Coprifuoco, era una parolaccia ora tutti lo vogliono, Lombardia in testa

Coprifuoco. Quel sostantivo che Palazzo Chigi non voleva nemmeno sentire, è stato chiesto da tutte le forze politiche della Lombardia.

Coprifuoco. Da destra a sinistra con la benedizione del sindaco di Milano Giuseppe Sala e del governatore della Lombardia Attilio Fontana. Da giovedì, dunque, ci sarà il coprifuoco dalle 23 alle 5. Non potrà uscire nessuno tranne le dovute eccezioni. Il ministro della salute Roberto Speranza è d’accordo.

Il virologo Andrea Speranza è lapidario: “Le restrizioni sono sacrosante, servono per salvare scuola e lavoro”. Come reagisce il premier? Non può che alzare le braccia. D’altronde, lo si poteva prevedere dopo il decreto soft illustrato nella conferenza stampa di domenica scorsa.

Troppo deboli i divieti espressi dal capo del Governo, troppe decisioni prese a metà. Così, la regione più colpita d’Italia ha reagito immediatamente. E all’unisono ha chiesto un ultimatum a Roma. “Se non si chiude, rischiamo l’irreparabile”, hanno esclamato in coro.

Sulla scia di Milano, Brescia, Bergamo, Pavia si allineeranno altre Regioni, molte delle quali al limite del collasso? È un pericolo che Palazzo Chigi teme. Perché vorrebbe significare che ormai da più parti non ci si fida più delle decisioni (o non decisioni?) di Conte.

Il virus incalza, molti ospedali sono al collasso, le terapie intensive aumentano di giorno in giorno, non si può più tergiversare con scelte minime che non risolvono la situazione. Ecco perché la Lombardia si è decisa a scendere in piazza e a far da capofila, sperando che altri seguano la sua strada.

Certo, questa tegola sul governo proprio non ci voleva. La maggioranza è già traballante e l’iniziativa di chiedere il coprifuoco rende ancora più incerto il futuro dell’esecutivo. C’è chi vorrebbe addirittura un sondaggio sulla popolarità di Conte che sarebbe fortemente in discesa. E c’è chi torna a chiedere una mezza rivoluzione nel Consiglio dei ministri, visto il poco feeling che esiste fra i Dem e i 5Stelle.

La guerra si è aperta di nuovo sul Mes, il salva-stati, che potrebbe dare all’Italia un prestito di 36 miliardi. Soldi necessari e benedetti dicono al Pd con in testa il segretario Nicola Zingaretti. I pentastellati non ci pensano nemmeno. E sono stati lieti quando Conte, l’altra sera, ha spiegato in Tv che a lui, in fondo, non piaceva questo prestito dell’Unione Europea.

Apriti cielo: si è scatenata una violenta polemica trascinata dal leader del Pd. “E’ assurdo”, si ripeteva in via del Nazareno, “che in una situazione del genere l’Italia si rifiuti di accettare quei soldi”. Qualcuno aggiungeva malignamente che “questo era il prezzo che Conte doveva pagare a Di Maio and company”.

Il premier ha capito che tirava una brutta aria ed ha invertito in parte la rotta. “Ne riparleremo”, ha risposto a quanti gli chiedevano spiegazioni in merito. Ma ormai la frittata era fatta. E allora si sono riaffacciate le ipotesi non di un cambio della guardia. Nessuno lo ritiene possibile.

Ma non si esclude però un nuovo vertice che preveda Zingaretti e Di Maio come vice presidenti del Consiglio. Insomma, un ritorno al passato, ai tempi del Conte 1, sia pure se i protagonisti saranno diversi.

Un patto di legislatura che porterebbe questo esecutivo fino alle elezioni del presidente della Repubblica e poi delle politiche. I Dem e Italia Viva tirano la volata. I primi per avere più voce in capitolo in un Parlamento spadroneggiato nei numeri dai 5Stelle. I secondi per cercare di strappare qualche altra poltrona di rilievo.

In questo bailamme di ipotesi si inserisce la lotta per accaparrarsi la poltrona del Campidoglio. Carlo Calenda ha rotto gli indugi e in tv ha dichiarato che si sente pronto a gestire i problemi di una città molto difficile da governare. Di Maio non arretra e continua a sostenere Virginia Raggi. Il Pd storce la bocca sul nome di Calenda e ricorda le sue parole di non molto tempo fa: “Io sindaco di Roma? Sarei un cialtrone”. A chi credere?

 

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