La tesi espressa dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nella riunione dell’ufficio politico del Pdl giovedì pomeriggio, non è nuova. Costituisce la base sottostante un teorema caro a Berlusconi, che la legittimazione del suo potere deriva dal voto popolare. Anzi, come ha detto ai suoi, la sua è l’unica carica eletta dal popolo.
Che Berlusconi arrivi a questa conclusione si può spiegare con un corto circuito, in una mente dalla fantasia fertile e creativa, tra più elementi: la realtà attuale, quella che Berlusconi vorrebbe fosse, la confusione tra voti al suo partito e voti complessivi per la coalizione di governo, la confusione tra risultati elettorali e sondaggi.
Berlusconi, ammesso che tutti i voti che vanno al suo partito siano da attribuire direttamente a lui, di suo ha un 35 per cento dei voti espressi dagli elettori come contati, uno per uno, da un esercito di scrutatori. Arduo è il passaggio dal 35 al 70 per cento, che gli viene di fare leggendo i risultati di sondaggi, certamente attendibili e che lui sa leggere per antica consuetudine molto bene, ma che sono basati su campioni di mille, duemila intervistati. Probabilmente, poi, quello che Berlusconi interpreta come espressione di voto, è solo una espressione di gradimento, della persona e di sue specifiche azioni, non necessariamente destinata a trasformarsi in voto per lui e il suo partito.
Chi ha un minimo di esperienza di sondaggi sa che molto dei risultati dipende dal contenuto delle domande e da come esse sono poste. Purtroppo Berlusconi non rende noti i dettagli dei sondaggi da lui commissionati ma si limita a comunicare, di tanto in tanto, dei numeri che solo lui conosce. Risulta difficile, quindi, potere capire come stanno veramente le cose.
Fin qui, però, siamo nel capitolo desideri e sogni, che ciascuno di noi può legittimamente coltivare e accarezzare nel suo intimo. Può essere imbarazzante che lo faccia in pubblico il capo del Governo, ma ormai gli italiani hanno fatto l’abitudine a queste cose e le guardano con indulgenza.
Dove l’imbarazzo lascia il posto alla preoccupazione è quando si esamina il processo mentale conseguente alla confusione dei numeri. Infatti qui non c’è più un sogno anticipatore ma uno stravolgimento della Costituzione, che, attuato dal primo ministro assume contorni che andrebbero qualificati con parole molto pesanti.
La Costituzione italiana, quella del 1948 e ancora in vigore, dice cose molto diverse da quelle di Berlusconi: gli unici eletti dal popolo sono i componenti del Parlamento, deputati e senatori. Sono quindi loro che rispondono, alla scadenza del mandato o quando comunque le camere sono sciolte, al giudizio degli elettori. Che poi in molti casi il rapporto con gli elettori sia mediato dai partiti non cambia la sostanza: gli elettori votano per il Parlamento, non per il presidente della Repubblica, non per il presidente del Consiglio.
È poi il Parlamento che approva o disapprova la scelta fatta dal presidente della Repubblica, su indicazione dei partiti, del presidente del Consiglio e dei ministri. Il voto di fiducia è lì proprio per questo, per sottoporre il governo e il suo capo a un giudizio che può portare alla sua uscita di scena. Oggi si abusa del voto di fiducia per un fatto tecnico: perché il voto è palese e non sono possibili imboscate di franchi tiratori; pertanto quanto il tema in discussione è controverso, il Governo, come si dice, “pone la fiducia” e chi vota si guarda negli occhi con tutti gli altri, senza potere svicolare.
Ma l’esistenza del voto di fiducia è la prova del fatto che il Parlamento la fiducia la dà e la può togliere, e quindi che il capo del Governo deriva la sua autorità ed è legittimato a agire dal Parlamento, alla cui approvazione o disapprovazione è sottoposto. Sbaglia quindi Berlusconi quando accusa di eversione ipotetici complotti per fare cadere il suo Governo; teoria basata appunto sull’assunto che tali complotti mirano a stravolgere e sovvertire la volontà popolare, che in realtà non si è mai espressa in tal senso perché non era previsto: se in Parlamento si forma una maggioranza contraria a lui e viene sfiduciato, deve lasciare il campo. Sarà il presidente della Repubblica, sentiti i partiti, quindi anche quello di Berlusconi, a decidere se dare l’incarico di formare il Governo a qualcun altro o sciogliere le Camere e mandare il paese a nuove elezioni. Nel corso della cosiddetta prima repubblica, si andava a nuove elezioni solo alla fine di tormentati tentativi di formare una maggioranza alternativa.
Le cose non sono molto cambiate. Al governo, al posto del pentapartito, oggi c’è un bipartito, al posto di Andreotti c’è Berlusconi, a quello di Craxi c’è Bossi (una forma di contrappasso). In caso di caduta del Governo Berlusconi, non è automatico il ricorso alle urne, come accade con il sistema maggioritario inglese. Il sistema italiano, è un proporzionale un po’ emendato, ma sempre proporzionale.
Di tutto questo straparlare, però, la cosa più grave, anzi indecente, è che non ci sia stato un esponente politico che abbia detto a chiare lettere quel che confusamente sto cercando di esprimere io. Ho guardato tutte le fonti possibili, ho trovato qualche distratta e anche inutile difesa di Rosy Bindi, ma nulla che dicesse che quel che sostiene Berlusconi è pura eversione.
C’è di peggio. Hanno chiesto l’opinione di Massimo D’Alema e lui ha risposto: «Non vorrei entrare in questo dibattito, ci vorrebbe un costituzionalista». Si tratta in realtà di nozioni che uno studente dei miei tempi apprendeva dalle lezioni di educazione civica. La risposta di D’Alema è quanto meno pilatesca. A meno che D’Alema non abbia parlato così per levarsi di torno i cronisti oppure non sia ormai rassegnato al peggio, oppure ancora che ritenga inutile replicare alle sparate di Berlusconi, tanto nessuno gli dà retta.
Peccato che proprio D’Alema ha provato sulla sua pelle gli effetti dell’intelligenza, dell’astuzia, della capacità di manovra, della visione strategica di Berlusconi. Era il tempo della bicamerale, al governo c’era Romano Prodi, D’Alema era segretario dell’ex Partito Comunista e presiedeva la commissione bicamerale che avrebbe dovuto portare alla riforma del sistema elettorale: Berlusconi ha portato a casa lo svuotamento di una legge concepita per ridurre la pubblicità sulla televisione (Rai e Mediaset) e poi ha fatto saltare il tavolo.
E allora? Questa volta la partita è più grossa, il piatto ha un valore immenso, tutti i tiri sono possibili. Mi sembra di dovere constatare che alla classe politica italiana, lacerata sul diritto o meno di Berlusconi di portarsi a casa delle puttane e il diritto dei giornali di dirlo, di quel che può capitare in Italia non interessi molto, al di là del tempo necessario per maturare la pensione da parte dei peones neo eletti.
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