Capitano Ultimo, un eroe al servizio del Paese. E c’è chi…

Capitano Ultimo
Il capitano Ultimo

ROMA – C’è ancora qualcuno che mette in dubbio le alte doti morali del capitano Ultimo, al secolo Sergio De Caprio. Il capitano dei Carabinieri, così noto da aver ispirato persino serie televisive, è oggetto di un articolo sulla testata online “La voce delle voci”, articolo intitolato “L’archivio di Riina è nelle mani di Messina Denaro” a firma del direttore Andrea Cinquegrani.

L’occasione questa volta è data da un’intervista rilasciata a Repubblica dal mafioso “pentito” Gioacchino La Barbera. BlitzQuotidiano vi propone “La fabbrica del fango contro il Capitano Ultimo non chiude mai“, l’articolo in cui  Sostenitori.info, il quotidiano online di “Sostenitori delle forze dell’ordine”,  smonta le tesi de La voce delle voci:

Ma Cinquegrani, totalmente incurante di questi avvisi di morte, preferisce concentrarsi sulle dichiarazioni di La Barbera volte, alla fin dei conti, a screditare il capitano Ultimo, ritenendo di intravedere in esse delle clamorose “rivelazioni” che egli definisce come “chicche”.

A questo scopo, il giornalista ci tiene a premettere che la cattura di Riina sarebbe avvenuta “non per le nostre grandiose abilità investigative e militari, ma semplicemente perchè il covo è stato servito su un piatto d’argento da Provenzano”. Così scrivendo, il direttore Cinquegrani non tiene in alcuna considerazione, come non esistessero, le sentenze, di cui una definitiva, che hanno già esaminato in dibattimento, ed a fondo, la circostanza. Una è proprio la sentenza del 2006 con cui si è concluso il processo a carico del Capitano ultimo e del Generale Mori per i fatti successivi all’arresto di Riina il 15 gennaio 1993, dove la corte concludeva: “L’istruzione dibattimentale ha, al contrario, consentito di accertare che il latitante non fu consegnato dai suoi sodali, ma localizzato in base ad una serie di elementi tra loro coerenti e concatenati che vennero sviluppati, in primo luogo, grazie all’intuito investigativo del cap. De Caprio”.

E’ in italiano chiaro, ma evidentemente per Cinquegrani non ha valore. Così come non ha valore la sentenza di primo grado con cui nel 2013 sono stati assolti il generale Mori e il colonnello Obinu dalle accuse di favoreggiomento a Provenzano, sentenza che, a seguito delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, con cui egli tentava di rimettere in gioco la tesi del tradimento provenzaniano, ribadiva l’impossibilità di assumere come reale questa versione dei fatti anche a causa della dimostrata inattendibilità del teste: “A causa della precaria attendibilità della fonte, alle specifiche dichiarazioni di Massimo CIANCIMINO non può essere riconosciuta credibilità e tale giudizio non può essere scalfito dalla vicenda dell’omessa perquisizione della abitazione del RIINA successivamente all’arresto di quest’ultimo, vicenda che ha avuto ampia risonanza mediatica.” Ragione per la quale la Corte conclude di come risulti ben distante dall’essere provato sia che “che Bernardo PROVENZANO abbia effettivamente contribuito alla cattura del RIINA” sia “che Vito CIANCIMINO abbia fornito indicazioni che siano state concretamente utilizzate per catturare il RIINA.”

Secondo Cinquegrani infatti, a causa della mancanza del furgone dei carabinieri parcheggiato in Via Bernini a sorvegliare, i mafiosi avrebbero “persino” “tinteggiato le pareti” collocato “bagni nuovi di zecca” al posto dei vecchi bagni, e, naturalmente, “prelevato la cassaforte”, come vuole la leggenda, e come ora pare ribadire il La Barbera.

Ora, a parte il fatto che il giornalista dimostra di non sapere, fatto invece ben noto ai magistrati palermitani dell’epoca, che il furgone dei carabinieri in via Bernini, presente o meno che fosse, non poteva influire sulle attività di pulizia condotte all’interno della villa, poiché non poteva neppure averne la percezione, trovandosi a circa 400 mt di vicoli dalla villa e separato da essa da una recinzione alta due metri e mezzo, e da altre ville, tutte cose più che ribadite nella sentenza (e se li hanno assolti, ci saranno pure delle ragioni) il problema poi di Cinquegrani, è che dalle foto scattate il 3 febbraio 1993 dai carabinieri che fecero irruzione nella villa e allegate al verbale di perquisizione, paiono non risultare né bagni nuovi di zecca, né asportata la cassaforte. I bagni infatti (due al pianterreno e due nel piano rialzato) sembrano proprio gli stessi di prima, non essendo stati rimossi neppure i tendaggi, le pedane in legno segnate dall’usura sul piatto-doccia, la carta igienica dagli appositi portacarta, e comunque non si comprende per quale ragione pratica queste componenti avrebbero dovuto essere sostituite dai mafiosi (anziché, ad es., semplicemente disinfettate), a tempo di record (una decina di giorni), a meno che non si volesse realizzare qualche messinscena.

Ma nonostante la prova dell’integrità della cassaforte sia schiacciante, Cinquegrani accoglie come “rivelazioni” le recenti uscite di Gioacchino La Barbera su Repubblica, dove egli ha affermato: “SEGUII la pulizia e L’ESTRAZIONE DELLA CASSAFORTE dalla villa di via Bernini e PORTAI IN UN PARCHEGGIO LA GOLF BIANCA intestata a un giardiniere della provincia di Trapani, non ricordo se Marsala o Mazara. Un’auto che ritirò Matteo Messina Denaro, CON TUTTO QUELLO CHE ERA STATO TROVATO NELLA CASSAFORTE. L’auto non era di valore quindi posso pensare che FOSSERO PIÙ IMPORTANTI I DOCUMENTI”.
Il giornalista però, (e non soltanto lui), pare aver dimenticato che il La Barbera ha già reso in aula testimonianza formale sul punto, in modo totalmente diverso (ma, è noto, i cambi di versione non c’è mai bisogno di spiegarli, quando fanno comodo), avendo dichiarato di non avere partecipato ai lavori di pulizia del covo, e quindi tanto meno di aver “seguito l’estrazione della cassaforte”. Invece lo stesso La Barbera ha sostenuto, come ribadito in sentenza, “che a “ripulire” la casa CI AVEVANO PENSATO I SANSONE che abitavano nello stesso residence, I QUALI GLI AVEVANO RACCONTATO che erano riusciti a portare via tutto, a ristrutturare i locali della villa, e che avevano avuto persino il tempo di estrarre dal muro una cassaforte e murare il vano in cui era posizionata.”

Ecco, non ha “seguito” un bel nulla, avendo, al limite, raccolto solo vaghe notizie dai Sansone, che operavano nella villa. Tanto che in aula, in tema di contenuto della cassaforte, interrogato da Ingroia ha detto espressamente: “NON SO COSA … COSA CI POTEVA ESSERE”. E quando l’Avv. Pietro Milio, difensore di Mori, tornerà sul punto domandandogli che cosa, di specifico e compromettente fosse stato asportato dalla villa , egli ribadirà: “NO NON L’HO MAI SAPUTO, ho solo visto Sansone soddisfatto per aver tirato via la cassaforte”. E si comprende bene di come testimonianze del genere sono in grado di mettere al riparo il testimone qualora a qualcuno venga in mente, ad esempio, di contestargli la solida presenza della cassaforte nello studio di Riina, il giorno della perquisizione: lui non ha visto casseforti o buchi nei muri, ma solo il Sansone dall’aria soddisfatta, e pertanto in caso di errore resta salva la presunzione di buona fede.

C’è poi la testimonianza di un altro pentito, Giovanni Brusca, che invece afferma di aver coordinato i lavori di pulizia, secondo la quale nulla di rilevante per le indagini sarebbe mai uscito dalla casa di Riina, innanzitutto perché a suo dire se c’erano documenti, questi erano stati distrutti immediatamente dalla moglie di Riina il giorno dell’arresto e prima di abbandonare la villa, e quindi quando la sorveglianza era ancora operativa, ed inoltre perché nulla, salvo “l’argenteria e qualche quadro”, sarebbe mai stato asportato dalla villa, per timore di incappare in un blocco di polizia.

La domanda che oggi ci si deve porre, pertanto, è: perché La Barbera improvvisamente riferisce di una rinnovata volontà di uccidere Ultimo da parte dei corleonesi e contemporaneamente riferisce circostanze che se confrontate con le sue precedenti testimonianze e con le risultanze processuali, paiono verosimilmente non vere? False, o comunque illogiche, se si pensa ad esempio che a suo dire il presunto archivio di Riina sarebbe stato consegnato a Messina Denaro, quando il boss aveva però, nel gennaio 93, soltanto 29 anni e non c’era alcuna ragione logica perché i pezzi da 90 latitanti dell’entourage di Riina, vale a dire Bagarella, Graviano, Brusca, lo stesso Provenzano, Santapaola ed altri, dovessero regalare al giovane criminale di Castelvetrano qualche documento del loro capo o cognato.

Ma queste cose Cinquegrani pare non saperle. Così come pare non sapere, quando cita la testimonianza in aula di Giusy Vitale, sorella dell’ergastolano Vito Vitale, secondo la quale ““La sua scoperta (dell’archivio di Riina –ndr) avrebbe fatto saltare i Palazzi”, che si tratterebbe soltanto del resoconto di una chiacchierata fatta col fratello davanti alla televisione, insomma, un commento “da divano” totalmente ipotetico e privo di basi reali ed oggettive, tanto che lo stesso Vito Vitale, si premurò di rilasciare dichiarazioni spontanee nel contesto di un processo a suo carico per l’omicidio di un salumiere di Partinico, con le seguenti parole:
«Dice solo cose false. Come si permette di dire che nel covo di Riina c’ erano cose, che glielo ha detto suo fratello. è impossibile, lo legge sui giornali. Io mi devo difendere da queste accuse. E’ imboccata.».

Forse però queste cose Cinquegrani le sa e fa solo finta di non saperle, se poi ha sentito la necessità di porre, come a voler cercare conferma, la seguente postilla: “come lei altri pentiti dissero la stessa cosa”. Ma anche questo non risulta essere vero. Nessun pentito ha mai confermato in termini oggettivi l’esistenza/sparizione di documenti nella villa, e quindi tanto meno che fine avrebbero fatto. E infatti, pur prendendo atto delle “dichiarazioni” di tutti i “pentiti”, Giusy Vitale e La Barbera compresi, la sentenza conclude senza ambiguità:
“NESSUNO dei collaboratori di ha, però, dichiarato di aver mai visto questi documenti, dopo l’arresto del Riina e negli anni a seguire, o di avere appreso quale sorte abbiano avuto.” (Sentenza “Ultimo-Mori” – 2006)
Ecco, questo è il lapidario risultato processuale di anni di indagini e di audizioni, ma la macchina del fango, come è evidente, continua a viaggiare, trovando sempre nuovi pieni benzina.

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