Carlo Tavecchio, un altro “io non razzista ma…”

Carlo Tavecchio, un altro "io non razzista ma..."
Carlo Tavecchio, un altro “io non razzista ma…”

ROMA –  C’è un preambolo, una premessa, che inevitabilmente precede ogni affermazione razzista o omofoba che sia. Quel preambolo, al di là delle sfumature verbali del singolo, suona più o meno sempre e inevitabilmente così: “Io non ho niente contro ma…” oppure “io non sono razzista ma…”.  Bene, ad ascoltare le conversazioni tra Carlo Tavecchio e il direttore di Sportlife la cosa che colpisce di più sono proprio quelle premesse. Il presidente della Figc le usa in modo ricorrente e sistematico. In quel suo “io non ho nulla contro…” c’è intrinseca la premessa del contrario, un oceano di pregiudizio, un profondo e malcelato essere contro.

C’è poi una certa incontinenza della mediocrità. Quando Tavecchio parla, e questo vale tanto nelle occasioni pubbliche quanto in questa chiacchierata informale, l’impressione è che da un momento all’altro possa scivolare, inciampare, incappare in una gaffe. E la sensazione è che quella gaffe arrivi non tanto e non solo per un legittimo disagio di Tavecchio a parlare in pubblico (che pure, visto il ruolo, non è di certo un punto di quelli da mettere in evidenza nel curriculum). La sensazione è un’altra ed è più fastidiosa: che Tavecchio dica quelle cose perché in fondo le pensa. Sa che non deve dirle eppure gli scappano. Perché non appena abbassa un momento la guardia, i freni inibitori, gli “ebreacci” e le “donne handicappate” escono fuori perché in fondo fanno parte del suo sistema di pensiero, del suo patrimonio culturale e cognitivo.

E a vedere la difesa dello stesso Tavecchio la sensazione resta. Perché il presidente non dice qualcosa tipo: “Non posso aver pronunciato quelle frasi”. Non le bolla come altro da se. Dice che non ricorda. E poi mette le mani avanti. Dice che potrebbero essere manipolate, che comunque al di là del contenuto è vittima di un ricatto. Minaccia querela e in cambio riceve la stessa minaccia. Ma il problema non sono le querele o i ricatti: il problema è il danno sistematico che Tavecchio fa al pallone che dovrebbe gestire e annuncia di voler cambiare, quasi ogni volta che apre bocca.

A dar fastidio c’è anche altro. E stavolta Tavecchio ne è ingenua e facile vittima. Chi parla con lui tende un agguato. Registra (il presidente Figc dice a sua insaputa) e quasi accompagna Tavecchio alla caduta. Gli mette in bocca la citazione di Eco, lo stuzzica con l’omosessuale. Un trappolone, insomma. Forse programmato, di certo non elegante. Ma ancora una volta trappolone teso a chi, tra Optì-Pobà, donne handicappate ed ebreacci, aveva i prerequisiti per caderci immediatamente e con tutte le scarpe.

Resta poi da capire perché una conversazione registrata a giugno finisca sul Corriere della Sera a novembre. Ma questa storia, quella del presunto ricatto ventilato da Tavecchio, è già altra storia. Anche se per assurdo fosse ricatto resta il problema di un presidente che si mette in condizione di essere ricattato dicendo durante una chiacchierata non con il fratello ma con un giornalista, che da certi “ebreacci” è meglio stare lontani.

Il problema di fondo resta quello che ha accompagnato Tavecchio dal giorno della sua elezione alla presidenza. Ed è l’inadeguatezza. Tavecchio sembra non padroneggiare pienamente la dimensione pubblica e di rappresentanza del suo ruolo. Parla in un convegno come se parlasse al bar. Dice ad un giornalista le stesse cose che direbbe ad un amico. Farebbe simpatia se non fosse il numero uno del calcio italiano.

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