Crescita. Conti dello Stato e spazio per rilanciarla: quando 2+2 può non fare 4

franco daniele
Daniele Franco, nuovo Ragioniere generale dello Stato. A lui spetta il compito di combinare crescita e rigore dei conti

Gli spazi per rilanciare la crescita ci sono: bisogna distinguere tra convenzioni e sostanza. Nella relazione al Parlamento del 31 marzo 2013 il governo prevede che dei 20 miliardi di previsti per il pagamento di debiti commerciali nell’anno in corso 7,9 sarebbero riferititi a spese di investimento, mentre la quota del 2014 sarebbe assorbita per intero da spese correnti.

La percentuale relativa alle spese di investimento ammonterebbe quindi al 40 per cento. Se si realizzasse una maggiore spalmatura tra i due anni, più in linea con la “regola” del 15 per cento e soprattutto con le difficoltà obiettive di perfezionare le procedure di liquidazione della spesa per investimenti, (che implicano procedure più complesse rispetto a quella corrente), si potrebbero “liberare” spazi, utilizzabili per altri interventi di natura temporanea, come ad esempio il rifinanziamento della cassa integrazione. (Dino Pesole, Possibile il “bonus” sui conti, Sole24ore dell’8 maggio 2013).

La questione dell’impatto sul disavanzo del pagamento dei debiti della pubblica amministrazione può essere inquadrata anche sotto il profilo delle convenzioni contabili, come si evince dalle interessanti considerazioni di Fabrizio Galimberti sul sSole24ore del 7 maggio 2013 (Perché si può recuperare lo 0,5 per cento del PIL) e del 9 maggio (Bilancio statale formato UE “falsato” dai debiti della PA”).

“Rilevare le spese per investimenti pubblici per competenza economica e non per cassa necessita semplicemente una comunicazione all’Eurostat di cambiamento della metodologia. Né può eccepire alcunché dato che classificare le spese di investimento secondo lo stadio di avanzamento dei lavori è quello che prescrive la contabilità nazionale ed è quello che già fanno altri paesi dell’Eurozona”. In questo modo l’intero spazio potrebbe essere recuperato “per necessità più urgenti”.

Le convenzioni possono essere molto importanti come dimostra l’operazione di distinzione, operata nel 1997 per favorire l’ingresso dell’Italia nell’euro, tra la quota relativa agli interessi (minore e con impatto sull’indebitamento) e quella riferita alla parte capitale (preponderante e ininfluente sul saldo) dei capitoli del bilancio dello stato relativi ai mutui contratti dallo Stato. L’operazione consentì un “risparmio” di 10.000 miliardi di lire.

Più complesso è il ragionamento sul debito, che il pagamento dei debiti della PA incrementa dell’intero importo impiegato (un gradino di 40 miliardi quindi, secondo gli stanziamenti del decreto 35 del 2013, che potrebbero essere ulteriormente incrementati in fase di conversione).

Secondo il manuale di contabilità nazionale delle nazioni unite (SNA) “il debito pubblico deve comprendere anche i debiti verso i fornitori”. Tuttavia, prosegue Galimberti, “quando fu negoziato il trattato di Maastricht e si dovettero mettere i puntini sulle “i” sulla definizione di deficit e debiti pubblici, quella di debito pubblico si allontanò da ciò che prescriveva lo SNA e si decise di escludere il debito verso fornitori”. “Ultimamente c’è stata una parziale correzione su questo punto” consentendo di “fare apparire nel debito una parte (minore) dei debiti verso fornitori e precisamente quelli che erano stati ceduti pro-soluto a banche o società finanziarie”.

Per questa ragione nei confusi decreti del 2012 si cercava di affrontare il problema del pagamento dei debiti della PA attraverso l’estensione dell’area del pro-solvendo (dato che l’Europa non aveva ancora dato il sostanziale via libera alla formazione dello stock supplementare di debito). Un passo verso l’estensione delle partite da includere nel debito era già stato effettuato dall’Eurostat nel settembre 2006 (decisione ripresa in Italia dalla legge finanziaria del 2007), con l’inclusione delle cosiddette cartolarizzazioni (diffuse nel settore sanitario), che precedentemente vivevano in una sorta di limbo (like-debt).

L’idea che i debiti commerciali dovessero essere pagati entro l’anno (o entro un anno con una interpretazione leggermente estensiva) non è stata rispettata. Da questa inadempienza deriva la divaricazione che ha condotto la formazione dello “scomodo gradino”. Considerare nello stock anche i debiti commerciali spalmerebbe all’indietro la massa finanziaria attenuando gli inestetismi. La nuova metodologia con cui costruire una serie del debito più aderente alla realtà dovrebbe però essere oggetto di negoziazione poiché modificherebbe le attuali convenzioni.

Si resta in ogni caso molto vicini al limite massimo anche nel 2013 (2,9 per cento). La chiusura della procedura di infrazione aperta nel 2009 nei confronti dell’Italia, prevista per il mese di giugno, pur essendo un prerequisito fondamentale per andare avanti, non deve far abbassare la guardia: per la necessità di finanziare interventi urgenti (cassa integrazione, missioni internazionali, esodati, aumento IVA, cuneo fiscale, giovani disoccupati) per una somma che sale giorno dopo giorno (ha già superato ampiamente i 10 miliardi); per una possibile (de)crescita nel 2013 maggiore di quella fino ad oggi ipotizzata (-1,3); per un debito pubblico che, al lordo dei sostegni, sfonderà per la prima volta la soglia del 130 per cento del PIL (130,4).

In tempi di vacche magre ogni espediente per allargare la striminzita coperta andrebbe preso in considerazione. Certo, oltre alle convenzioni da riformare, e all’auspicabile minore spesa per interessi (5 miliardi con lo spread a 250, 10 miliardi con lo spread a 200) bisognerebbe anche avere il coraggio di rigettare interventi poco utili, come quello sull’IMU. Ma, come è noto, la scala di priorità del policy maker rifugge spesso da logiche razionali.

 

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