Il concetto di femminicidio non parte poi da così lontano nel tempo, ma certo viene da un altro mondo e da un altro modo d’intendere i diritti della persona e, in questo caso, i diritti violati erano di giovani donne, circa 500 ragazze violentate e uccise nella lontanissima Ciudad Juarez, in Messico.
Ragazze appena adolescenti, giovani donne, trattate come oggetti, usate e soppresse. I loro corpi straziati hanno cominciato a riemergere dal deserto nel 1994, erano prevalentemente, o esclusivamente, di basso ceto sociale, con situazioni di disagio alle spalle, spesso erano operaie.
Il loro lavoro valeva ben poco, la loro vita ancora meno.
Così poco che le autorità locali ancor meno si sono spese nella ricerca della verità.
Si cominciò a parlare di “femminicidio”, il genocidio delle donne perché donne, termine che ebbe una certa fortuna tra le associazioni sindacalizzate e politicizzate di altre donne, che certo hanno fatto un gran parlare, ma che erano per censo e provenienza geografica ben al sicuro dal fare una simile fine.
L’omicidio di donne visto come discriminazione sessuale, come argomento di propaganda politica.
E l’assassino, o gli assassini, sono ancora introvati: colpa della polizia locale, fatta di uomini che non hanno interesse ad incolpare altri uomini. E tra una chiacchiera, uno slogan, un’intervista ed una manifestazione, le ragazze morte non hanno avuto nessuna giustizia, nessuna giustizia le loro famiglie, ma un implacabile sostantivo buono al bisogno era stato coniato: femminicidio.
Esaurito lo scontro di classe, poche le morti bianche, sulla pelle disseccata dall’arsura del deserto di centinaia di giovani vittime, lo sciacallaggio politico e culturale ha trovato un nuovo potente argomento.
Così potente, e così “argomento” da meritare persino una legge, celerissimamente scritta e votata, ed altrettanto celermente destinata al totale fallimento.
Il femminicidio è un’invenzione crudele, che sfrutta e strumentalizza atroci fatti di sangue senza proporre alcuna soluzione, col solo dichiarato scopo di aprire nuovi fronti di lotta, perché nella lotta, nello scontro, nell’antagonismo, i portatori di certe ideologie cassate dalla storia trovano la loro ragione d’esistere.
Sul piano giuridico il femminicidio è una mostruosità concettuale, la punizione di un reato non perché ha provocato la morte di un essere umano, ma perché ha segnato la prevaricazione di un sesso sull’altro, ed è la prevaricazione che va punita, la differenza che va stroncata, in un risveglio di femminismo sconfitto dai tempi e dalla logica, si è pensato di concepire una legge che punisce un delitto non in quanto tale, ma perché perpetrato contro un soggetto specifico, la donna, da un altro soggetto specifico, un uomo.
Ed il delitto si sostanzia solo se è un uomo che ha un rapporto con la vittima: marito, amante, fidanzato, compagno.
La vecchietta uccisa sulla soglia di casa dal rapinatore manesco e frettoloso non è vittima di femminicidio, la studentessa investita sulle strisce pedonali da un pazzo ubriaco, distratto, fatto di droga, non è femmicicidio.
Il femminicidio è la corretta rappresentazione del delitto di genere: donne uccise in quanto donne e questo, secondo alcuni, è più grave di un qualsiasi altro omicidio perpetrato nei confronti di un essere umano, e deve essere punito non perché si tratta di un reato, ma perché si tratta di un reato perpetrato nei confronti di una donna, da un uomo.
E non da un uomo qualsiasi, ma dall’uomo col quale si ha o si ha avuto un legame sentimentale, un uomo che deve essere punito non perché è un assassino, ma perché col proprio assassinio ha negato ad una donna il diritto di scegliere.
È la condanna ideologica di chi, col proprio gesto delittuoso, si è frapposto tra l’assassinata e la gloriosa marcia di liberazione della donna.
10 marzo 2013, Gussago (BS), scoppia una coppia lesbo, Angela Toni, operaia di 35 anni uccide nel sonno con due colpi di pistola sparati attraverso un cuscino la propria compagna Marilena Ciofalo, di 34 anni.
Aveva da poco preso il porto d’armi ed acquistato la pistola, al processo fu stabilito che il delitto fosse premeditato, ma alla fine la pena, 16 anni, non fu quella a 30 anni che aveva chiesto la pubblica accusa, per un gioco di attenuanti e aggravanti. Meno che mai quella all’ergastolo che si aspettavano i parenti della vittima. La legge sul femminicidio era stata approvata un anno prima, con pompa e clamore, con la Camera fatta riaprire in pieno mese d’agosto da Laura Boldrini .
Legittimamente si puo’ sospettare che il concetto stesso di delitto di genere sia contrario agli interessi delle vittime e della giustizia in generale.
Ciò perchè un reato deve essere punito avendo a riferimento l’azione compiuta, il risultato della medesima azione, le intenzioni criminali di chi l’ha posto in essere.
Appare del tutto impropria una scala nella gravità dei delitti che riprovazione che si aggrega attorno alla riprovazione ideologica del fatto, e non alla sua gravità ed incidenza sociale.
Non è la punizione del delitto che si cerca, ma la punizione di un’idea (e ciò è talmente vero che a ruota sta arrivando la legge sull’omofobia).
Un processo ideologico a tutti gli effetti.
Il femminicidio non esiste, esistono donne, come uomini, come anziani o bambini assassinati.
Esistono le pene per questi atti, normalmente si computano le aggravanti e le attenuanti che li accompagnano.
Qual è la evidente, ed anzi eclatante dimostrazione che il femminicidio non esiste, e che l’invenzione di delitti di genere palesa il tentativo di distorcere la giustizia e piegarla a meri fini ideologici?
Nel 1994 si è ampiamente e diffusamente, e accoratamente parlato di femminicidio, e mano a mano che riemergevano i corpi delle ragazze massacrate il concetto prendeva forma e vigore e, a tutt’oggi, le ragazze non hanno avuto giustizia, ma nemmeno i loro padri, i loro fratelli, i loro fidanzati hanno avuto giustizia.
Molte parole, tante da alzare barriere tra gli assassini, le loro vittime, e la verità.
Creare delitti di genere è un sicuro modo per fare della propaganda da pochi spiccioli, pagata col sangue delle vittime; è creare un problema senza soluzione, volutamente senza soluzione.
L’obiettivo è distogliere l’attenzione dall’accertamento della verità ma, prima e soprattutto, dall’individuazione delle cause dei delitti, creando un colpevole precostituito: il rapporto tra i sessi.
Colpevole che non potrà certo mai pagare per alcun delitto, ma che è assai funzionale a perpetuare un’attenzione, un’agitazione, un “momento di coesione” pronto per la prossima marcia, fiaccolata, od altra inutile iniziativa.
Facendo scivolar via l’attenzione dal più vero e più grave problema: come arrivare alla efficace difesa delle parti deboli ed indifese della nostra società.
Che non sono sempre donne, che non sono necessariamente donne, che vanno individuate di volta in volta e seriamente tutelate, tutelate prima che siano uccise, prima che siano martoriate o psicologicamente segnate.
La verità è che viviamo in un Paese nel quale l’individuo, donna, uomo, bambino, anziano, è sempre lasciato solo. Un Paese con una sistemica carenza d’infrastrutture sociali che permetta alle parti c.d. “deboli” la libertà di fare delle scelte.
Un Paese nel quale si preferisce teorizzare occulte strategie che puniscano la donna in quanto tale e sull’onda di ragionamenti molto prossimi al vaneggiamento confezionare una ridicola legge di sola vetrina, e non si supporta con un solo centesimo la famiglia, né con una sola iniziativa.
E non è certo di un fantomatico uomo nero che le donne debbono avere paura, ma di una società che le emargina e punisce, quasi il delitto fosse l’impegno e la dedizione che esse riservano alla cura della famiglia ed alla crescita dei figli.