GENOVA – La città è piegata, chiusa in una bolla sotto un cielo nero, grigio, biancastro, che scarica da quasi quaranta ore mitragliate d’acqua nel suo centro con chirurgica precisione sull’ombelico alluvionale, nelle valli del Bisagno e del Fereggiano, due torrenti duecentonovanta giorni all’anno secchi da siccità e di colpo, quando arrivano le mitragliate, fiumi di acqua, fango, alberi, cespugli, vegetazioni, strappati da alvei mai puliti, cascate d’acqua che sbordano da argini scavalcati da onde marroni, alte metri. E invadono le strade e sommergono tutto.
La città di Genova, dove negli ultimi 44 anni, sotto questi colpi alluvionali sono morte oltre 100 persone d’acqua e fango nella gola, sta in quella bolla, come se la cellula dove si consuma l’ennesimo disastro avesse i confini di una vera maledizione. A Nervi, periferia orientale, verso Portofino, è piovuto nei giorni scorsi ma nella notte maledetta non ci sono disastri e suoi abitanti, nella mattina del tragico risveglio vedranno anche qualche raggio di sole, mentre nell’ombelico genovese l’inferno è il buio. A Voltri, periferia occidentale, che innescò la “madre di tutte le alluvione”, il 7 e l’8 ottobre 1970, non piove.
Fuori della bolla la temperatura è mite sopra i 23, 24 gradi, dentro la bolla, che sale per la valle del Bisagno e arriva nella valle Scrivia, dove l’ira del cielo spazza via quasi un comune come Montoggio, dentro la bolla, il termometro scende di dieci gradi e la visibilità si riduce di pochi metri.
La città si sente nel mirino del bersaglio di un serial killer, che colpisce metodicamente, quasi ogni anno, con la stessa procedura quasi sempre negli stessi luoghi, oramai coperti di croci, di segni di fango, ecco vedi dove si era fermata l’alluvione del Settanta, guarda l’alluvione del 2011, e l’altra del 1992 e quella che tre anni fa fece sei morti e provocò il processo che inchioda la sindaco Marta Vincenzi, sotto l’accusa di concorso in omicidio colposo plurimo e di falso in atto pubblico.
La città non le chiama più bombe d’acqua, queste mitragliate che i meterologi non sanno più provedere e che fanno cambiare la loro nomenclatura e che subiscono come si subisce un killer imprevedibile; sai che c’è, ma non sai a che ora colpisce, quanto e dove. Arpal, l’agenzia regionale che monitora il clima e le sue follie moderne non inquadra più il killer e questa volta al centuunesimo morto, Domenico Campanella, 57 anni, infermiere annegato alle 23, 30, a cento passi dalla Stazione Brignole, affogato in un tunnel, nella sua macchina che tornava dal turno di lavoro, la città, la Regione non avevano lanciato l’allerta, il segnale di primo o di secondo grado, che giustifica chiusure di scuole, avvisi agli abitanti di restare a casa, blocchi di traffico.
La mitragliata, che ha falciato Genova in questo ennesimo, infinito ottobre di morte e distruzione, quel killer meteorologico l’ha armata tra le ventuno e le ventitre e trenta di giovedi notte, quando la città era già bombardata da più di ventiquattro ore dalle raffiche ma non si allarmava, non si preoccupava, si fidava.
Nessun all’erta. Nessuna scuola chiusa. Il sindaco Marco Doria, l’erede del grande ammiraglio, era a teatro ad assistere alla prima dell’ “Elisir d’amore”, appeso al palcoscenico di un ente sull’orlo del crak, come il clima di Genova. Ma lui non lo sapeva, non glielo avevano detto…..
Le pioggie del pomeriggio, avevano suscitato allarmi, smottamenti qua e là, allagamenti ma nessuna misura di allerta e una contenutà tranquillità di Protezione Civile ed Enti locali.
Nessun modello matematico scientifico previsionale aveva “visto” nelle carte meteo l’attacco dal cielo in questa misura e quindi tutti tranquilli ad aspettare la previsione ufficiale. Nel pomeriggio l’assessore comunale alla protezione civile, Gianni Crivello, un onesto amministratore del Pd, ritualmente intervistato, aveva ipotizzato un segnale di allarme per la metà della prossima settimana. Tranquilli, ora la situazione è sotto controllo.
Invece nella bolla, in quell’ora e mezza, si è scatenato un inferno, che non si era mai visto, proprio mentre la notte avvolgeva di fulmini il cielo genovese e quello del suo entroterra, stretto, cementificato, intorno e sopra a quel Bisagno assassino, al Fereggiano, suo micidiale affluente e agli altri 88 rii che dalle colline della ex Superba scendono verso il suo mare.
Nella bolla i fulmini e le saette sono diventati lo sfondo elettrico di uno scenario apocalittico, centinaia di fulmini, scariche trasversali e acqua, acqua, non più calcolabile nella misura della sua caduta, come un muro impenetrabile con interruzione di qualche minuto, quasi da respirare e da pensare, come mille volte, che stava finendo, che il temporale si spostava, tornava in mare, insomma, si esauriva.
Quel nuovo killer appostato tra il Golfo ligure, il suo mare troppo caldo per questa stagione e le colline a perpendicolo sui quartieri che dagli anni Cinquanta il cemento ha piombato. trasformandoli in toboga micidiali costati la vita a decine di vittime alluvionali, invece non si sposta. Ondeggiando aveva fatto morti, schiacciati tra un muro e una macchina posteggiata, morti asfissiati dall’acqua negli scantinati bui del centro storico, e ora, stando fermo quel killer, fa lo stesso danno e non si sposta più. Eccola la grande novità meteo del disastro 2014.
A bersaglio colpito gli esperti dell’Arpal e gli amministratori pubblici, il sindaco Doria e il governatore della Liguria, Claudio Burlando, diranno che le cellule dei bombardieri, una volta raggiunto l’obiettivo non si spostano, stanno lì, scaricano tutto e continuano a scaricare. La parola terribile è “rigenerare”.
Il temporale si rigenera. Il killer rigenera la sua arma e colpisce. A ripetizione, sposta il mirino e poi torna indietro.
E così alle 23, 10 il torrente Bisagno straripa, esce dal suo alveo, dopo avere urlato di fango e acqua e detriti in viaggio vertiginoso verso la sua Foce, a un passo dalla Fiera del Mare. In un’ora e mezzo si è compiuto tutto.
Nel Dopoguerra il Bisagno era uscito poche volte, nel 1970 e fece diciassette morti, nel 1992, 29 settembre, ma poi si fermò. E così i cronisti che sono a pochi metri dall’argine nella ultima notte di disastro non riescono neppure a usare la parola giusta, straripare,_ oggi si dice esondare_ e di colpo di trovano davanti alla parola che nessuno fino a quel momento ha osato pronunciare: alluvione.
E’ l’ennesima alluvione ed è peggio metereologicamente di quella immediatamente precedente nel tempo, quella del 2011 dei sei morti o di quella del 2010, a Sestri Ponente, che non fece morti, ma danni irreversibili. Esce il Bisagno, nel cuore della bolla, esce poco dopo il Fereggiano, esce lo Sturla, a Levante di Genova, esplodono decine di altri piccoli rii, di cui si è perso, tra un’alluvione e un tombamento, anche il nome. E la città va sotto, in una delle notti più cupe della sua storia recente, mentre l’acqua e il fango invadono le strade, come un’onda che sembra pacifica e invece porta con sé un’ombra lunghissima di morte, di danni, di disastri, di paura che rimbalza nel cielo con le scariche che non cessano.
La marea di fango allaga le strade intorno alla stazione di Brignole che sta lì, di fianco all’alveo, sale verso il salotto genovese che fu la via XX Settembre, inonda i negozi della strada più commerciale della città, monta verso il Mercato Orientale, uno dei simboli del commercio genovese, sospeso tra la città elegante e quella più popolare.
L’onda sale di quasi due metri di fianco al letto del fiume, in Borgo Incrociati, un dedalo di stradine, di botteghe, dai cui piani bassi la gente fugge, sale ai piani superiori, si fa ospitare dai vicini, mentre di sotto, magazzini, negozi, bar, chioschi, pagano l’ennesiumo tributo alla mancanza di previsioni e di protezioni.
E’ lì, lì’ vicino che muore l’infermiere che aveva appena finito di lavorare ed è un miracolo che ci sia solo lui per il momento nell’elenco delle vittime targate 2014, che si spiega solo con il fatto che è notte, che le strade sono semideserte, che i genovesi conoscono quella paura, guardano quel cielo e non si fidano del fatto che le Autorità non hanno lanciato l’allarme.
Il sindaco a teatro, il presidente della regione Claudio Burlando, silenzioso, lui che è commissario straordinario dell’opera capace di fermare una parte dei disastri alluvionali, lo scolmatore del Fereggiano e che, a babbo morto, parlerà il pomeriggio dopo la prima notte di disastro, per più di un’ora, a spiegare gli ostacoli burocratici che impediscono le opere, gli scolmatori appunto, i deviatori, le coperture anti alluvioni.
Tutta colpa di una grande novità meteo. Il serial killer aveva una nuova arma, i previsori che l’hanno quasi sempre azzeccata, non conoscevano la cellula stabile, non hanno letto un modello matematico che la prevedesse e se ne sono stati. Parola di Burlando che avvolge di burocratese il disastro e annuncia stati di calamità e interventi di governo e ministri e prefetti. Il rito insomma, che dentro la bolla non vcorrebbero più né vedere, né sentire.
Tornando indietro nel tempo, invece, non è neppure mezzanotte, il sindaco è uscito dalla prima del Carlo Flice, ma la città è già ko, piegata, stravolta e la notizia che domani le scuole sono chiuse sembra perfino una beffa. “L’abbiamo annunciato, anche senza lo stato di allerta” _ chiosa, mostrando quasi un orgoglio rivendicativo, un dirigente comunale.
E intanto continua a piovere e diranno poi che sono caduti in un’ora, tra le 22, 30 e le 23, 30 centoquaranta millimetri d’acqua, record italiano. Quel che basta a far saltare tutti i tappi, che i modelli matematici dei soloni dei previsori pensavano di tenere ben chiusi.
“Non abbiamo calcolato bene il flusso dello scirocco e il suo scontro con il grecale e la tramontana”_ spiegheranno ancora, il giorno dopo, quando il bombardamento si è un po’ interrotto, ma non è cessato. Forse si è solo spostato. Ma restando sempre nella bolla genovese.
La città si piega sempre di più ed ora, nella notte dei mille fulmini, incomincia a incazzarsi ed anche di brutto. Quando esce il Rio Fereggiano, quello che nel 2011 ha fatto sei morti, tra i quali due bambini piccoli, la gente quasi aggredisce le guardie municipali che corrono in quell’imbuto di cemento dal quale l’acqua schizza fuori come da una bottiglia marcia e si allarga in giù, in giù, verso le strade larghe che portano allo stadio di calcio Luigi Ferraris, Marassi. Dove ora galleggiano le auto in ordine sparso e si accatastano una contro l’altra.
“Cosa avete fatto in questi tre anni?”_ urlano esasperati e l’eco dentro la bolla si amplifica per tutta la città: cosa avete fatto in questi quarantaquattro anni, dal 1970 ad oggi?
Non finisce, non finisce. I cronisti in giro per la città non sanno neppure a quali paragoni riferirsi per raccontare quel che vedono_ sono troppo giovani per ricordarsi che nel 1970 il Bisagno aveva fatto lo stesso percorso e lasciato la stessa scia di fango e danni. Non finisce, non finisce, il cielo è pieno di traccianti, che sono i fulmini, non più un solo brontolio, ma qualcosa che torna e si ripete, dopo pause sonore di pochi secondi, come un immenso flash dall’alto, mentre in basso l’illuminazioine pubblica è spenta, e le immagini te le forniscono i social network e i video amatoriali di ragazzi svegli che ti mostrano quel che sai già e potresti tracciarlo in anticipo, altro che le previsioni fallite: corso Torino una strada ombelicale, dove stanno gli uffici comunali, diventata un fiume, dove i cassonetti della spazzatura navigano scontrandosi con le automibili, anch’esse trascinate via, anche con le luci accese:”Oddio_ pensi_ se ci sono le luci accese vuol dire che c’era qualcuno a bordo, dove sarà finito?”
Dove saranno finiti i dieci automobilisti che i sub stanno cercando lassù a Montoggio, piccolo comune dell’alta valle Scrivia, dove la bolla si è estesa maledettamente? Hanno visto quelle auto inghiottite dall’onda marrone degli affluenti dello Scrivia e non ne sanno nulla. Il sindaco di quel comune Mauro Fantoni si dispera davanti a un microfono e denuncia un disastro inimmaginabile, nel quale il destino di quei dieci è ancora oscuro come la notte di fango.
Più tardi la Protezione Civile annuncerà che tre automobilisti sono stati salvati lassù e che non ci sono vittime. Ma quella paura di una strage, fatta dal serial killer in un comune che conta poche centinaia di anime, nel profondo dell’entroterra avaro di tutto del cosidetto Genovesato aleggia per un po’ su tutta la città più sotto.
Di fronte a quel respiro di sollievo sfumano perfino i bollettini di guerra che arrivano dalle ragnatela delle strade provinciali, dove i percorsi si interrompono,le frane tagliano i paesi, i crolli minacciano gli equilibri idrogeolocici, già fiaccati così tanto.
I bollettini del disastro dalle campagne sono tirati giù con una dignità che solo chi sta attaccato al proprio territorio, come i sindaci di quell’entroterra sparpagliato per colline, può rivendicare nelle epoche delle spendig review, dei tagli, dei patti di stabilità.
La città piegata, infangata, in lutto, non va a dormire, perchè la bolla non si sposta, le cellule continuano a bombardare, i lampi illuminao uno scenario che si allarga. I previsori ora tirano i bilanci di quel che non hanno annunciato e in quel buio di fango e paura monta la rabbia che espoderà dalle prime luci dell’alba. Forse per la prima volta ilmattino non porta nessuna luce, né previsionale, né di bilancio.
Intanto è difficile spostarsi, perchè l’onda del Bisagno e quelle minori degli altri fiumi e degli altri rii, usciti dagli alvei, hanno segato pezzi di città, impedendo i collegamenti tra quartieri. La stazione ferroviaria di Brignole è allagata. Il casello autostradale di Genova Est è chiuso. Gli ascensori e le funicolari del trasporto pubblico sono allagati. Non si sale, non si scende, ma chi ha voglia e il coraggio di uscire, ora che le autorità raccomandano di usare l’auto solo in casi di necessità? Questa è una città vecchia, la più vecchia, di tante famiglie con una sola persona, appunto di tanti vecchi e soli: cosa penseranno nel buio delle loro case tra i lampi, le sirene, quel sinistro rumore dell’acqua che fluisce sotto casa e non sai come finirà?
La bolla è oramai stabile e chiude Genova nei suoi confini, mentre il serial killer si sposta da Levante a Ponente, colpendo il quartiere di Sampierdarena, quella che era considerata la Manchester d’Italia per il suo porto e le fabbriche e dove , almeno, gli allagamenti avvengono alla luce del sole. E alla luce escono allo scoperto, gli amministratori pubblici, il sindaco Doria e poi il presidente della Regione Burlando, che devono spiegare, rassicurare e sopratutto giustificare come quel serial killer ha colpito in questo modo, senza preavviso e sopratutto perchè quarantaquattro anni dopo e cento morti dopo e miliardi e miliardi di lire e di euro di danni dopo, questa cittgà è ancora indifesa.
Il sindaco ricorderà la fragilità del territorio genovese e la imprevedibilità della minaccia, il governatore si lancerà in una molto burocratica spegazione sui ritardi nell’opera chiave, lo scolmatore del torrente Fereggiano, impostata nefli anni Ottanta, fermata per uno scandalo di tangenti e bustarelle per la cui costruzione ci vorrebbero comunque quattro anni. E nel frattempo? Perfezionare le previsioni non basta.
La bolla resiste per tutto il giorno e gonfia, nel pomeriggtio, il Polcevera il torrente che traccia la seconda valle di Genova, quella post induistriale che scorre ai piedi della Madonna della Guardia, dove c’erano loe raffinerie del petroliere Garrone e dove ora c’è un distretto commerciale. Il torrente è in piena, non lo è praticamente mai stato nella lunga storia di queste inondazioni. Se il serial killer ha scelto anche questo obiettivo, allora il tiro al bersaglio proprio non si ferma.
Ma tutto sta dentro alla bolla. Se vai a Levante e sbuchi a Nervi nella giornata più cupa di questo nuovo autunno genovese di disastri e di ferite, trovi la luce e il sole e dietro ti lasci quella bava di acqua di fango, di acqua che non finsce di cadere, che non smette e che ora i previsori, magari per proteggere se stessi, ti annunciano che durerà, domani, dopodomani, fino a lunedì. E dopo?
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