Fiat. Monti: “Non disturbate Marchionne manovratore”. Ha torto

Vietato parlare al manovratore?

“Una impresa non può essere oggetto di perenne scrutinio investigativo sulla politica industriale fatta da persone che non hanno competenza”. A proposito di Fiat Mario Monti rispolvera o meglio impolvera, con la naturale verbosità che gli appartiene, il vecchio detto “non parlare al manovratore”.

Tutto bene, magari condivisibile. Ma neppure al più silenzioso dei viaggiatori si può imporre il mutismo quando l’autobus sul quale viaggia imbocca uno svincolo autostradale contromano. Il fatto è che un piano industriale, così come l’attività politica, è naturalmente soggetto alla valutazione di tutti quelli che, direttamente o indirettamente, se ne sentono coinvolti. Tanto più quando l’oggetto di questi piani è l’auto.

Tanto questo è vero che il ministro del Lavoro Elsa Fornero, disciplinata montiana di ferro, ma torinese e cresciuta nei problemi della Fiat e dell’auto, ha alzato la voce conto Monti affermando categorica che “no, la Fiat non può fare quello che vuole”.

Le domande sul grado di concentrazione sul volante e la strada da seguire da parte del manovratore sono ancor più legittime alla luce di quel che sta facendo la concorrenza europea anche sul piano finanziario, che si traduce poi in finanziamento alle vendite e quindi penetrazione sui mercati. Di oggi è la notizia che la Volkswagen financial services, la loro Sava, ha chiesto alla Banca centrale europea due di quei miliardi di dollari stanziati per aiutare il sistema bancario europeo. Con quei soldi la Vfs cosa farà? Certo non comprerà Bund e meno che mai Bot, ma permetterà ai suoi concessionari di praticare a chi compra auto VW condizioni finanziarie più vantaggiose.

L’auto è un prodotto complesso, il più complesso che abbia come utente finale non uno specialista ma l’uomo comune, il cui metro di giudizio al momento dell’acquisto, quello che davvero conta, diverge spesso dai cosiddetti competenti. Nel caso Fiat c’è piuttosto da rammaricarsi della tradizionale mancanza di un adeguato “scrutinio investigativo” piuttosto che del contrario. E in questo stupisce l’assordante silenzio della sinistra, sindaco di Torino in testa, per non parlare dei sindacati, escluse le prove di forza di principio invece che di politica industriale.

La politica del “non parlare al manovratore”, purtroppo, ha ben poco influito sulla concentrazione dell’autista e quindi sulla qualità del viaggio. Sentendosi pienamente libero, ha cominciato a saltare le fermate che non gli piacevano e, in assenza di reclami, ha continuato con una marcia a sbalzi e invasioni di carreggiata.

Lo stesso è avvenuto per Sergio Marchionne il cui libero arbitrio si è trasformato ben presto nell’abuso della licenza. In tutto questo l’invocazione di Monti al rispetto per la Fiat suona quanto meno come una irriverente battuta verso quella stragrande maggioranza, i consumatori in primo piano, ai quali proprio la Fiat ha mancato di rispetto. Un atteggiamento istituzionalizzato a tal punto da indurre nello stesso Sergio Marchionne un comportamento schizofrenico, fatto di affermazioni perentorie e stizzite smentite. Rivolte a se stesso. Abilissimo nell’enunciare concetti tra loro opposti, facendoli apparire come una conseguenza logica l’uno dell’altro.

Così la denuncia di una intollerabile sovracapacità produttiva in Europa finisce per conciliarsi con l’apertura di un nuovo stabilimento in Serbia, la ricerca della più spinta produttività anche se applicata a stabilimenti svuotati dalla cassa integrazione incontra il plauso della politica e degli imprenditori e la rinnovata conferma degli obiettivi di “Fabbrica Italia”, raddoppio della produzione degli stabilimenti nazionali entro il 2014, rimane a portata di mano. Poco importa se nel frattempo il vertiginoso calo delle vendite non accenna ad arrestarsi.

Forse a questo punto un po di “scrutinio investigativo” sarebbe quanto mai utile per venire in aiuto di un “manovratore” impegnato a discutere solo davanti allo specchio per non trovarsi d’accordo neppure con se stesso. Ma in definitiva dove ci ha portato aver garantito questo splendido isolamento? Certo ha favorito il raggiungimento di tutti gli obiettivi che si era proposto: affondamento del sindacato, flessibilità a piacere e produttività a livello della concorrenza. Conquiste che stentano a produrre effetti perché, almeno in Italia, negli stabilimenti si continua a produrre più cassa integrazione che modelli.

A proposito di modelli. Marchionne li tratta alla stregua di una variabile indipendente la cui realizzazione deve tener conto solo ed esclusivamente delle esigenze del costruttore. “Inutile dare da bere al cavallo che non ha sete” dice con un paragone ippico, forse legittimato dal fatto che anche sotto il cofano dell’auto scalpitano mandrie di cavalli. E allora niente investimenti sul prodotto, se ne parlerà quando il mercato finalmente darà segni di ritrovata vitalità. E pazienza se nel frattempo si accentuerà l’emorragia delle competenze rendendo impossibile un eventuale recupero. Nel frattempo la concorrenza non accenna a rallentare una fuga in avanti che la ha collocata ormai oltre la linea dell’orizzonte.

Così si possono azzerare gli investimenti dedicati al prodotto con immediati benefici sui bilanci che vengono gonfiati, mascherando le perdite grazie ad una insostenibile ipoteca su un futuro che presenterà il conto quando Sergio Marchionne sarà ormai lontano. Ma veniamo al dettaglio. Il ruolo della Fiat in Europa, dove il confronto con la concorrenza è al massimo livello tecnico e tecnologico e dove si acqusiscono e si confrontano quelle competenze senza le quali oggi l’auto si può vendere solo a peso, è poco più che marginale.

Perché se si esclude l’Italia che, pur irriconoscente e incompetente, gli riconosce una quota vicina al 30%, la Fiat, con i suoi quattro marchi (Chrysler compresa) non supera il 3% nel vecchio continente. E siccome i modelli destinati all’Europa nascono per la maggior parte negli stabilimenti italiani, c’è poco da stupirsi dello stato di abbandono nel quale versano.

Risultato inevitabile di una gamma prodotto imbarazzante per qualità e quantità. Conseguenza di una strategia al ribasso che prevede la precipitosa ritirata da tutti quei settori che non sono in grado di reggere alla concorrenza. E così dopo il ritiro da quello delle vetture grandi e medie, con l’uscita di scena della Alfa Romeo 159, ora assistiamo anche alla fuga da quel segmento C, tradizionalente caratterizzato dalla VW Golf, sul quale si misura la competitività di tutta l’industria europea.

L’obiettivo è quelo di arroccarsi nel settore delle utilitarie: 500, Nuova panda, Punto ed oggi la versione Large della 500 prodotta in Serbia. Una scelta rischiosa perché in questo campo sono i costruttori coreani a condurre il gioco con incrementi a due cifre, in un mercato che a due cifre cala. E ancora più sorprendente il fatto che nella gamma Fiat non figurino station wagon, monovolume e crossover di medio livello. Tre tipologie di auto da anni alla testa delle vendite.

Tutto questo mentre i grandi costruttori premium tedeschi, Mercedes, BMW e Audi seguono la strada inversa estendendo progressivamente la gamma verso il basso. E alla fine quelli che una volta erano “specialisti” oggi vendono in Europa come e più di un (ex) generalista come Fiat.

La Lancia è solo un ricordo, persino spiacevole per Marchionne, irritato quando qualcuno si permette di piangere la definitiva scomparsa dell’identità di marca. Ormai del tutto compromessa con l’inserimento di modelli Chrysler “brandizzati” Lancia i cui effetti commerciali sono ancora tutti da dimostrare

L’Alfa Romeo ha solo due modelli in listino e livelli di vendita in conseguenza. Una Mito, in gran difficoltà (Mirafiori, lo stabilimento nel quale è prodotta, lavora solo qualche giorno al mese) e una Giulietta, prodotto valido sul piano tecnico ed accattivante su quello del design, che soffre però del suo splendido isolamento all’interno di una marca che presenta quote di mercato minimali ed una organizzazione commerciale ormai rarefatta.

Sul piano dell’innovazione le cose vanno meglio. Il sistema di alimentazione “Multiair” che ha giocato un ruolo decisivo nella acquisizione della Chrysler, segna nel campo dei motori a benzina un vantaggio tecnico pari a quello rappresentato alla fine degli anni ’80 dal “Common Rail” per i propulsori diesel. Anche se la necessità di trasformarlo in una opportunità di marketing, applicandolo a modelli ormai datati (peso elevato, bassa qualità aerodinamica, ridotta scorrevolezza) ne ha penalizzato i vantaggio. In un confronto con la Mini con motore 1.6 litri la Lancia Y con il biclindrico Multiair da 0.8 litri presenta consumi addirittura più elevati.

Ma niente paura. Sergio Marchionne ha la soluzione per salvare gli stabilimenti italiani. Produrre per il mercato, fiorente, degli Stati Uniti. Cosa non si sa. O almeno, anche in questo caso i piani sono in continua evoluzione. Grandi SUV, piccoli Suv, berline di prestigio e quant’altro. Poco importa se fino a qualche tempo fa questa ipotesi era rigettata dallo stesso Marchionne. E non senza motivo. Troppo sfavorevole il rapporto di cambio tra Euro e Dollaro. Ma il manager del Lingotto ama le sfide e in omaggio al detto “solo gli stupidi non cambiano opinione” non se ne cura e va per la sua strada.

In compenso c’è il Brasile che consente di ripianare i conti perché ancora (per poco) al sicuro dei devastanti effetti della guerra dei prezzi che travolge l’Europa. Ma fino a quando potrà bilanciare l’assenza della Fiat dal mercato cinese e da quello indiano che sono ormai lo sbocco prediletto per i prodotti tedeschi.

E gli Stati Uniti, naturalmente. Oltreoceano Sergio Marchionne trova finaslmente tutto quel consenso che in patria gli viene negato. Ma li il sindacato è anche azionista e quindi Marchionne lascia spazio al “Marchionne 2”. Il maglione è lo stesso ma la faccia è diversa, decisamente più accattivante. Perché rispetto all’Italia l’industria dell’auto a stelle e strisce ha avuto il buon gusto di fallire consentendo così alla amministrazione americana, grazie allo stato di emergenza, di mettere in atto tutti quei provvedimenti che l’Europa stenta ad adottare. Chiusura degli stabilimenti, salario dimezzata per i dipendenti neoassunti, e “paccate” di miliardi di dollari per finanziare la ripresa. Da una ripresa così ci guardi Iddio… o , meglio ancora, Volkswagen

 

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