ROMA – Sono sempre stato del parere che è ingiusto far ricadere sui padri le colpe dei figli e viceversa. Questo elementare principio non riesce ad affermarsi in Italia. Io, invece, lo confermo anche di fronte alla brutta polemica scoppiata in seguito alla notizia che il padre del Vice Presidente del Consiglio grillino Luigi Di Maio, ha fatto lavorare un nero alcuni suoi dipendenti.
Sfruttare questo fatto per fini di lotta politica è riprovevole. Sarei disposto ad arrivare alla piena solidarietà per questa vicenda con il giovane Vice Premier, se non ci fossero state in passato sue prese di posizione analoghe nei confronti di avversari politici, come Renzi e la Boschi. Ampiamente prevedibile adesso la loro reazione. Fu proprio Luigi Di Maio a invitare Matteo Renzi a “confessare” le sue colpe. Adesso l’accusa parte da Renzi junior in direzione di Di Maio, dipinto come “principale responsabile dello sdoganamento dell’odio”. La Boschi, dal canto suo, definisce graziosamente Di Maio, “ministro del lavoro nero”.
C’era davvero bisogno, con i problemi che abbiamo, di duelli così squallidi e inutili per tutti i protagonisti? Una volta dissepolta l’ascia di guerra, scendono in campo i fedelissimi a 5 Stelle. In prima linea non poteva mancare il grande fornitore di spunti al mitico Crozza, il gattonatore ministro Toninelli, che pronuncia un verdetto inappellabile: ”L’onestà del Ministro di Maio non può essere messa in dubbio” e la sua difesa rappresenta “un cambiamento, anche sul piano culturale, che in Italia non si vedeva da troppo tempo”. C’è infine la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, che essendo capo delle Forze Armate ha invitato alla mobilitazione con impeto patriottico: ”Se c’è una parte ancora sana di questo Paese – ha dichiarato in stile Vittorio Veneto – reagisca: dalla stampa libera ai liberi cittadini. Facciamoci sentire, non restiamo in silenzio”.
Invece proprio il silenzio ci vorrebbe. Anche perché il Fatto Quotidiano” ha scoperto che a Pomigliano D’Arco c’è la pizzeria Dalila, dove per un anno, dall’estate 2011 a quella del 2012, cioè fino a pochi mesi prima della sua elezione alla Camera, ha lavorato Luigi Di Maio, “come cameriere non inquadrato, che da queste parti – scrive l’inviato Vincenzo Iurillo a pagina 7 – significa in nero”. A questo punto si potrebbe terminare affermando scherzosamente che non è colpa di Di Maio padre se il figlio Luigi ha lavorato in nero, e malignare sostenendo che deve essere comunque una sorta di vizio di famiglia. Su questa e su altre vicende simili, che riguardano le diverse parti politiche, c’è, invece, secondo me, assai poco da ridere. Meglio il silenzio.