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Coronavirus, e dopo? Valentini: più Stato, meno mercato. Ma quanto?

Nessuno ha la bacchetta magica per superare l’emergenza sanitaria ed economica e per uscire da questa crisi epocale.

E chissà se, quando e come ne usciremo, si chiede Giovanni Valentini in questo editoriale pubblicato dalla “Gazzetta del Mezzogiorno” di Bari.

Ma un fatto è certo: la ripresa sarà dura, lenta e graduale nel tempo.

Una volta sconfitto il virus, bisognerà battere la disoccupazione che la pandemia ha ulteriormente aggravato, ricostruendo l’apparato produttivo e avviando una nuova fase di crescita.

E allora, non è arrivato forse il momento di rivedere e aggiornare il mantra neoliberista – “meno Stato, più mercato” – che ha dominato gli ultimi 30-40 anni della nostra vita in Europa e nel mondo, sotto l’egida della globalizzazione?

E cioè, al contrario, predicare oggi “più Stato, meno mercato”? O quantomeno, “un po’ più Stato, un po’ meno mercato”, in modo da ottenere un mix socialmente più giusto?

Questo non significa, beninteso, ripristinare il clientelismo, l’assistenzialismo, il parassitismo, l’assenteismo con tutti gli “ismi” (e i vizi) annessi e connessi.

Vuol dire riequilibrare il rapporto tra Stato e mercato, per restituire all’intervento pubblico il ruolo, lo spazio e la responsabilità che gli competono nella gestione dei beni comuni e dei servizi essenziali.

E vuol dire anche favorire la preminenza della solidarietà sull’egoismo e sul darwinismo sociale, come ha ammonito il Papa nel suo accorato appello di Pasqua.

Una correzione o un aggiustamento – insomma – del nostro modello di sviluppo, per modificare l’assetto economico e finanziario, ridurre le disuguaglianze, migliorare il livello della convivenza civile.

Dicono le statistiche che dalla metà degli anni ’70 all’inizio del XXI secolo, si è registrata una perdita dei salari pari a circa il 10% del PIL.

Una quota di ricchezza trasferita direttamente ai profitti delle classi più ricche.

E questo è in gran parte il risultato delle controverse riforme del mercato del lavoro; di certe privatizzazioni più o meno selvagge; della cosiddetta “finanziarizzazione” dell’economia, per cui conta di più “maneggiare” il denaro e farlo rendere, per chi già ne dispone, piuttosto che lavorare e produrre.

La rivoluzione neoliberale, i cui effetti sono stati oggettivamente amplificati dalla libera circolazione di capitali, merci e lavoro, hanno permesso così al 10% più ricco della popolazione mondiale, e ancor più all’1% di questa élite, di vincere la lotta di classe senza in realtà nemmeno combatterla.

Ora c’è chi scrive, come Tito Boeri e Roberto Perotti su Repubblica, che “è inevitabile un’espansione del settore pubblico, ma è bene che i nostri politici ci rassicurino che lo Stato si ritirerà non appena usciremo dalla pandemia”.

Ma quali politici possono offrire una tale assicurazione?

Quelli che abbiamo adesso, di governo o di opposizione, di destra o di sinistra, ne sarebbero capaci?

E poi, saranno ancora in attività quando l’onda lunga del coronavirus si sarà placata?

Il problema non è tanto uscire dalla pandemia che – con gli antivirali o con il vaccino – prima o poi si risolverà, bensì entrare in una nuova era e in un nuovo mondo.

“Il virus ha cambiato per sempre la nostra vita”, ha avvertito ancora Francesco dalla Basilica di San Pietro deserta, invocando “il salario universale per i lavoratori più poveri”.

E allora bisogna avere lo sguardo più lungo, non essere miopi, per guardare lontano e immaginare un nuovo orizzonte economico-sociale.

Non c’è dubbio che, almeno per quanto riguarda la sanità, la scuola, l’università e la ricerca, lo Stato deve riprenderne la guida per esercitare un potere di indirizzo e di controllo assicurando a tutti il livello essenziale delle prestazioni.

E per quanto riguarda questi settori, su cui negli ultimi anni in Italia sono stati operati tagli rilevanti, non può bastare evidentemente un intervento solo temporaneo.

Ma, una volta che sarà superata la pandemia, per uscire dalla crisi occorrerà un intervento straordinario di più lunga durata sull’apparato produttivo e sull’occupazione, in modo da alimentare la ripresa e favorire il rilancio di un mercato più “umano”.

Chi vuole, può leggere o rileggere il primo volume della “Storia dell’IRI”, scritta dallo storico Valerio Castronovo per Laterza, dedicato al periodo che va dalle origini nel 1933 al secondo dopoguerra: la verità è che senza l’Istituto per la ricostruzione industriale, verosimilmente non avremmo avuto il “boom” e il “miracolo economico” degli anni ’50-‘60.

A parte il sistema sanitario che in questa drammatica circostanza ha dato indubbiamente il massimo, a prezzo della vita di oltre cento medici e una ventina di infermieri, prendiamo come paradigma il caso Alitalia.

Un vecchio carrozzone di Stato con le ali arrugginite, mandato in rovina da decenni di malagestione pubblica a colpi di errori strategici, assunzioni clientelari, sprechi e sperperi.

In piena emergenza sanitaria, abbiamo riscoperto però il valore di una “compagnia di bandiera” che è andata a riprendere a Londra, in Spagna o altrove i nostri figli o nipoti, la cosiddetta “generazione Erasmus”, che altrimenti non avrebbero potuto tornare a casa in seguito al blocco dei voli.

Senza alcuna retorica patriottarda, in questa occasione la “livrea tricolore” ha riscattato la propria nomea e ha rivelato anch’essa un valore strategico da non sottovalutare: adesso un eventuale intervento pubblico non sarebbe considerato più dall’Unione europea un “aiuto di Stato”.

Ma tanti altri esempi si potrebbero citare, a cominciare da quello delle autostrade costruite con i soldi dei contribuenti, cedute poi in concessione a un soggetto privato e abbandonate al proprio destino, come testimonia purtroppo il crollo del ponte Morandi a Genova.

Oppure, guardando avanti, quello di una rete nazionale a banda ultra-larga che realisticamente non può essere realizzata senza un’integrazione e una collaborazione con il settore pubblico.   

L’abbiamo ripetuto tutti fin troppe volte: l’epidemia di coronavirus è una guerra o forse anche peggio.

La crisi socio-economica che ha provocato durerà a lungo.

Ne usciremo lentamente e gradualmente.

E ne usciremo soltanto se e quando riusciremo a cambiare il nostro modello di sviluppo, correggendo l’equilibrio attuale fra Stato e mercato.

 

 

 

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