Noi siamo la casta, l’anticasta e gli anti-anticasta

LaPresse

Dici “la casta” e pensi subito a qualche palazzo romano, a un paio di emicicli pieni di deputati e senatori. Poi ci ripensi e “vedi” qualche migliaio di auto blu, sedi di ministeri e di società pubbliche. Ma a “vedere” ancora meglio, la casta non è così lontana: e allora scorrono le immagini del palazzo della tua regione, della tua provincia e del tuo comune, dell’azienda di servizi che vivacchia di appalti pubblici e nella quale lavorano il tuo vicino di casa, tuo zio, tuo fratello. Insomma, per incontrare “la casta” forse non devi neanche uscire di casa.

Poi scopri che non solo la casta è vicina, ma che tutto in Italia si fa casta. Non fa differenza se il privilegio da difendere sono 20 mila netti al mese e una polizza “casco” su tutte le spese vita natural durante oppure se si tratta di una paga di mille euro lordi più un centinaio di euro in buoni pasto. Chi è entrato, con lunga gavetta o senza, nella “famiglia”, nel “clan” dei parlamentari o degli addetti alle pulizie, fa di tutto per restarci e collabora col “clan” al mantenimento dello status quo. Così in ogni posto lungo la Penisola dove si decide o si lavora diventa un’altra sede distaccata di quella piovra di realtà cristallizzate e fossilizzate chiamata “casta”.

Un motivo c’è: dominati per secoli da potenze straniere, una delle poche cose comuni a tutti gli italiani è la diffidenza verso lo Stato, visto come un’autorità che parla un’altra lingua, che invade e opprime un popolo il quale per reazione si è sempre arroccato nei legami familiari, nella rete di conoscenze basata sullo scambio di favori, nel clan.

Dall’abbraccio vischioso della casta non si liberano neanche gli “anticasta”: sono i giornalisti e gli scrittori che hanno portato in libreria quasi sempre con buon successo di vendite, ben 36 libri in cui compare la parola magica “casta”. Ma “anticasta” è anche quel segmento di politica che si dice “non politicante”, che rivendica per sé patenti di purezza e di onestà, che si mostra affamata di democrazia diretta, spesso auto-eleggendosi a sindacato del “popolo della Rete“. Sono partiti che non hanno la parola “partito” nel loro nome, su tutti il “Movimento 5 Stelle” di Beppe Grillo.

Cavalcano il fallimento della Seconda Repubblica, mostratasi più cialtrona, più corrotta e meno “civile” (nonostante l’ingresso in politica della tanto esaltata “società civile”) della Prima Repubblica. Prendi i “grillini”: sono i vincitori morali delle amministrative e – in casi come Parma – anche materiali. Godono del favore dei sondaggi che danno il “M5S” secondo partito con oltre il 20% dei consensi.

Beppe Grillo (LaPresse)

Spesso il movimento di Grillo viene paragonato all’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini. Che nel 1946 scriveva: “Per governare basta un buon ragioniere che entri in carica il primo gennaio e se ne vada il 31 dicembre. E non sia rieleggibile per nessuna ragione”. Sembra di rivederci il neosindaco di Parma Federico Pizzarotti, che sceglie la giunta in base ai curriculum vitae ricevuti via email.

Pochi sanno o ricordano la parabola elettorale dei qualunquisti: esordirono con un 5,3%, quinto partito alle elezioni per l’Assemblea Costituente del 1946. Arrivarono a prendere più del 20% a Roma alle amministrative del 1947. Poi però alle politiche del 1948 si apparentarono col Partito Liberale e incassarono il 6,2% al Senato e solo il 3,8% alla Camera. Tempo un anno e i qualunquisti si erano liquefatti.

Magari a Grillo andrà diversamente. Quello che è certo è che tutti i “movimenti” che hanno resistito nel tempo, dalla Lega Nord di Umberto Bossi all’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, una volta arrivati al governo locale e nazionale non si sono segnalati come rivoluzionari dell’etica pubblica.

Ma questo concentrarsi sul dito che la indica non deve far dimenticare la luna. E qui arriviamo all’ultima casta, l’ultima moda del momento: la casta degli anti-anticasta. In realtà esiste da tempo. Ieri se la prendeva con i programmi tv di Gianfranco Funari e di Michele Santoro e ironizzava sulla “diversità” del Pci di Enrico Berlinguer. Oggi attacca sempre Santoro (che dopo 25 anni è ancora lì, facendo casta a sé), Le Iene o Striscia la Notizia e ironizza sulla “diversità” del movimento di Grillo.

Il problema non sono i tribuni televisivi o le liste populiste, ma la malapolitica e la crisi economica decennale che ha completamente delegittimato i partiti che ora siedono in Parlamento. Facile ricordare agli italiani che sei anni fa, nel 2006, votarono contro la riduzione del numero dei parlamentari, che ora secondo alcuni sondaggi sarebbe vista come una priorità dal 61% degli elettori. Facile spiegare che anche la più draconiana manovra taglia-privilegi porterebbe nelle casse dello Stato a malapena lo 0,5% del Pil.

Ma così ci si concentra sul dito. Criticando la volubilità dell’elettorato e la sua sostanziale complicità con “la casta” che lo governa si finisce per perdere di vista le gravi colpe di chi era in cabina di comando, premesso che nel 2006 il taglio dei parlamentari era inserito in una riforma costituzionale discutibilissima, e la crocetta sul “sì” o sul “no” promuoveva o bocciava l’intero pacchetto. Se la nave Italia è naufragata la colpa è soprattutto della classe dirigente di “Schettini” che era al timone. Mentre prendendosela solo con la faciloneria di chi urla col megafono fuori dal Parlamento si finisce per difendere lo status quo. Si finisce per dimostrare che solo un’altra casta è possibile.

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