Pensioni, tagli incostituzionali: nuova sentenza della Corte (testo integrale)

Pensioni, tagli incostituzionali: sentenza integrale della CorteROMA – Diritti dei pensionati, anche quelli delle pensioni d’oro. Una nuova sentenza della Corte costituzionale ribadisce indirettamente i principi di incostituzionalità dei tagli delle pensioni attraverso la definizione del concetto di tributo (che, come tale, è universale).

“La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente precisato che gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico (che produce obblighi, ndr); le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese. Un tributo consiste in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva»; indice che deve esprimere l’idoneità di tale soggetto all’obbligazione tributaria”.

TRADUZIONE: il prelievo previsto dalla legge di stabilità 2014 sulle pensioni superiori a 90mila euro ha natura tributaria per la sua destinazione a “pubbliche spese” e non può ricadere su una parte dei cittadini (i pensionati), mentre i cittadini lavoratori a parità di reddito ne sono esenti.

Pubblichiamo la sentenza integrale:

SENTENZA N. 304 – ANNO 2013

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Gaetano SILVESTRI Presidente

– Luigi MAZZELLA Giudice

– Sabino CASSESE “

– Giuseppe TESAURO “

– Paolo Maria NAPOLITANO “

– Giuseppe FRIGO “

– Alessandro CRISCUOLO “

– Paolo GROSSI “

– Giorgio LATTANZI “

– Aldo CAROSI “

– Marta CARTABIA “

– Sergio MATTARELLA “

– Mario Rosario MORELLI “

– Giancarlo CORAGGIO “

– Giuliano AMATO “

ha pronunciato la seguente sentenza

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, promossi dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con un’ordinanza del 19 giugno, quattro ordinanze del 6 luglio e una ordinanza del 3 luglio 2012, rispettivamente iscritte ai nn. 218, 219, 243, 244, 245 e 246 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 41 e 44, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visti gli atti di costituzione di Adriana Apollonio ed altri, di Massimo Lavezzo Cassinelli ed altro e di Sandro De Bernardin, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 5 novembre 2013 e nella camera di consiglio del 6 novembre 2013 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

uditi gli avvocati Monica Scongiaforno per Adriana Apollonio ed altri, Ugo Sgueglia per Massimo Lavezzo Cassinelli ed altro e per Sandro De Bernardin e l’avvocato dello Stato Enrico De Giovanni per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.− Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con sei ordinanze di identico tenore (reg. ord. nn. 218, 219, 243, 244, 245 e 246 del 2012) ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 36, 53 e 97 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122.

1.1.− I giudizi a quibus hanno tutti ad oggetto ricorsi avverso provvedimenti di nomina di personale della carriera diplomatica nei quali è specificato che il provvedimento, ai sensi della norma impugnata, ha effetto a fini esclusivamente giuridici. I provvedimenti impugnati, infatti, sono attuativi del terzo periodo del comma 21 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010; comma che si riporta integralmente: «I meccanismi di adeguamento retributivo per il personale non contrattualizzato di cui all’articolo 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, così come previsti dall’articolo 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, non si applicano per gli anni 2011, 2012 e 2013 ancorché a titolo di acconto, e non danno comunque luogo a successivi recuperi. Per le categorie di personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, che fruiscono di un meccanismo di progressione automatica degli stipendi, gli anni 2011, 2012 e 2013 non sono utili ai fini della maturazione delle classi e degli scatti di stipendio previsti dai rispettivi ordinamenti. Per il personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni le progressioni di carriera comunque denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici. Per il personale contrattualizzato le progressioni di carriera comunque denominate ed i passaggi tra le aree eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici».

I giudizi a quibus si differenziano perché in uno il ricorso si riferisce alla nomina a consigliere di ambasciata (ordinanza n. 218), in altri i ricorsi traggono origine dalla nomina a ministro plenipotenziario (ordinanze nn. 219, 243, 244, 245), e infine, nell’ultimo, dalla nomina ad ambasciatore (ordinanza n. 246).

Il rimettente, con riferimento alle nomine a ministro plenipotenziario e ad ambasciatore ritiene infondata la tesi dei ricorrenti secondo la quale tali nomine non costituirebbero una progressione di carriera, ma un vero e proprio cambiamento di status, restando, pertanto, estranee alla regolazione discendente dal citato art. 9, comma 21, che presuppone, invece, proprio la progressione di carriera.

Il Tar del Lazio ritiene che, nell’ambito dell’unicità del ruolo prevista dall’art. 101 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18 (Ordinamento dell’Amministrazione degli affari esteri), il passaggio tra i predetti gradi realizzi un vero e proprio sviluppo della carriera, rendendo irrilevante la circostanza, segnalata dai ricorrenti, che le successive disposizioni prevedano l’accesso ai primi tre gradi mediante «promozione» (artt. 103, 107, 108) e l’accesso ai due gradi apicali per «nomina» (artt. 109 e 109-bis), in quanto tali modalità riflettono esclusivamente l’esistenza di un diverso rapporto fiduciario con l’istituzione di appartenenza tra il promosso ed il nominato. Osserva, poi, che in ogni caso l’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, con la locuzione «progressioni di carriera comunque denominate», fa riferimento a qualsiasi tipo di avanzamento di carriera ricomprendendo anche quelle che presuppongono l’esercizio di una elevata discrezionalità nella scelta tra i candidati provenienti dai gradi inferiori.

Il rimettente ritiene infondata anche la tesi avanzata nei ricorsi secondo la quale la disposizione impugnata, quale norma di carattere generale, non possa derogare, modificandola, alla disciplina speciale che regola il trattamento economico dei diplomatici, di cui agli artt. 101 e 112 del predetto d.P.R. n. 18 del 1967 ed all’art. 1 e seguenti del d.P.R. 13 agosto 2010, n. 206 (Recepimento dell’accordo sindacale per il personale della carriera diplomatica, relativamente al servizio prestato in Italia – Biennio giuridico ed economico 2008-2009).

Nei ricorsi, infatti, si evidenzia, in particolare, che il personale appartenente alla carriera diplomatica è retto dal proprio specifico ordinamento, regolato dal d.P.R. n. 18 del 1967, il cui art. 112 − siccome sostituito dall’art. 14 del d.lgs. 24 marzo 2000, n. 85 (Riordino della carriera diplomatica, a norma dell’articolo 1 della legge 28 luglio 1999, n. 266) − ha introdotto il sistema della contrattazione, da trasfondere successivamente in un atto regolamentare, emanato sotto forma di decreto del Presidente della Repubblica. Attualmente, l’atto di recepimento è rappresentato dal citato d.P.R. n. 206 del 2010, successivo allo stesso d.l. n. 78 del 2010, che, recependo l’ipotesi di accordo, ne ha espressamente decretato l’applicazione al personale appartenente alla carriera diplomatica. Pertanto, l’art. 112 del d.P.R. 18 del 1967 assegnerebbe al d.P.R n. 206 del 2010 la funzione di atto regolamentare speciale, che non può essere eterointegrato da prescrizioni pur contenute in una fonte di grado superiore, ma di carattere generale.

Anche tale percorso argomentativo viene confutato dal rimettente, sempre al fine di motivare la rilevanza delle questioni di costituzionalità sollevate. Afferma, infatti, che la delegificazione di una materia, effettuata mediante un atto avente forza e valore di legge, non esclude che altre norme dello stesso grado possano integrare, con previsioni generali o speciali, la disciplina della materia delegificata: in altre parole, la delegificazione comporta che la materia trovi la sua disciplina ordinaria in una fonte inferiore, non che questa sia l’unica fonte costituzionalmente legittima per la disciplina della materia stessa.

Nel caso di specie, l’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, per il tenore delle prescrizioni in esso contenute, e per la finalità che esso persegue − e, dunque, per la lettera e la ratio delle stesse − si prefigge lo scopo di intervenire su tutti i rapporti d’impiego con le pubbliche amministrazioni, quale sia la loro struttura e la fonte principale che li disciplina. Tanto che lo stesso comma 21 dispone che le progressioni di carriera, comunque denominate, ed i passaggi tra le aree eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 abbiano effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici non solo per il personale pubblico non contrattualizzato di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (in cui rientra il personale della carriera diplomatica), ma anche per il personale contrattualizzato.

Il Tar del Lazio ritiene, pertanto, estremamente chiara la volontà del legislatore di escludere, per il periodo in oggetto, efficacia economica a qualsiasi progressione di carriera, a prescindere dalla fonte che regola direttamente o indirettamente il rapporto stesso.

Per questi motivi, secondo il rimettente, acquista rilevanza, ai fini della decisione, la questione di costituzionalità dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010.

Nel motivare la non manifesta infondatezza, il rimettente premette che il concreto effetto della disposizione in questione, secondo cui «le progressioni di carriera comunque denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici», è quello della corresponsione al dipendente, per il triennio in questione, non delle somme corrispondenti agli emolumenti, al netto d’imposta, stabiliti per la posizione attuale, ma degli importi corrispondenti alla precedente qualifica di appartenenza, da cui il dipendente è cessato. In altri termini, per effetto della disposizione de qua, il dipendente, pur svolgendo un lavoro presuntivamente di maggiore complessità ed impegno, continua a percepire un corrispettivo equivalente al precedente trattamento economico, che si deve presumere adeguato invece ad una prestazione meno onerosa.

Secondo il rimettente, sussistono distinti profili di illegittimità costituzionale, non confliggenti, ma subordinati tra loro, nel rispetto, quindi, del principio, affermato dalla Corte costituzionale, che considera inammissibili le questioni di costituzionalità, della stessa disposizione di legge, poste tra loro in forma alternativa ed incompatibile.

L’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte d’interesse, determinerebbe anzitutto, in violazione dell’art. 2 (recte: 3) Cost., un’irragionevole disparità di trattamento all’interno del personale della carriera diplomatica.

Infatti, a parità di qualifica e con mansioni conseguentemente corrispondenti − con incarichi complessi e responsabilità di uffici apicali − tali dipendenti percepiscono o no lo stesso trattamento economico (a prescindere dalle maggiorazioni per la diversa anzianità nella qualifica stessa), in relazione ad un elemento del tutto aleatorio, costituito dall’anno in cui la qualifica è stata ad essi attribuita; situazione che non ha evidentemente relazione alcuna con il lavoro prestato.

Inoltre, risulterebbe violato anche l’art. 36 Cost., in quanto il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro (dato che si deve presumere che tale sia la retribuzione tabellare stabilita in conseguenza di una specifica trattativa con la parte datoriale pubblica, poi recepita nel decreto presidenziale più volte richiamato). Tale adeguata retribuzione, che continua ad essere corrisposta a coloro che sono stati promossi prima del 2011, è invece negata ai ricorrenti, oltretutto per un lungo intervallo di tempo, corrispondente ad oltre trentasei mensilità.

L’obiettivo perseguito dal legislatore con la disposizione impugnata sarebbe, secondo il Tar del Lazio, quello della riduzione del passivo del bilancio statale, ma tale obiettivo dovrebbe comunque armonizzarsi, secondo proporzionalità e ragionevolezza e nel rispetto dei principi di eguaglianza formale e sostanziale di cui agli artt. 2 e 3 Cost. con gli altri valori tutelati dalla Costituzione, tra cui appunto quelli definiti dall’art. 36 Cost.. Tale evenienza non si verificherebbe, invece, nella specie, in quanto «l’eliminazione del miglior trattamento economico, riferibile alla nuova posizione acquisita, contrast[erebbe] con il principio di proporzionalità, che il legislatore, pur nella sua discrezionalità, è tenuto a rispettare».

Per altro verso, poi, la differenziazione del trattamento economico tra colleghi, non in ragione delle mansioni e delle conseguenti responsabilità, ma in relazione ad un elemento casuale come il momento in cui la qualifica è stata conferita, interferirebbe negativamente sui rapporti tra i colleghi stessi, alcuni dei quali ingiustamente discriminati, e ciò si riverbererebbe sull’organizzazione degli uffici, incidendo negativamente sul loro buon andamento, in violazione dell’art. 97 Cost.

Sotto un diverso profilo, ed in subordine rispetto alle censure precedentemente dedotte, l’art. 9, comma 21, sebbene letteralmente prescriva di non accrescere il trattamento economico dovuto a determinate categorie di pubblici dipendenti, con un conseguente risparmio di spesa per l’Erario, sotto un profilo sostanziale e degli effetti, imporrebbe a quegli stessi dipendenti una prestazione patrimoniale costituita dalla trattenuta da parte dello Stato di una parte dei compensi maturati con la promozione. L’art. 9, comma 21, terzo periodo, imponendo agli interessati un peculiare concorso alle spese pubbliche, istituirebbe un tributo anomalo, in contrasto con i principi costituzionali in materia, quali quelli stabiliti dagli artt. 2, 3 e 53 Cost. Sarebbe, in tal modo, violato il principio di capacità contributiva, poichè il sacrificio sarebbe richiesto non in relazione ad uno specifico indice di ricchezza, ma al dato, economicamente insignificante, del momento in cui la qualifica è stata acquisita e senza alcuna considerazione del principio di progressività. Il Tar aggiunge che, in evidente violazione dei principi costituzionali prima richiamati, il tributo colpirebbe solo una parte dei dipendenti che hanno raggiunto una determinata qualifica e, comunque, soltanto i redditi dei pubblici dipendenti, senza invece gravare, a parità di capacità contributiva, su analoghe categorie di lavoratori, o di redditi.

Poiché un limite espresso all’azione impositiva, invece, è quello per cui a situazioni uguali devono corrispondere tributi uguali, ne consegue che sarebbe arbitrario ed irragionevole un sacrificio patrimoniale il quale incida soltanto sulla condizione e sul patrimonio di una determinata categoria di pubblici impiegati, lasciando altre categorie di lavoratori (essenzialmente e segnatamente autonomi) indenni, o, comunque, colpendoli più leggermente, a parità di capacità reddituale, in violazione del principio di uguaglianza ai sensi dell’art. 3 Cost. e del principio solidaristico di cui all’art. 2 Cost.

2.− È intervenuto nei giudizi di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

L’Avvocatura dello Stato, innanzi tutto, esclude che la disposizione censurata violi gli artt. 2 e 3 Cost., in quanto la Corte costituzionale ha già avuto occasione di affermare che misure di «blocco» dello stipendio adottate in un momento delicato della vita nazionale e segnate dalla finalità di realizzare, con immediatezza, un contenimento della spesa pubblica rispetto degli obiettivi fondamentali di politica economica e dei vincoli derivanti dal processo di integrazione europea possono ritenersi non lesive del principio di cui all’articolo 3 Cost. − sotto il duplice aspetto della non contrarietà al principio di uguaglianza sostanziale e di irragionevolezza − a condizione che siano eccezionali, transeunti, non arbitrarie e consentanee allo scopo prefissato (sentenze n. 245 del l997, n. 417 del 1996, n. 99 del 1995 e n. 6 del 1994; ordinanza n. 299 del 1999).

Il «blocco» introdotto dalla norma impugnata presenterebbe, all’evidenza, carattere provvedimentale, risultando disposto per un periodo contenuto nei limiti temporali dell’intervento emergenziale stabilito dal legislatore (e cioè per gli anni dal 2011 al 2013), al fine di impedire erogazioni per esigenze di riequilibrio di bilancio, e renderebbe, perciò, irrilevante, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, la diseguaglianza casuale collegata al momento di maturazione delle progressioni.

Quanto, invece, alla violazione degli articoli 2, 36 e 97 Cost., la parte resistente osserva che l’ordinanza di rimessione non contiene riferimenti utili a stabilire se la progressione di carriera comporti necessariamente lo svolgimento di incarichi «superiori», diversi e più onerosi di quelli svolti in precedenza, né se ciò sia avvenuto con riguardo ai ricorrenti.

La questione, dunque, prima ancora che infondata, risulterebbe irrilevante.

Con riguardo alla violazione degli artt. 2, 3 e 53 Cost., l’Avvocatura dello Stato rileva che, nel caso in esame, la norma censurata non prevede una decurtazione di una componente retributiva già dovuta e in godimento, parificabile ad un prelievo tributario, bensì opera un differimento del momento di maturazione di tale componente, che vale anche a fini contributivi.

Si tratterebbe, in altri termini, di un mero «blocco» stipendiale che deve essere considerato legittimo. Il differimento, peraltro, concerne tanto il personale non contrattualizzato di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 165 del 2001 quanto il personale contrattualizzato, sì che va escluso in radice qualunque profilo di disparità di trattamento nell’ambito del settore omogeneo e confrontabile dei lavoratori che prestano la loro attività alle dipendenze della pubblica amministrazione.

3.− Con riferimento all’ordinanza n. 218 del 2012, si sono costituiti i ricorrenti del giudizio a quo, chiedendo che la Corte, in accoglimento delle questioni sollevate dal Tar del Lazio, dichiari l’illegittimità costituzionale del terzo periodo del comma 21 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010.

4.− Con riferimento alle ordinanze n. 245 e n. 246 del 2012, si sono costituiti i ricorrenti dei giudizi a quibus, eccependo, in primo luogo, l’inammissibilità delle questioni sollevate e, in subordine, chiedendone l’accoglimento.

Secondo tali parti private, infatti, la norma censurata dal Tar del Lazio non dovrebbe applicarsi, in quanto le nomine nel grado, rispettivamente, di ministro plenipotenziario e di ambasciatore non costituiscono una progressione di carriera, ma un cambiamento di status.

Infatti, la carriera diplomatica retta dall’unitarietà del ruolo prevede i gradi di: segretario di legazione, consigliere di legazione, consigliere d’Ambasciata, ministro plenipotenziario e ambasciatore, ma solo per i primi tre gradi sarebbe prevista una normale progressione di carriera mediante una specifica procedura di promozione, mentre ai successivi due gradi si accederebbe solo mediante una nomina con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri.

Sarebbe dunque errata la tesi del rimettente che, in punto di rilevanza, ha ritenuto non fondato il motivo di ricorso attinente a questi profili, con conseguente inammissibilità delle questioni sollevate.

Un ulteriore profilo di inammissibilità deriverebbe dall’applicazione del criterio di specialità, in quanto al personale della carriera diplomatica non si applicherebbe la disciplina del d.l. n. 78 del 2010, ma quella specifica di cui al d.P.R. n. 206 del 2010.

In subordine, le parti private chiedono l’accoglimento delle questioni sollevate dal Tar del Lazio con argomentazioni analoghe a quelle delle ordinanze di rimessione.

5.− Con memorie depositate in prossimità dell’udienza, l’Avvocatura dello Stato insiste nelle proprie richieste, ribadendo le proprie argomentazioni in ordine all’infondatezza delle questioni sollevate.

6.− Con memorie depositate in prossimità dell’udienza, le parti private insistono nelle richieste formulate negli atti di costituzione.

Considerato in diritto

1.− Con sei ordinanze di identico tenore (reg. ord. nn. 218, 219, 243, 244, 245 e 246 del 2012) il Tribunale amministrativo del Lazio ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, in riferimento agli artt. 2, 3, 36, 53 e 97 della Costituzione.

1.1.− In considerazione dell’identità delle questioni, deve essere disposta la riunione dei giudizi, al fine di definirli con un’unica pronuncia.

1.2.− Secondo il rimettente, la norma censurata, nella parte in cui dispone che «Per il personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni le progressioni di carriera comunque denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici», determinerebbe, in violazione dell’art. 3 Cost., un’irragionevole disparità di trattamento all’interno del personale della carriera diplomatica, in quanto, a parità di qualifica e con mansioni conseguentemente corrispondenti, tali dipendenti percepirebbero un diverso trattamento economico, in relazione ad un elemento del tutto aleatorio costituito dall’anno in cui la qualifica è stata ad essi attribuita.

La norma indicata, inoltre, violerebbe l’art. 36 Cost., ledendo il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato (dato che si deve presumere che il rispetto di questo precetto costituzionale sia stato alla base della determinazione della retribuzione tabellare delle varie qualifiche), nonché gli artt. 2, 3 e 36 Cost., in quanto la riduzione del passivo del bilancio statale si deve comunque armonizzare, secondo proporzionalità e ragionevolezza, oltre che con i principi di eguaglianza formale e sostanziale, con gli altri valori tutelati dalla Costituzione, tra cui appunto quelli definiti dall’art. 36 Cost.

Risulterebbe violato anche l’art. 97 Cost., perché la differenziazione del trattamento economico non per le mansioni espletate ma in relazione ad un elemento casuale come il momento in cui la qualifica è stata conferita, interferirebbe negativamente sui rapporti tra i colleghi stessi, alcuni dei quali ingiustamente discriminati, determinando un effetto negativo sull’organizzazione degli uffici e sul loro buon andamento.

In via subordinata, il Tar del Lazio ritiene che il terzo periodo dell’art. 9, comma 21, violi anche gli artt. 2, 3 e 53 Cost. in quanto, trattenendo una parte dei compensi maturati con la promozione, imporrebbe ai dipendenti una prestazione patrimoniale in violazione del principio di capacità contributiva e senza alcuna considerazione del principio di progressività.

Il sacrificio patrimoniale imposto verrebbe in tal modo ad acquisire la veste di «tributo anomalo» che, incidendo soltanto sulla condizione e sul patrimonio di una determinata categoria di pubblici impiegati, lasciando altre categorie di lavoratori indenni, o, comunque, colpendoli più leggermente a parità di capacità reddituale, sarebbe arbitrario ed irragionevole e violerebbe il principio di uguaglianza fissato dall’art. 3 Cost. ed il principio solidaristico di cui all’art. 2 Cost.

2.− In via preliminare, i ricorrenti dei giudizi a quibus di cui alle ordinanze n. 245 e n. 246 del 2012 eccepiscono l’inammissibilità, in relazione al requisito della rilevanza, delle questioni sollevate dal rimettente, perché la norma impugnata non troverebbe applicazione per le nomine a ministro plenipotenziario e ad ambasciatore che costituirebbero non una promozione o progressione di carriera, ma un cambiamento di status.

Inoltre i medesimi ricorrenti eccepiscono un ulteriore motivo di inammissibilità assumendo che la norma censurata, in quanto a carattere generale, non potrebbe derogare la disciplina speciale che regola il rapporto di lavoro del personale della carriera diplomatica, che oramai può ritenersi interamente contrattualizzato.

2.1.− Entrambe le eccezioni non sono fondate.

Tali eccezioni sono già state proposte nel corso dei giudizi a quibus quali motivi di illegittimità dei provvedimenti impugnati.

Il Tribunale rimettente, nel motivare la rilevanza della questione, ha ritenuto di non aderire alla prima delle tesi dei ricorrenti innanzi indicata, in ragione dell’unitarietà del ruolo prevista dall’art. 101 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18 (Ordinamento dell’Amministrazione degli affari esteri). Il passaggio tra i gradi, secondo il Tar del Lazio, realizza un vero e proprio sviluppo della carriera, rendendo irrilevante la diversa disciplina delle modalità di progressione, ovvero «promozione» con decreto del Ministro degli esteri per i primi tre gradi (artt. 103, 107 e 108) e «nomina» (artt. 109 e 109-bis) con decreto del Presidente della repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta motivata del Ministro degli affari esteri.

In ogni caso, in questa sede deve rilevarsi che l’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, con la locuzione «progressioni di carriera comunque denominate», fa riferimento a tutti i tipi di avanzamento di carriera, ricomprendendo anche quelli che presuppongono l’esercizio di una elevata discrezionalità nella scelta tra i candidati provenienti dai gradi inferiori, che, però, non può estendersi fino a comprendere funzionari che abbiano un’anzianità nel grado di provenienza inferiore ai minimi legislativamente previsti o a persone estranee alla carriera stessa.

In relazione all’altra eccezione di inammissibilità, non vi è dubbio che la norma censurata trovi applicazione in tutti i rapporti d’impiego con le pubbliche amministrazioni, quale sia la loro struttura e la fonte che li disciplina.

3.− La questione di costituzionalità dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, sollevata in riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost., non è fondata.

Il trattamento economico e funzionale del personale diplomatico, al contrario di quanto sostiene il rimettente, non è eguale per tutti i dipendenti posizionati nel medesimo grado. Al riguardo, occorre osservare, sia che la voce retributiva oggetto della presente questione è solo una delle voci che costituiscono il trattamento complessivo dei funzionari della carriera diplomatica, sia che nell’ordinamento di tale personale non è prevista l’obbligatoria corrispondenza tra grado e funzioni e, conseguentemente, tra grado e trattamento economico collegato all’esercizio delle funzioni.

Per ciò che concerne il primo dei punti innanzi evidenziati, vi è da considerare che l’art. 3 del d.P.R. 13 agosto 2010, n. 206 (Recepimento dell’accordo sindacale per il personale della carriera diplomatica, relativamente al servizio prestato in Italia), prevede che la voce relativa allo stipendio tabellare conviva, per il periodo in cui detti funzionari prestano la loro attività in Italia, con altre due voci, retribuzione di posizione e di risultato, e che per il personale che svolge le sue funzioni all’estero è prevista la corresponsione di indennità e misure di favore disciplinate dagli artt. 170 e seguenti del d.P.R. n. 18 del 1967 (tra le quali ha particolare rilievo quella «di servizio all’estero»), sulle quali non opera, ovviamente, la cristallizzazione stipendiale di cui si tratta. Ed è opportuno, al riguardo, tenere presente, con riferimento a quest’ultima voce, che per il personale della carriera diplomatica lo svolgimento del servizio all’estero non costituisce un dato occasionale, ma un normale adempimento delle funzioni relative allo svolgimento dei «compiti spettanti allo Stato in materia di rapporti politici, economici, sociali e culturali con l’estero» attribuiti al Ministero dall’art.12 del d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59).

Quanto al secondo aspetto, vale a dire la presenza di disposizioni legislative che escludono l’obbligatoria corrispondenza tra grado e svolgimento delle funzioni, deve richiamarsi l’art. 101 del d.P.R. n. 18 del 1967, che prevede, al quarto comma, che: «Il funzionario diplomatico che consegua l’avanzamento al grado superiore può continuare ad esercitare le precedenti funzioni per il tempo richiesto dalle esigenze di servizio»; al quinto comma, che: «In deroga a quanto stabilito dal terzo comma, lettera b) del presente articolo, i funzionari diplomatici, purché compresi in ordine di ruolo nei primi due terzi dell’organico del grado, possono essere destinati, per esigenze di servizio, a coprire posti all’estero cui corrispondono funzioni del grado immediatamente superiore, ai sensi della tabella 1, in sedi individuate con decreto del Ministro degli affari esteri, di concerto con quello del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, fatto salvo quanto è disposto nel successivo sesto comma per i capi di rappresentanza diplomatica»; e, al sesto comma, che: «Con il medesimo decreto di cui al quinto comma del presente articolo sono altresì individuate le rappresentanze diplomatiche a cui possono essere preposti, per ragioni di servizio, consiglieri d’ambasciata compresi nei primi due terzi dell’organico del grado».

Risulta evidente, pertanto, che l’assunto da cui muove il rimettente circa l’uniformità del trattamento retributivo del personale della carriera diplomatica in relazione al grado o alle funzioni ricoperte e la necessaria corrispondenza tra le funzioni esercitate e il grado ricoperto, non trova alcuna conferma nella disciplina del personale della carriera diplomatica.

Inoltre, deve rilevarsi che, pur in presenza di un principio di carattere generale di tendenziale allineamento stipendiale, per evitare, tra gli appartenenti alla medesima qualifica o al medesimo grado, disparità di trattamento, nel caso di specie manca uno degli elementi cui è connessa l’esigenza dell’identico trattamento retributivo, vale a dire il possesso della medesima anzianità di servizio. Infatti, coloro che hanno maturato il diverso trattamento connesso alla progressione in carriera avvenuta prima del 2011 hanno comunque una maggiore anzianità di servizio, la quale già di per sé può giustificare un diverso trattamento retributivo.

Va sottolineato, infine, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, è ammessa una disomogeneità delle retribuzioni anche a parità di qualifica e di anzianità nelle ipotesi di conservazione di elementi retributivi derivanti da posizioni personali di stato, ovvero spettanti per effetto di incarichi o funzioni non aventi carattere di generalità, ovvero derivanti dal mantenimento di più favorevoli trattamenti economici comunque conseguiti in settori diversi dell’amministrazione. Sulla base di queste motivazioni si è ritenuta legittima la disciplina (di cui all’art. 7 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, recante «Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali», convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 14 novembre 1992, n. 438) che ha determinato l’abrogazione del cosiddetto istituto dell’allineamento stipendiale, già introdotto dall’art. 4, terzo comma, del decreto-legge 27 settembre 1982, n. 681 (Adeguamento provvisorio del trattamento economico dei dirigenti delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e del personale ad essi collegato), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 20 novembre 1982, n. 869, «proprio al fine di ovviare a situazioni di disparità di trattamento retributivo determinatesi nell’ambito di una stessa qualifica in relazione al riconoscimento di trattamenti “personalizzati”, non collegati a specifiche situazioni di stato del beneficiario e conseguenti al “trascinamento” di anzianità pregresse maturate in qualifiche e ruoli diversi» (sentenza n. 6 del 1994). Può, quindi, addirittura verificarsi che, in casi particolari, nella stessa amministrazione dipendenti con minore anzianità di servizio e, presumibilmente, con incarichi di minor rilievo percepiscano retribuzioni più elevate.

4.− Le questioni di costituzionalità dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, per violazione degli artt. 2, 3 e 36 97 Cost., sono parimenti non fondate.

In riferimento agli artt. 36 e 97 Cost. questa Corte si è ripetutamente espressa nel senso che «la proporzionalità e sufficienza della retribuzione devono essere valutate considerando la retribuzione nel suo complesso, non in relazione ai singoli elementi che compongono il trattamento economico (ordinanza n. 368 del 1999; sentenza n. 15 del 1995), mentre il principio di buon andamento dell’amministrazione non può essere richiamato per conseguire miglioramenti retributivi (ordinanza n. 205 del 1998; sentenza n. 273 del 1997)» (ordinanza n. 263 del 2002).

Risulta evidente, pertanto, l’infondatezza delle censure relative alla lesione del diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, quale quella che si deve presumere in relazione alla retribuzione tabellare attuale dei ricorrenti nei giudizi principali, e alla lesione del buon andamento della pubblica amministrazione.

Con riferimento ai restanti parametri, deve evidenziarsi che, nel caso in esame, la misura adottata è giustificata dall’esigenza di assicurare la coerente attuazione della finalità di temporanea “cristallizzazione” del trattamento economico dei dipendenti pubblici per inderogabili esigenze di contenimento della spesa pubblica, realizzata con modalità per certi versi simili a quelle già giudicate da questa Corte non irrazionali ed arbitrarie (sentenze n. 496 e n. 296 del 1993; ordinanza n. 263 del 2002), anche in considerazione della limitazione temporale del sacrificio imposto ai dipendenti (ordinanza n. 299 del 1999).

Va in questa sede ribadito il principio, affermato più volte da questa Corte, secondo il quale dalla disciplina costituzionale in vigore non è dato desumere, per i diritti di natura economica connessi a rapporti di durata, anche nel pubblico impiego, una specifica protezione contro l’eventualità di norme retroattive: di talché, su questo piano, il vero limite nei confronti di norme di tale natura non può essere ricercato altro che nell’esigenza del rispetto del principio generale di ragionevolezza comprensivo della tutela dell’affidamento (ex plurimis, sentenze n. 31 e n. 1 del 2011; n. 302 del 2010; n. 228 del 2010; n. 74 del 2008).

In assenza di un’esigenza costituzionale di parità di trattamento ed a fronte di una situazione di fatto in cui lo stesso verificarsi della “progressione di carriera” rappresenta un’eventualità di non sicura attuazione, pertanto, la norma censurata non può dirsi irragionevole viste le sue finalità di contenimento della spesa pubblica per far fronte alla grave crisi economica. Spetta infatti al legislatore, nell’equilibrato esercizio della sua discrezionalità e tenendo conto anche delle esigenze fondamentali di politica economica (sentenze n. 477 e n. 226 del 1993), bilanciare tutti i fattori costituzionalmente rilevanti.

Nelle ordinanze da n. 243 a n. 246 del 2012, il rimettente afferma, con riferimento alla ipotizzata violazione dell’art. 36 Cost., che «la disposizione non regola la posizione di coloro tra essi che, nominati Ministri Plenipotenziari [o «Ambasciatori»: ordinanza n. 246] nel considerato triennio 2011/2013, saranno, nell’arco dello stesso periodo, collocati a riposo per raggiunti limiti di età». Poiché la questione non costituiva oggetto dei giudizi principali, il rimettente formula la sopra riportata considerazione, con la quale imputa al legislatore un’omissione (quella cioè di non aver regolato situazioni che presentavano determinate peculiarità), senza però farne, correttamente, oggetto di una specifica richiesta atta a promuovere su questo diverso aspetto il giudizio incidentale. Il punto, quindi, esula dal presente procedimento.

5.− Anche la questione di costituzionalità dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, per violazione degli artt. 2, 3 e 53 Cost., non è fondata.

La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente precisato che gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese.

Un tributo consiste in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva» (sentenza n. 102 del 2008); indice che deve esprimere l’idoneità di tale soggetto all’obbligazione tributaria (sentenze n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965, n. 45 del 1964).

La norma censurata, sulla base degli indici ora riportati, non ha natura tributaria in quanto non prevede una decurtazione o un prelievo a carico del dipendente pubblico. Pertanto, in assenza di una decurtazione patrimoniale o di un prelievo della stessa natura a carico del soggetto passivo, viene meno in radice il presupposto per affermare la natura tributaria della disposizione. Inoltre, viene a mancare anche il requisito relativo all’acquisizione delle risorse al bilancio dello Stato, in quanto la disposizione non realizza un’acquisizione che, anche in via indiretta, venga a fornire copertura a pubbliche spese, ma determina un risparmio di spesa.

Anche tale ultima censura non è, quindi, fondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3, 36, 53 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 dicembre 2013.

F.to:

Gaetano SILVESTRI, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 dicembre 2013.

 

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