Cappato, perché stavolta ha torto. Quasi quanto ha avuto ragione

Marco Cappato, con pigra superficialità la stampa, la comunicazione, la tv e perfino la chiacchiera disinformata ne stanno facendo una sorta di araldo del futuro e del giusto. Ma stavolta no, non è come le volte precedenti in cui Marco Cappato era stato impegno e coraggio civile. Disobbedienza civile si dice, anche stavolta. Ma stavolta è stato diverso, molto diverso. E stavolta l’azione di Marco Cappato non è quella di chi agevola e aiuta il riconoscimento, l’esplicarsi di u diritto umano, stavolta l’azione di Marco Cappato è quella di chi raccoglie un’istanza e ne ipostatizza un diritto. Ma ogni, sia pur rispettabile, bisogno individuale è di per sé diritto. Perché il bisogno individuale, anche nel campo del fine vita, deve coordinarsi e eventualmente fermarsi al confine dell’interesse collettivo. Altrimenti il bisogno diventa pretesa travestita da diritto.

Aiutare a morire

La Corte Costituzionale italiana ha stabilito che non è reato, che si può aiutare a morire altro essere umano. A precise condizioni: malattia irreversibile, sofferenza insopportabile, piena coscienza e palese volontà di chi chiede di morire e stato di prosecuzione della vita di fatto artificiale perché legato a macchine che permettono le funzioni vitali. Non sono limiti, sono garanzie. Marco Cappato ha fatto cosa buona e giusta quando ha materialmente accompagnato ad una fine voluta e liberatoria esseri umani legati alla sofferenza e alle macchine sanitarie. Ha fatto cosa buona e giusta di fronte all’inerzia ipocrita e pilatesca del Parlamento e anche della burocrazia sanitaria. Ma stavolta la donna che aveva scelto di morire non dipendeva da macchine per continuare a vivere. E la sua scelta individuale di fine vita non può per questo diventare canone di legge e neanche di azione civile.

Fine vita non è suicidio

La libertà di porre fine alla propria vita e la liceità di aiutare chi vuole farlo non può e non deve essere confusa con la libertà di suicidio e di aiuto al suicidio. Un essere umano malato in maniera irreversibile e tenuto in vita artificialmente ha il diritto che la collettività o chiunque voglia lo aiuti a porre fine  sofferenze incurabili e a vita artificiale. Ma in assenza delle condizioni di vita artificiale e malattia incurabile questo diritto, se statuito, diventerebbe tutt’altro. Diventerebbe la liceità di aiutare a suicidarsi il depresso e disperato, diventerebbe da libertà del fine vita a licenza di suicidio. Stavolta Marcio Cappato ha civilmente quindi torto, quasi quanto altre volte ha avuto ragione,

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