ROMA – Franco Abruzzo ha pubblicato questo articolo sulla “riforma Camporese” dell’INPGI, spiegata nei dettagli punto per punto, anche sul suo blog, riportando inoltre un lungo articolo, di Sergio Stella, di Unità sindacale – Fnsi.
Che cosa potremmo aspettarci da questa riforma dell’INPGI? L’Istituto resterà più generoso dell’Inps. Ma lo sarà certamente molto meno che in passato. L’ipotesi più plausibile è che si intervenga in modo deciso sulle pensioni di anzianità, che hanno messo in ginocchio il rapporto entrate-uscite contributive negli ultimi 7 anni. La manovra colpirà anche (soprattutto?) gli ammortizzatori sociali, cassa integrazione, contratti di solidarietà e disoccupazione, il cui uso ha consentito agli editori di mettere a posto i loro bilanci a spese della previdenza dei giornalisti, mettendo a rischio le loro pensioni. Al momento l’unica “inclusione” riguarderebbe solo il patrimonio dell’Inpgi2 da portare dentro l’Inpgi1 (forse per mettere una nuova pezza a conti che da molto tempo non tornano). E non è nemmeno detto che, tra le righe, non si voglia far intendere che si interverrà anche sulle pensioni in essere (sul puntoho già annunciato denunce a raffiche alla Procura di Roma).
Alcune menti eccelse del Cda dell’Inpgi pensavano di presentare il conto della crisi ai pensionati sotto forma di prelievi (sugli assegni) non previsti dallo Statuto dell’Istituto. Il Cda si occupa delle pensioni future non di quelle in essere. La Cassazione ha già ripetutamente stabilito che le Casse non possono tagliare le pensioni per via amministrativa. Il ministro dell’Economia, Pier Giorgio Padoan, ha dichiarato pochi giorni fa che “i diritti acquisiti si preservano sempre”. Padoan è il ministro che, con Giuliano Poletti, dovrebbe ratificare le eventuali decisioni creative del Cda dell’Inpgi. Poletti peraltro ha escluso il ricalcolo contributivo delle pensioni in essere. L’Inpgi è avvertito.
È l’ora delle scelte responsabili per l’ INPGI, sì, ma anche coraggiose e fuori dagli schemi ideologici e sindacali. E bisogna agire in fretta. La situazione è drammatica. L’Istituto ufficialmente nega, ma ha iniziato a intaccare il patrimonio (163 mln negli anni 2013 e 2014).
“Il patrimonio accantonato, che supera i 2,3 miliardi di euro, non è stato intaccato, nonostante il grave quadro di sistema” afferma il comunicato diramato il 28 maggio dall’Inpgi dando conto dell’approvazione del bilancio consuntivo 2014. Purtroppo non è così. Ezio Chiodinispiega, dopo una lettura critica del bilancio, che nel corso del 2014 l’Istituto ha venduto titoli per 60 milioni “per il soddisfacimento delle esigenze di liquidità”. E che titoli per 102.997.000 erano stati già venduti nel corso del 2013 sempre “per il soddisfacimento delle esigenze di liquidità”.
Questa notizia denota lo stato di crisi dell’Inpgi insieme ad altri indicatori: l’ente incassa 100 euro per contributi e ne spende 130 per prestazioni pensionistiche. Il rapporto pensionati/attivi desta amare preoccupazioni: a fronte di un pensionato versano contributi meno di due giornalisti attivi (1,91 per l’esattezza, mentre fino a non molti anni fa il rapporto era 1-2,8). Questo quadro ha spinto il Cda a studiare una riforma “responsabile”, che, comunque, si muove in un contesto ideologico e sindacale e che respinge per ora le innovazioni della “legge Fornero” e del Jobs Act.
Un “documento Camporese” spiega la riforma (ipotizzata) dell’Inpgi: sono sette gli interventi strutturali sulla gestione previdenziale. Le proposte prevedono sia interventi sulle entrate contributive sia misure finalizzate al contenimento della spesa per prestazioni.
Appare difficile ipotizzare che con misure “sindacali” si possa realizzare un intervento strutturale che garantisca la sostenibilità della gestione nel lungo periodo. Il documento nulla dice sulle due forme di pensione di anzianità a 57 anni e a 62 anni con 35 anni di contributi (entrambe prevedono la penalizzazione del 20 per cento). La pensioni di anzianità (1.700 circa a fine 2013) sono state abolite per tutti gli italiani.
È evidente che nessuno chiede di agire con l’accetta, ma è altrettanto evidente che la pensione a 57 anni sia da cancellare nel giro di tre anni, mentre quella (contrattuale, art 33 Cnlg) a 62 anni potrebbe sopravvivere come soluzione flessibile di uscita dal sistema produttivo con la penalizzazione esistente del 20%.
I prepensionamenti (ex legge 416/1981, art 37) sono da abolire o da correggere: oggi scattano con due numeri (58 anni di età e almeno 18 anni di contributi). L’età va innalzata (60/61 anni?) e i contributi pure (25?).
Lo scivolo di 5 anni? È un istituto ormai morto, un regalo insostenibile per l’erario. Un membro del Cda ha spiegato che oggi l’Inpgi a ogni cassintegrato regala 21mila euro in più rispetto all’Inps e a ogni pensionato 17 mila euro in più rispetto all’Inps. Possiamo ancora permetterci questi lussi?
I contratti di solidarietà non andrebbero scaricati sulla fiscalità generale? L’Inpgi per di più deve adottare le regole Inps anche per quanto riguarda il metodo contributivo (quello Inpgi sarebbe troppo blando). La crisi dell’editoria ha travolto l’Istituto, che può sopravvivere a patto che i suoi dirigenti siano responsabili e decisi ad uscire dagli schemi sindacali e ideologici. L’Inpgi deve pagare le pensioni e non fare politica sociale. Quest’ultima è assicurata dallo Stato con il Jobs Act (Aspi, Naspi, Asdi, DisColl).
Finora Fnsi e Fieg hanno addossato all’Inpgi i costi delle loro scelte. Gli editori devono all’Inpgi 301 milioni di contributi e 140 milioni al Fondo ex fissa. L’Inpgi e la Fnsi hanno tenuto un comportamento morbido in vista della firma del contratto? Ma ora chiederanno i quattrini a lor signori? O staranno zitti? La festa è davvero finita.
Il Cda dell’Inpgi è chiamato “ad una assunzione di responsabilità netta e senza alibi o prove di appello verso le generazioni future”. Il virgolettato è di Andrea Camporese, ma è valido anche per completare il discorso fatto in maniera che qualcuno definirà “non politico”. Ma la politica cosa c’entra con l’Inpgi? L’Inpgi non ha altre scelte per salvarsi oppure dovrà necessariamente, come Inpdai e Inpdap, confluire nell’Inps di cui, unica Cassa, è ente sostitutivo. E poi, attuando nei fatti la trasparenza, gli iscritti hanno diritto di saper tutto sul “Fondo immobiliare Giovanni Amendola”.
Ed ecco l’analisi di Sergio Stella di Unità sindacale-Fnsi
Sette pagine fitte di motivazioni e dati in gran parte già noti ma rielaborati ad hoc per sostenere le ragioni della vicina riforma. E sette punti stringatissimi che annunciano che cosa prevede “l’attuale livello di avanzamento della discussione interna al Cda” dell’Inpgi. Alzi la mano chi ha capito, tra i giornalisti italiani, che cosa ci aspetta dall’intervento su pensioni e ammortizzatori sociali! Probabilmente, lo hanno capito in pochi anche nel Consiglio generale del 27 maggio (che ha approvato il bilancio 2014 con sole cinque astensioni), se le uniche voci che si sono levate sono andate nella direzione di un rinnovato no alla riduzione delle pensioni in essere e a generiche affermazioni politiche.
Dal documento che il presidente dell’Istituto Andrea Camporese ha fatto filtrare durante il Consiglio generale di mercoledì scorso, per poi pubblicarlo il giorno successivo sul sito dell’Ente previdenziale (clicca qui), si comprende in verità subito una cosa: solo dopo sei anni, e forse più, di segnali chiarissimi di crisi del sistema dell’informazione e di squilibrio crescente tra entrate e uscite dell’Inpgi, peraltro ampiamente e da tempo segnalati nelle relazioni annuali della Corte dei conti sui bilanci dell’Ente, il Consiglio di amministrazione si è deciso a studiare una riforma.
Fino a oggi, a parte l’aumento di tre punti di aliquota a carico degli editori decisa da Fnsi e Fieg, altre misure concordate da Sindacato ed editori nei rinnovi contrattuali 2009, 2011 e 2014 (nemmeno citati da Camporese) e una riforma sull’età pensionabile delle donne che darà risultati tra diversi anni, l’azione del Cda dell’Istituto è stata davvero limitata sul fronte delle prospettive a lungo termine. Ma qualcosa di più si può provare a interpretare dietro le scarne parole, per non trovarsi impreparati quando tutto sarà già stato deciso. Cosa che avverrà in tempi molto rapidi se la Giunta esecutiva della Fnsi insieme ai rappresentanti delle 20 Associazioni regionali di stampa incontrerà il Cda dell’Inpgi il prossimo 9 giugno “per discutere delle linee della prossima riforma”.
Ecco le sette indicazioni sette che dovrebbero tracciare, in base al documento del presidente Camporese, il futuro dei giornalisti italiani:
“1) Azioni graduali e prospettiche che escludano la creazione di scaloni ed “esodati”, salvaguardando scelte di vita già compiute;
2) Mantenimento della possibilità di andare in pensione con i 40 anni;
3) La non applicabilità dell’aspettativa di vita;
4) La tutela degli accordi in essere connessi agli stati di crisi;
5) Un intervento molto limitato sul livello degli ammortizzatori sociali che, per buona parte, discendono da norme generali di legge;
6) Il mantenimento di forme di flessibilità in uscita che consegnino ai singoli la possibilità di decidere la data del proprio pensionamento dentro un quadro di sostenibilità dell’Ente;
7) Il mantenimento di sostanziali ed evidenti specificità e vantaggi rispetto al sistema generale garantito dall’Inps”.
Partiamo dalla settima e ultima affermazione, che suona come un’excusatio non petita: l’Inpgi resterà più generoso dell’Inps. Altrimenti, perché non trasferirsi direttamente nel sistema di previdenza e assistenza pubblica garantito dallo Stato? Ma lo sarà certamente molto meno che in passato. Quanto meno non è però chiaro.
Il punto 2) sembra consegnare una sicurezza: con 40 anni di contributi versati si potrà ancora andare in pensione, indipendentemente dall’età anagrafica. Una consolazione per chi ha iniziato la professione entro i 25 anni e non ha mai avuto periodi di interruzione di contratti, ma che interessa poco la generazione di trenta-quarantenni precari, con pochi e incostanti contributi versati.
Il punto 3), assicurando che non si procederà con il calcolo dell’aspettativa di vita, che nel sistema pubblico fa aumentare automaticamente e senza limiti l’età pensionabile, potrebbe significare che restano per i giornalisti i 65 anni attualmente stabiliti per il diritto alla pensione di vecchiaia. Ma non è detto che la riforma non fissi un altro livello di età, ovviamente superiore ai 65 anni, che però resterebbe cristallizzato nel tempo e non soggetto ad aumenti automatici.
Il primo punto è una promessa talmente generica che invece di rassicurare induce a pensare di tutto. Ok, le azioni saranno graduali, quindi non scatteranno a un’ora X oltre la quale tutto sarà perduto.
Non ci saranno scaloni che faranno slittare di anni e anni da un giorno all’altro la possibilità di andare in pensione. E non si creeranno neppure “esodati”, cioè dovrebbero essere garantiti i colleghi che hanno già lasciato il posto di lavoro contando su una normativa che gli avrebbe consentito in breve tempo di accedere al pensionamento (interpretando l’espressione “scelte di vita già compiute” altrimenti indecifrabile perché davvero molto generica: che ne sanno all’Inpgi delle scelte di vita di ogni giornalista italiano?). Tutto bene, dunque.
Ma su quali saranno le azioni graduali che non agiranno a scaloni e non creeranno “esodati” non si dice proprio nulla. E non è nemmeno detto che, tra le righe, non si voglia far intendere che si interverrà anche sulle pensioni in essere (sul punto Franco Abruzzo ha già annunciato denunce a raffiche alla Procura di Roma). Così come al punto 6) si assicura che ci sarà ancora la possibilità di andare in pensione con “flessibilità”, quindi prima della vecchiaia piena. Previsione che del resto sta tornando anche per i pensionamenti dell’Inps. Ma a quale età, con quanti contributi e, soprattutto, con quali penalizzazioni non sono dettagli di poco conto.
Oggi, per esempio, le pensioni di anzianità permettono ancora ai giornalisti con con 35 anni di contributi complessivamente versati (cioè sommando Inpgi e Inps) di andare in pensione a partire dai 57 anni di età, seppur con decurtazioni definitive dell’assegno fino al 20% (la pensione piena si ottiene solo se si esce a 62 anni compiuti, sempre con i 35 anni di contribuzione).
Per intenderci, sono quello strumento ampiamente utilizzato in questi anni da alcune aziende, in particolare la Rai e le testate Finegil del gruppo Espresso-Repubblica, per ridurre gli organici senza ricorrere agli ammortizzatori sociali con incentivazioni all’esodo rese molto appetibili appunto dalla prospettiva dell’immediato pensionamento, tutto e interamente a carico dell’Inpgi e dei contributi di chi è rimasto al lavoro. Niente a che vedere con i prepensionamenti previsti dalla legge 416 del 1981 sugli stati di crisi, che invece dal 2009 sono a totale carico dello Stato e, in parte, delle aziende.
L’ipotesi più plausibile è che si intervenga appunto in modo deciso sulle pensioni di anzianità. Nessuno lo dice, ma sono stati proprio i pensionamenti volontari di anzianità a mettere in ginocchio il rapporto tra entrate e uscite contributive dell’Inpgi negli ultimi sette anni. Bastava leggere bene i dati contenuti nelle note integrative ai bilanci e nelle relazioni della Corte dei conti per capirlo subito: dal 2007 al 2013, i pensionati diretti (escluse le pensioni ai superstiti) sono passati in totale da 4.074 a 5.795, con un aumento di 1.721 unità. Tra questi, 576 sono imputabili a prepensionamenti (non a carico dell’Inpgi) mentre ben 837 sono rappresentanti da pensioni anticipate di anzianità, a totale carico dell’Istituto. E a questi dati bisogna aggiungere quelli del 2014, con un totale di 554 nuove pensioni, di cui 110 prepensionamenti. Il fenomeno di trend crescente della “propensione al pensionamento volontario anticipato” era noto e tema di considerazione da anni, all’interno dell’Inpgi. Eppure finora non si è mai voluti intervenire. Mentre adesso il ritardo evidente impone una manovra sicuramente più dura, per i giornalisti tutti.
Una manovra che colpirà anche (soprattutto?) gli ammortizzatori sociali: cassa integrazione, contratti di solidarietà e disoccupazione. Quegli strumenti che sono riusciti a dare sostegno a tanti colleghi in questi anni di crisi, con chiusura di molte testate, senza i quali oggi il presidente Camporese non scriverebbe di una perdita di circa 3 mila rapporti di lavoro, ma probabilmente del doppio o anche di più.
Il punto 4) del documento assicura che tutti gli accordi in essere relativi a stati di crisi saranno tutelati. E sinceramente non si capirebbe come potrebbe essere altrimenti. Mentre il punto 5) prospetta un “intervento molto limitato” sugli ammortizzatori sociali, ricordando che questi, “per buona parte, discendono da norme generali di legge”. Come dire: vorremmo fare molto di più, ma le leggi ci impediscono di usare l’accetta.
Definire un intervento “molto limitato” dipende in ogni caso dai punti di vista. La disoccupazione, tanto per entrare nel merito, che non dipende da norme generali ma ha peculiarità da sempre proprie all’Inpgi, ha subito più modifiche negli anni, che hanno progressivamente ridotto la sua entità, la sua durata, la copertura previdenziale figurativa garantita e, in ultimo, l’ha esclusa definitivamente per chi dà volontariamente le dimissioni. Si può davvero pensare di intervenire ancora, magari ricalcando le nuove regole generali della Naspi ed eliminando una preziosa protezione per i colleghi che perdono il lavoro proprio quando sta entrando in vigore il Jobs Act?
La cassa integrazione straordinaria, la cigs, che per i giornalisti di quotidiani, periodi e agenzie di stampa (escludendo quindi i colleghi di radio e televisioni nazionali e locali) viene regolata dalla legge 416/81, è ancora oggi prevista per 24 mesi anche nei casi di chiusura totale e parziale di un’azienda (chiusura di testate, per esempio) e nelle procedure fallimentari (liquidazione e fallimento). Che cosa accadrebbe se l’Inpgi chiedesse ai ministeri un deroga alla 416 e quindi l’applicazione delle norme generali? Quanti colleghi finirebbero direttamente in disoccupazione (magari rivista pure al ribasso) nel caso di chiusura di una testata in un gruppo che va avanti nell’attività? E quanti altri, di fronte al fallimento della propria azienda, si ritroverebbero senza alcuna protezione? Senza contare che, chiusa una testata e licenziati tutti i dipendenti, per l’editore riuscire a venderla ad altri sarebbe un gioco da ragazzi.
I contratti di solidarietà, infine. L’ammortizzatore che più è cresciuto nell’utilizzo (e nella spesa) negli ultimi anni, anche per scelta consapevole del Sindacato, proprio perché non solo è per definizione difensivo rispetto ai posti di lavoro, ma costituisce una speranza concreta pure per l’Inpgi di un futuro ritorno alla contribuzione piena dei giornalisti coinvolti. Sappiamo tutti benissimo che chi perde oggi un posto di lavoro, difficilmente lo ritroverà. E anche chi è andato in cigs a zero ore in questi anni spesso non è riuscito dopo i 24 mesi di cassa a rientrare nella propria azienda. Mentre chi ha un contratto di solidarietà continua a lavorare e ha la prospettiva di non diventare un disoccupato. Con vantaggi indubbi anche per l’Inpgi e per tutta la categoria.
Inspiegabilmente, invece, proprio sui contratti di solidarietà sembrano concentrarsi i desideri di limitazioni e di modifiche di molti. Cercando le strade possibili tra le righe della legge generale che li regola.
L’Inpgi è già intervenuta, con l’accordo del Sindacato, per mettere un tetto all’importo della restituzione del 60% della retribuzione persa dal giornalista, in deroga alla legge generale (non paga oltre l’importo dell’assegno mensile di cigs). Così come la Fnsi si è data la regola (purtroppo spesso non applicata proprio da alcuni tra i suoi maggiori rappresentanti di ieri e di oggi) di non sottoscrivere accordi oltre il 30% di riduzione dell’orario di lavoro, nonostante la normativa preveda un intervento fino al 60%. Come altro l’Inpgi pensa di intervenire?
Il segretario della Fnsi, Raffaele Lorusso, ha pubblicamente ipotizzato, per esempio, che si possa limitare la restituzione del 60% ai soli minimi contrattuali, escludendo quindi voci come scatti, superminimi o altre indennità fisse. Altre voci fanno intendere che non solo si dovrebbero escludere tutte le voci degli integrativi aziendali, ma che questi andrebbero disdettati prima di poter accedere al contratto di solidarietà. Altre ancora puntano all’azzeramento delle ferie arretrate prima della sottoscrizione del contratto e non nel corso dei due anni, come spesso previsto finora negli accordi. C’è bisogno di mettere nero su bianco quel che succederebbe, se passassero queste ipotesi?
Ultimissima considerazione: dove sono i collaboratori e i freelance all’interno di questa riforma? Scomparsi! L’allargamento delle tutele anche ai giornalisti non dipendenti è stato per mesi sbandierato come nodo centrale delle future politiche sindacali e dell’Inpgi. E pure il contratto siglato nel 2014 impegna Fnsi e Fieg a intervenire sui Ministeri per soluzioni di inclusione, che portino almeno i cococo dalla gestione separata a quella principale. Al momento però, sembra di capire, l’unica “inclusione” che qualcuno lascia intravedere riguarderebbe solo il patrimonio dell’Inpgi2, da portare dentro l’Inpgi1. Forse per mettere una nuova pezza a conti che da molto tempo non tornano.
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