuto lo sviluppo leccese di questo quindicennio, lento ma senza traumi, e l’aria è di generale compiacimento.

Dal presidente dell’Associazione industriali, l’impresario edile Donato Montinari, sento fare l’elogio del sindacato. Secondo Montinari, alcuni elementi del quadro leccese (l’esiguità del Partito Comunista, l’assenza della grande industria) “hanno fatto sì che non vi sia mai stata una forte conflittualità sindacale”. Ma a parte le condizioni obbiettive, “c’è stata poi una ragionevolezza, un realismo degli operai e dei loro rappresentanti, che hanno consentito un passaggio senza troppe scosse dall’artigianato alla piccola e media industria”.

S’aggiunga a questo la grande diffusione del lavoro a domicilio, e si capisce come le manifatture leccesi abbiano potuto presentarsi sul mercato – nel momento in cui ricominciava a crescere la domanda estera – con prodotti di costo contenuto, concorrenziale. Calzature (10.000 operai nelle fabbriche e quasi altrettanti lavoratori a domicilio), abbigliamento, ricami, ma anche meccanica e chimica.

“Nel bilancio tra importazioni ed esportazioni”, dice il presidente della Camera di Commercio, Leone De Castris, “abbiamo superato le altre province pugliesi”. Poiché vengo da Taranto, dove tutti i discorsi sull’economia s’ imperniano ancora sul cosiddetto “indotto” dell’Italsider – e in generale su un’attesa d’interventi statali -, mi colpisce il fatto che a Lecce nessuno invochi programmi straordinari, provvidenze governative, miracoli portati da fuori. Qualche lamento del genere affiora tra l’ Università e la Federazione del Pci, ma non nell’ambiente imprenditoriale. Tra gli imprenditori sento semmai circolare un’aria “thatcheriana”, una sana diffidenza verso gli eccessi della presenza dello Stato.

E le richieste restano quelle di sempre, sacrosante, d’un miglioramento della rete dei trasporti, rimasta più o meno com’era quando la sola attività industriale di Lecce era la manifattura (o meglio, semilavorazione) dei tabacchi. La città resta fedele a sé stessa anche nel suo attivismo culturale. Non intendo esagerare i livelli della cultura leccese, che resta di spessore e gusto provinciali: ma misurandone le varie espressioni, è giusto tener presente lo sfondo circostante, il cimitero culturale di Taranto, il vuoto assoluto di Brindisi, e in genere la povertà d’iniziativa in tutto il Mezzogiorno, con l’eccezione dell’editoria barese e palermitana. In questo quadro assumono perciò un qualche valore – soprattutto come testimonianza della continuità d’una antica tradizione umanistica – le riviste letterarie, le collezioni di storia salentina, i libri d’arte, che trasportati nelle province più colte del Nord rivelerebbero la loro obbiettiva modestia.

Ecco L’Immaginazione, per esempio, una nuova rivistina letteraria: un numero monografico con inediti di Palazzeschi, un altro numero dedicato a Franco Fortini, i vecchi “poeti nuovi”, qualche narratore agli esordi. Poi “L’ombra di Argo”, che Romano Luperini dirige per l’editore-libraio Milella, quindi “L’albero” (ormai quarantennale, diretta da Oreste Macrì), infine “Contributi” che si stampa a Maglie. Nulla di particolarmente significativo, come ho detto. Ma anche qui s’intravvede una specificità leccese: le banche private del Salento che finanziano di buon grado gli editori, e tutt’attorno gli avvocati, i medici, molte signore della borghesia, gli assistenti universitari che non si perdono un numero delle varie pubblicazioni.

Così, se oggi non si potrebbe più scrivere – come faceva Piovene nel “Viaggio in Italia” – che “a Lecce, nei ceti alti e dirigenti, una questione di cultura interessa di più d’una questione economica”, resta che la città conserva la sua antica indole intellettuale. “Non le dico”, mi racconta ironico un avvocato, “cos’erano i dibattiti al Cine-Forum prima che decidessimo d’interromperli. Una gara tra penalisti disoccupati, una fioritura di tesi e contro-tesi, discussioni che duravano il doppio della durata del film…”.

E la direttrice dell’Immaginazione: “Le difficoltà per varare la nostra rivista non sono state poche. Ma il più difficile è venuto dopo, quando è cominciato l’assedio degli aspiranti poeti e scrittori, una pressione che non ha tregua…”. Mi congedo da Lecce avendo in mente questo gustoso quadretto provinciale, di ferventi dibattiti al Cine-Forum, di cassetti pieni di manoscritti, d’intellettualoidi che sognano un debutto letterario. Anch’esso – tipico di come fu in passato la provincia – s’inserisce nel repertorio delle immagini del “tempo fermato”. Immagini che sino a qualche anno fa consideravamo quasi patetiche, le prove del ritardo e della perifericità, e che oggi ci sembrano invece i segni residui del vivibile.