Quando il caso Sallusti ha cominciato a montare, in vista della udienza di Cassazione, si è appreso che l’allora direttore di Libero era stato condannato a 14 mesi di reclusione. Sui fatti una certa confusione: chi evocava un reato colposo (così alludendo all’omesso controllo del direttore), chi la diffamazione. Tutti hanno stigmatizzato il ricorso al carcere per sanzionare la libertà di opinione od il ruolo del direttore.
Dopo la conferma della sentenza della Corte d’Appello di Milano, si è addirittura annunciata la morte della libertà di espressione. Non si è trattato di una difesa di casta; ma, ritengo, di legittima preoccupazione per i diritti dei giornalisti. Sennonché, con il giudizio definitivo della Cassazione, Serra e Robecco hanno rinvenuto, a fatica, nel web gli articoli incriminati e fatto un po’ di ordine: erano due, uno firmato da un cronista, un altro con lo pseudonimo Dreyfus, attribuito a Sallusti; due i reati di cui questi rispondeva, diffamazione ed omesso controllo. Hanno così chiarito che la libertà di pensiero nulla aveva a che fare con il caso.
Infatti, nell’ambito della linea ideologica antiabortista, legittimamente seguita da Libero, due articoli attribuivano ad un giudice ed a due genitori un fatto gravissimo (già riconosciuto falso pubblicamente dal quotidiano La Stampa): di aver costretto una minorenne dissenziente all’aborto. Per i tre si invocava addirittura la pena di morte (forse da questo antiliberismo è scaturita la reclusione). Inoltre, uno dei due articoli aveva tale risalto da essere in parte collocato nella prima pagina. Si trattava, dunque, di pura diffamazione ed anche grave, considerato che il fatto falso riferito al querelante, era ritenuto passibile della sua vita.
Se la semplice lettura degli articoli ha permesso di ricondurre nel corretto perimetro la loro valutazione, la lettura delle sentenze del Tribunale e della Corte di Appello (non molto diffuse in internet) sollecita altre riflessioni. Leit motiv di questi giorni è che in primo grado Sallusti sarebbe stato condannato alla sola multa. Ebbene: in parte è vero, perché così risulta dal dispositivo della sentenza; in parte falso perché nella motivazione il giudice aveva segnalato di non aver applicato la reclusione per un errore: non aveva tenuto conto che la pena più grave era necessaria conseguenza della mancata concessione delle attenuanti generiche. Implicitamente (anche se desta impressione) e senza effetti giudiziari, anche la prima sentenza conteneva una condanna alla reclusione nelle motivazioni che la sostenevano.
La Corte d’Appello, su impugnazione dell’accusa, confermando il giudizio sulla pena, con valutazione autonoma, ha ritenuto di correggere l’errore. Nelle scelte sulla pena e sulla sua durata hanno pesato: la gravità degli articoli, l’intensità del dolo, l’assenza di elementi favorevoli ed un precedente “specifico”, nonché altre condanne subite dal direttore. E’ stata negata la sospensione condizionale della pena, concessa, invece, al giornalista, incensurato. La Corte di Cassazione, dotata di scarsi poteri sul giudizio di merito, ha confermato le sentenze; le motivazioni sono ancora ignote.
Certamente il fatto è clamoroso: se non erro, due soltanto sono i precedenti di condanne al carcere non sospese, per diffamazione.
Esclusa la libertà di opinione, resta la questione della pena, decisamente severa. Si è scritto a causa di una norma fascista; si dimentica però che la reclusione è stata introdotta da una legge del 1948 (la legge sulla stampa) agli esordi della democrazia in Italia.
A questo punto si possono esprimere soltanto opinioni sulla misura della reclusione, inusitatamente dura irrogata a Sallusti; ma queste non si possono sovrapporre al giudizio discrezionale operato nei tre gradi del giudizio. Se il tema fosse stato immediatamente posto sul tavolo nella sua crudezza, la stampa si sarebbe indirizzata da subito verso il corretto obiettivo. Va mantenuta la responsabilità colposa del direttore? Merita o meno di essere conservata la pena della reclusione per la stampa? Ed in che misura? Per quali casi? E’ questo il modo in cui si fornisce un contributo all’informazione ed al legislatore, ora invocato e reso sensibile.
La norma sulla responsabilità del direttore, a mio parere, non dovrebbe essere abrogata, ma corretta. Ho contribuito alla redazione di un disegno di legge che proponeva di mantenerla soltanto per il caso di articoli anonimi. Ne ripeto le ragioni: se restasse si continuerebbe a gravare un soggetto di un obbligo inesigibile: controllare ogni minuto pezzo del giornale da lui diretto (ed oggi molti quotidiani hanno assunto dimensioni incontrollabili, composti oltre che della versione nazionale anche degli inserti locali che raggiungono la direzione centrale spesso in ora tarda); se la si eliminasse del tutto, la stampa resterebbe immune da ogni sanzione penale, e sarebbe sufficiente non firmare gli articoli delittuosi; dovrebbe dunque essere limitata – così come previsto per la responsabilità dell’editore della stampa non periodica – soltanto agli articoli di cui non sia identificato l’autore.
La pena per la diffamazione: sono contraria a qualsiasi compressione del diritto di esprimere il proprio pensiero; del resto, lo è anche la giurisprudenza italiana che apertamente difende il diritto di cronaca e quello di critica e, da ultimo, lascia indenne il giornalista anche da interviste offensive fedelmente riprodotte. La diffamazione è insulto volgare o attribuzione di fatti offensivi falsi (quest’ultimo il caso punito dalla legge sulla stampa). Ora, la pena del carcere può incidere come un’ingiustificata minaccia su uno scritto anche corretto ed intimorire un giornalista serio.
Sennonché, la sanzione penale (multa o reclusione, questa prevista anche in altri paesi europei, come Germania, Austria, Spagna e Svezia) resta l’unica che possa direttamente colpire i giornalisti falsari ed imporre loro qualche cautela. Il risarcimento del danno in sede civile è, infatti, un costo normalmente sostenuto dall’editore. La condanna civile, se eccessiva (e qui esiste una discrezionalità illimitata del giudice) turba, per altro verso, la libertà di stampa perché potrebbe produrre, in lata ipotesi, il fallimento di un giornale o serie difficoltà finanziarie.
La proposta di escludere la pena della reclusione per gli articoli diffamatori può essere sensata, ma deve essere attentamente vagliata dal legislatore. E’ l’unica sanzione, infatti, che svolga un ruolo deterrente all’offesa ripetuta e conclamata. Tuttavia, secondo me, l’attuale norma prevede una pena eccessiva (da uno a sei anni di reclusione) che supera, ad esempio, quella della corruzione o di altri reati più gravi. Va, dunque, ponderato se lasciarla intatta e soltanto ridurne la portata, limitandone l’applicazione ai casi estremi; come campagne giornalistiche false volontariamente orchestrate, in modo da produrre la morte civile dell’offeso o di metterne in pericolo la sua incolumità. L’ipotesi rientra nello schema tracciato dalla Corte europea. L’alternativa è eliminarla; in questo caso, però, il compito di prevenzione si sposterebbe integralmente dai Tribunali all’Ordine dei giornalisti, che dovrebbe applicare le sanzioni disciplinari più gravi ai diffamatori professionali.
Non sono d’accordo su un’ulteriore soluzione: introdurre la pena accessoria della sospensione o radiazione dall’albo dei giornalisti. Sarebbe troppo complesso concepirla in forma equilibrata ed applicarla: si tratterebbe, infatti, di un’autonoma conseguenza di ogni condanna. Se mal congegnata, colpirebbe ingiustificatamente la libertà di stampa: anche per una diffamazione casuale si rischierebbe la professione. Un giudizio meccanico non si attaglia all’informazione, meglio valutazioni discrezionali e ponderate del fatto e della responsabilità operate dall’Ordine di appartenenza e soggette alle garanzie dell’impugnazione, come ora previsto.
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