MILANO – Giuseppe Turani ha pubblicato questo articolo anche su Uomini & Business col titolo “La trappola dei prezzi”.
L’inflazione italiana del 2015 è stata dello 0,1 per cento. Cioè niente. L’Istat ci informa che a questi livelli l’Italia si trovava nel 1959, più di mezzo secolo fa. E un’inflazione così bassa, praticamente inesistente, è un guaio. Forse il più grosso che abbiamo. Sia la Bce che tutti gli economisti stimano che un’inflazione giusta dovrebbe essere intorno al 2 per cento.
Si ritiene, cioè, che una crescita moderata dei prezzi sia un bene mentre la non-crescita (come sta accadendo ora) sia un male. Questo sembra andare contro il senso comune e la logica: se i prezzi vanno giù la gente spende meno e quindi ne ha un vantaggio. Perché mai, allora, gli economisti si lamentano?
La spiegazione non è difficile. Un sistema economico in cui i prezzi vanno indietro o sono fermi, come oggi in Italia, è un sistema nel quale si consuma poco. Aziende e commercio devono girare quindi a ritmo ridotto perché la gente compra poche merci (o servizi). In queste condizioni, come è facile immaginare, l’economia non può mettersi a correre per la semplice ragione che i suoi prodotti sono richiesti in misura moderata.
Non solo: con un’inflazione così bassa, la gente è portata a pensare che, magari la settimana prossima, i prezzi potrebbero anche scendere: perché acquistare oggi quello che fra qualche giorno potrebbe valere addirittura meno? Ma le aziende sono fatte per produrre: se non producono, perché non c’è richiesta, vanno male e non possono assumere nuovi lavoratori.
In conclusione, un sistema economico a inflazione quasi zero è un sistema in bilico, che non ha ancora trovato la sua velocità di crescita sicura e stabile. Se si vuole si può metterla anche in termini psicologici: un paese a inflazione zero è un paese di cittadini incerti: non si compra perché non si è sicuri del futuro. E quindi la scelta più saggia sembra essere quella di tenere in tasca (o in banca) i propri soldi in attesa di vedere come va.
E è indubbio che oggi in Italia (nonostante l’ottimismo distribuito a piene mani dal premier Renzi) l’atteggiamento prevalente sia esattamente questo: cautela e ancora cautela.
Bisogna aggiungere, però, che esistono anche elementi oggettivi per non decollo dei consumi. E sono elementi pesanti. Decine di migliaia di negozi hanno chiuso i battenti, e sono soldi in meno che girano. Un quarto del sistema industriale italiano, rispetto a prima dei sette anni di crisi, non esiste più.
Ci sono tre milioni di disoccupati, cioè di non-stipendi. E’ possibile che almeno in una famiglia su cinque ci sia almeno un senza lavoro. Nel complesso, poi, circola la stima di almeno nove milioni di persone (un sesto della popolazione) che vive in una situazione di povertà. O di non benessere, se la parola povertà fa paura. E non è che gli altri abbiano così tanto reddito o sicurezza da aver voglia di spendere, di comprarsi un maglione di lusso o di fare qualche cena in più al ristorante.
Al di là delle parole che vogliamo usare, resta una realtà difficile. Sembra quasi di essere dentro una spirale infernale: se non c’è la fiducia nel futuro, non si compra e l’inflazione non sale. Ma se non si compra e l’inflazione non sale, non può tornare la fiducia perché il sistema non riesce a decollare. Una frase famosa (credo di Roosevelt) diceva: non dobbiamo avere paura della paura. Invece, oggi, abbiamo paura.