Berlusconi e il Pdl. Un partito senza ideologia e i rischi di una crisi

di Gennaro Malgieri
Pubblicato il 7 Settembre 2009 - 11:11| Aggiornato il 30 Settembre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Di fronte alle convulsioni politiche cui stiamo assistendo, scarsa attenzione viene riservata a quanto accade nel Pdl.

È inevitabile che le frizioni del governo con il Vaticano, le scelte sulla bioetica, le questioni legate all’immigrazione, i rapporti con la Lega, le possibilità di aperture all’Udc creino dissensi nel partito di maggioranza nel quale , oltretutto, si assiste impotenti, alle personali “guerre” scatenate dal presidente del Consiglio, che finiscono per concentrare tutte le risorse polemiche della maggioranza nella sua difesa o, come appare, negli imbarazzati silenzi di molti dei suoi uomini di punta.

Non abbiamo sentito, infatti, levarsi voci autorevoli, a favore della campagna che Berlusconi sta conducendo, da nessuno dei massimi esponenti del Pdl i quali, è lecito ritenere, sentono scricchiolare il partito che finora non è riuscito a darsi una struttura coesa, e stanno alla finestra in attesa che cadano le foglie.

Fuor di metafora. Nel Pdl si aspetta qualcosa che deve accadere, ma non si sa che cosa. Su un dato non c’è incertezza: il partito nato solo sei mesi fa è già in affanno, non tanto dal punto di vista dei consensi elettorali, quanto della proposta politica. Per il semplice fatto che non si è dotato, nella fase costituente e neppure dopo, di una strategia a lungo termine.

Tutti si chiedono, perfino i più fedeli berlusconiani, che fine farà il soggetto che avrebbe dovuto rafforzare il bipolarismo e, addirittura, aprire la strada al bipartitismo. Al momento non c’è risposta. Si vive alla giornata. Berlusconi è assorbito pressoché totalmente dalle sue vicende personali, il dibattito politico nel partito non esiste, emergono pertanto distinzioni tutt’altro che marginali all’interno dei vertici del Pdl che favoriranno, in breve tempo, la costituzione di gruppi riconoscibili, pronti alla battaglia che inevitabilmente si scatenerà quando l’implosione si manifesterà in maniera visibile.

Del resto, per come è stato immaginato, il Pdl senza Berlusconi è pensabile? La risposta è sulla bocca di tutti. Se davvero si credeva ad una formazione che ambiva a cambiare l’Italia, lo si doveva precisare fin dal primo momento. Non è avvenuto e adesso si paga lo scotto di aver costruito un soggetto senz’anima, privo di un progetto che gli avrebbe assicurato un ruolo ben oltre la dimensione “personalistica” che lo ha caratterizzato fin dal famoso discorso del predellino.

Chi paventava uno scenario di questo genere non è stato degnato neppure di una risposta che avrebbe implicato l’apertura di un dibattito. Adesso i buoi stanno fuggendo e forse è troppo tardi per immaginare la “ricostruzione” di un centrodestra diverso da quello che conosciamo. Per di più tra gli stessi soci fondatori del Pdl non sembra che i rapporti siano idilliaci.

L’ala cattolica e quella laicista non si sono integrate affatto e gli avvenimenti delle ultime settimane hanno acuito i dissapori. Non è una disputa da poco quella tra gli assertori di uno stretto legame con il Vaticano e chi contesta l’invadenza della Santa Sede (o sarebbe meglio dire le ragioni della religione nel processo di formazione di alcune leggi).

Il partito berlusconiano avrebbe dovuto, se si fosse impegnato in una seria riflessione tutt’altro che teorica, legare in una nuova sintesi le culture che si sono fronteggiate, dalla fine dell’unità politica dei cattolici, in maniera sempre più astiosa e si sarebbe dovuto qualificare come strumento di una nuova laicità “adulta” tale da comprendere le istanze religiose, come avviene in altri Paesi europei, a cominciare dalla Francia dove Sarkozy ha risolto prioritariamente questo problema fin da quando ha messo mano alla ristrutturazione del gollismo rinato nell’Ump.

Ma sono anche i personalismi e le diffidenze, derivanti dalla citata debolezza programmatica, che “frenano” il Pdl. Pochi giorni fa, nello sconcerto degli interessati, Berlusconi ha tenuto un “vertice” con i suoi collaboratori più stretti di Forza Italia.

E Alleanza nazionale? Ha reagito alla sua maniera, data anche la oggettiva subordinazione di quel che ne resta come sbiadita istanza culturale all’interno del Pdl: con disappunto, del quale il premier non sa proprio che cosa farsene. Non è stato un episodio marginale, ma il sintomo più vistoso di una frattura che potrebbe avere alla lunga effetti devastanti anche per le posizioni, legittime, assunte da Gianfranco Fini in contrasto con la maggioranza del partito di cui è stato co-fondatore.

La ripresa politica autunnale si annuncia turbolenta. Le incomprensioni (chiamiamole così) nel Pdl si scaricheranno anche sul governo. Inevitabilmente. Un problema in più per Berlusconi il quale non ha mai creduto che i “partiti personali” (non è un’offesa, ma una categoria politologica) hanno il fiato corto quando la loro leadership s’incrina a causa di fattori esterni.

Per di più la classe dirigente del Pdl è stata cooptata e, dunque, è oggettivamente funzionale agli interessi del vertice. E a nessuno è mai venuto in mente di mettere in campo una discussione sulle idee prima di varare un partito che probabilmente non è mai nato. Una lista elettorale e l’unione di due gruppi parlamentari, infatti, non fanno una forza politica. Ci vuole ben altro.