Assolto Silvio Berlusconi, il Presidente della sezione del Tribunale di Milano che lo ha prosciolto ha tenuto a precisare che il verdetto è frutto di “ragioni squisitamente giuridiche”, come se fosse lecito aspettarsi altro da un Tribunale.
Il processo Ruby-ter era il più delicato tra quelli che hanno visto alla sbarra il Cavaliere, visto che non trattava di traffici sessuali illeciti che poi illeciti non erano, ma di corruzione e falsa testimonianza, reati che riguardano la corretta amministrazione della Giustizia.
Tuttavia un Presidente di Tribunale non parla a vanvera, e se ha sentito la necessità di diffondere una nota sulle ragioni dell’esito del processo, un motivo ci sarà.
Sostanzialmente sta dicendo che a quell’epilogo si è giunti perché durante le indagini gli inquirenti non hanno seguito il codice di procedura penale come si doveva.
Quando i soggetti sono stati escussi come testimoni, a loro carico erano già emersi indizi dì reità, ergo dovevano essere ascoltati con le garanzie di legge, ovvero alla presenza di un difensore ed avvertiti della facoltà di non rispondere, facoltà non riconosciuta al teste che ha l’obbligo di rispondere e di dire la verità.
Da qui la sanzione di inutilizzabilità di quelle dichiarazioni che la Procura aveva ritenuto accusatorie nei confronti di Berlusconi.
Qualcuno può chiedersi perché mai si sia proceduto in tal modo, difficile credere che i procuratori di giustizia o la polizia giudiziaria di Milano non sapessero le possibili conseguenze di un tale agire.
In realtà, nella prassi accade molto spesso.
Lo squisito spirito inquisitorio con cui spesso vengono condotte le indagini, troppe volte fa ritenere che escutere il testimone obbligato a dire quello che sa, renda più che interrogare l’indagato che può persino mentire senza che per lui ci siano conseguenze penali.
Ma in aula le cose sovente rischiano di complicarsi.
Perché se gli elementi raccolti dall’accusa sono solo le dichiarazioni maldestramente raccolte, e magari mancano anche i riscontri perché ritenuti non necessari, una volta che vengono (giustamente) dichiarate inutilizzabili ai fini della decisione, in mano all’accusa non resta molto.
Servono a poco le flebili voci del corrotto che prima di accusare il corruttore doveva essere avvertito della facoltà di tacere.
È la vendetta della perfida e volubile Dike, figlia di Zeus e di Temi, che vigila sulla Giustizia e fustiga lo zelo che spira ai piani alti del palazzo di Giustizia di Milano.