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Donne, famiglia e diritto: cosa è cambiato?

di Alessandro Avico |26 Febbraio 2020 12:23

ROMA – L’8 marzo, festa della donna, è alle porte. E’ l’occasione per verificare il percorso della donna nel diritto di famiglia, cosa è cambiato rispetto alla sua posizione, quali sono oggi i suoi diritti, quali i suoi doveri.

La Riforma del Diritto di Famiglia del 1975 è stata un traguardo raggiunto con fatica, le norme antecedenti contenute nel codice del 1942 avevano recepito l‘imma-gine di una forte famiglia in un forte Stato, già fermamente voluta nel codice Napoleonico, si tratta della famiglia retta sul principio di autorità del marito padre, al quale spettavano poteri quasi assoluti di indirizzo e di governo, rispetto ai quali la moglie ed i figli si trovavano in una posizione di totale dipendenza e di assoluta soggezione, sia sul piano personale, sia sul piano patrimoniale.

Solo con la Riforma del 1975 si realizza una ridistribuzione dei poteri all’interno della famiglia, a vantaggio dei soggetti tradizionalmente deboli: la moglie e i figli, con un fondamentale passaggio dalla famiglia come istituzione, nella quale il padre riveste la qualità di “capo” a quella della famiglia come formazione sociale, che nasce dalla libera scelta della persone, che si basa su vincoli di affetto e di so-lidarietà. Le nuove norme producono modifiche sostanziali al descritto assetto au-toritario: il marito non ha più il governo della famiglia, si dà voce alle donne ed ai figli minori, in passato relegati ad una condizione di mera soggezione.

La nuova legge valorizza la persona, l’individualità di ciascun componente e nei rapporti tra coniugi, il principio di uguaglianza e la regola dell’accordo costitui-scono gli assi portanti della nuova disciplina; si dà valore ad una gestione paritaria degli affetti e degli affari familiari.

Viene dato ancora rilievo al lavoro casalingo, con l’introduzione del famoso istituto della comunione familiare, secondo cui – come principio generale – gli acquisti compiuti durante il matrimonio diventano di proprietà comune e si disciplina l’impresa familiare. Le nuove norme nascono dalla necessità di compensare il la-voro casalingo delle donne, per cui l’equazione alle mogli il lavoro di cura e agli uomini il lavoro professionale trova una risposta nella condivisione del patrimonio economico e si è evitata così quella soggezione economica, cui la donna era sot-toposta.

Questo, per estremo riassunto, il contesto normativo, ma l’attuale legge non riesce a eliminare una posizione di inferiorità della donna che, nonostante l’evoluzione della coscienza sociale, delle strutture economiche e del mondo del lavoro, pur-troppo non muta. La nuova situazione di parità necessita anche di una diversa or-ganizzazione dello Stato sociale (asili nido, scuole, assistenza medica, assistenza per i genitori anziani, ecc.ecc) e di una nuova e diversa disciplina del mondo del lavoro; senza tali innovazioni si continuerà sempre a registrare nei fatti la persi-stenza di molteplici ostacoli alla realizzazione della parità sostanziale tra uomo e donna.

Nella sostanza, con la separazione si assiste ad una situazione di grave conflitto, nel quale la donna ritiene di uscirne sconfitta e l’uomo, per la maggior parte dei casi, privato dei suoi mezzi fondamentali di sostentamento. Hanno ragione entrambi.

In realtà, la separazione, nonostante il positivo sviluppo della posizione della donna all’interno della famiglia e della sempre maggiore considerazione della figura di moglie e di madre che il diritto ha recepito e fatta propria, obbliga ad una riorga-nizzazione delle relazioni familiari che penalizza tutti i componenti il nucleo, madre, padre e figli.

Nei fatti, è vero che la donna è in genere destinataria del collocamento dei figli, dell’assegnazione della casa coniugale e dell’assegno di mantenimento per i figli e talora anche per sè, ma in concreto diviene il centro di riferimento della crescita dei figli, che tolgono e assorbono spazio rispetto all’attività professionale e alla possibilità di carriera della donna; l’assegno di mantenimento per i figli, quand’anche la donna abbia un suo reddito, non è assolutamente sufficiente per affrontare tutte le spese che via via si rendono necessarie. Infine, è difficile che si realizzi un’intesa per la gestione dei figli, che viceversa porta spesso notevoli in-comprensioni tra padre e madre, i quali invece di essere collaborativi e di ricono-scere l’uno il ruolo dell’altro, tentano disperatamente di prevaricare e di creare al-leanze più o meno nocive con i figli, per cancellare l’altro genitore.

Non è vero che la donna che si separa mantiene lo stesso tenore di vita, goduto in costanza di matrimonio, d’altro canto i mariti e i padri che si separano sono spesso ridotti in una situazione di grave difficoltà economica e spesso sono costretti a vi-vere in condizioni di disagio. D’altronde, basta un semplice calcolo aritmetico: se con uno o due redditi da lavoro vive una famiglia, è ovvio che se con quello stesso importo devono vivere due nuclei familiari (due affitti, doppie utenze, ecc.ecc.), ognuno di questi avrà una somma mensile a disposizione di gran lunga inferiore a quella di cui disponeva prima, in costanza di matrimonio.

La separazione è un lusso che – se da una parte consente ai coniugi di vivere se-paratamente, dall’altro crea grossi squilibri nelle relazioni familiari ed esistenziali – necessiterebbe di un importante presenza e di un consistente sostegno da parte dello Stato. Aspettiamo fiduciosi un intervento del Legislatore.

 

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