Alzheimer bloccato o ritardato: per chi parla inglese o francese o tedesco o spagnolo oppure anche il dialetto delle origini o l’esperanto o comunque una a scelta di ogni altra lingua straniera, sono più alte le possibilità di ritardare fino a 15 anni, ma almeno di 5 o 10 anni l’insorgenza della malattia senile che più spaventa le popolazioni di tutto il mondo nel terzo Millennio: l’Alzheimer, appunto.
La scoperta del grande vantaggio “preventivo” di conoscere più lingue è di uno scienziato tedesco Manfred Back che ha fatto recentemente un lungo screening sull’insorgenza dell’ Alzheimer su un vasto campione di popolazione bilingue che vive in India, dove è facile che si parli, accanto alla lingua del luogo, anche l’inglese, l’idioma “colonizzatore”.
Il risultato di questa ricerca molto recente è che l’insorgenza dei sintomi, generalmente, ma non assolutamente, fissata dalla scienza medica dopo i 65 anni viene ritardata da un minimo di 5 fino a un massimo di 15 anni. Come è noto questa terribile malattia che colpisce gravemente la memoria e cancella come da una lavagna ricordi, riferimenti, anche normali abitudini di vita, “parte” in età molto giovane, intorno ai 35 anni, ma quei suoi terribili sintomi “esplodono” o insorgono, come spiegano i medici molto più scientificamente, tra i sessanta e i settanta anni.
La ricerca di Back ha avuto una larga risonanza, al punto che la BBC di Londra, pur con un linguaggio molto divulgativo, ha proclamato il bilinguismo la medicina migliore contro l’Alzheimer.
La notizia di questa conquista, se così si può chiamare, è rimbalzata vivacemente in quella che viene considerata la città più vecchia d’Italia, d’Europa, e forse del mondo, Genova, dove la popolazione degli ultrasessantacinquenni supera oramai la metà degli abitanti, poco meno oggi di seicentomila, dei quali almeno quarantamila immigrati: nella ex Superba vivono oggi 160 mila donne e 130 mila uomini over 65 e gli studi chiariscono oramai da qualche tempo che i malati di Alzheimer sono, tra questi, 30 mila.
Il dato viene confermato da uno degli scienziati-medici da più tempo schierato sulla frontiera di questa malattia e delle altre patologie, brutalmente indicate come senili, il professor Guido Rodriguez, a lungo direttore della Clinica Universitaria di Neurofisiologia alla Facoltà di Medicina.
Rodriguez, autore di centinaia di pubblicazioni in materia, è sempre stato in prima fila non solo come docente e medico e apprezzato studioso, ma proprio come volontario contro la malattia, che mette in ginocchio la terza età e sconvolge la vita di tante famiglie.
“Abbiamo chiarito sul piano scientifico che non ci sono medicine in grado di guarire questa malattia_ spiega Rodriguez con un pragmatismo molto diretto, molto frontale e sereno_ e allora la strada principale per affrontarla è lavorare per ridurne gli effetti, ritardarne l’insorgenza più pesante e “controllarla” nella sua espansione dentro alle nostre società invecchiate così massicciamente.”
Ci sono, quindi, avamposti medici, scientifici e sperimentali, nei quali scienziati, medici e semplici volontari, usano le armi come quella del bilinguismo ed altre ancora più affinate per assistere, ma anche per mettere in condizione la popolazione a rischio di affrontare l’inesorabile emergenza.
Rodriguez è il regista di uno di questi esperimenti, che da settembre funziona in uno dei luoghi più storici e profondi di Genova, il famoso Palazzo Ducale, dove abitavano i Dogi di Genova, dove si insediò il Palazzo di Giustizia, dove si tenne il tragico G8 del 2001.
Oggi quel palazzo così carico di storia è affidato alla Fondazione della Cultura di Genova, che ha concesso all’iniziativa di Rodriguez, Creamcafè, letteralmente “Creative Mind”, i locali proprio nella pancia di quello che viene considerato il Beaubourg genovese, dove funziona un vero e proprio laboratorio anti Alzheimer, in realtà qualcosa di più, dove ci si iscrive come soci e si partecipa ad attività di lavoro sulla memoria, il primo obiettivo che il killer Alzheimer colpisce.
Imparare le lingue, averle studiate e praticate, è una strada, ma ce ne sono molto altre che riguardano l’esercizio cerebrale in generale attraverso le attività più diverse sulle quali i laboratori come quello di Creamcafè si impegnano quotidianamente, anche grazie all’intervento di personalità delle branche più disparate, i matematici, i filosofi, i linguisti, i musicisti, che schierano anche veri e propri leader nelle loro professioni. Lo scopo è quello di “lavorare sulla memoria”, impegnarsi a ritrovarla attraverso meccanismi che vengono sollecitati da stimoli più diversi, una canzone, un gioco fatto da bambini, una poesia o anche più riduttivamente una parola, un numero, una misura.
Nella città più vecchia del mondo, dove gli ammalati sono, appunto trentamila, quelli che sono seguiti da un punto di vista dell’assistenza medica non sono più di quattromila. “Dove sono gli altri?”, si chiede Rodriguez, la cui missione è far emergere il grande sommerso dell’Alzheimer che avanza tra queste legioni di ultrasessantacinquenni, la parte crescente della popolazione di una grande città.
La prima operazione è quella di verificare la memoria della popolazione, eseguire cioè quel test, che si chiama TYM, Test Your Memory. Sembra facile, ma è una operazione colossale che impegnerebbe grandi risorse e coinvolgerebbe diversi livelli della pubblica amministrazione. Ma qual è il Comune, l’assessorato, l’ente che può farsi carico di tentare uno screeneng di questo tipo, capace di individuare chi sta soffrendo dei sintomi dell’Alzheimer?
E’ una domanda che da una certa età in avanti molti si pongono, rivolgendola a se stessi e misurando sulla propria quotidiana esperienza i propri deficit, le proprie difficoltà. Perchè ci metto tanto tempo a ricordare quel nome, perchè mi ricordo così bene quel fatto di trenta anni fa e non riesco a ricostruire che cosa ho mangiato a cena ieri sera?
Spiega Rodriguez:
“E’ molto difficile mettere in piedi una organizzazione che tasti la memoria della popolazione con l’obiettivo di far emergere quel sommerso. Chi paga? Come si paga? Chi è che si occupa della struttura per impiantare l’operazione? Ci hanno provato nel comune di Cogoleto qualche anno fa e il risultato fu che rispose il 12 per cento della popolazione di 2600 abitanti. Tra quelli che risposero il 30 per cento aveva già i sintomi della malattia e non lo sapeva e si incominciò ad assisterli……”
Se in una città campione, o meglio, in una città vero e proprio modello per studi di questo tipo, gli abitanti a rischio sono quasi trecentomila, come ci si arriva se non con i tentativi come quello organizzato da Rodriguez nel suo laboratorio nel palazzo Ducale di Genova?
Non c’è solo il bilinguismo o il trilinguismo o, comunque, la duttilità alfabetica a scuotere una memoria magari già minata. Ancora Rodriguez cita gli studi di un altro grande scienziato del cervello umano Penfield, neurochirurgo, il quale orienta le sue scoperte sulle reazioni della corteccia cerebrale aggredita da incidenti, malattie come i tumori, gli ictus, l’epilessia. E cosa racconta la corteccia cerebrale sotto stress?
Il cervello non sente fisicamente dolore, ma stimola ricordi, fa emergere pezzi di memoria che erano sepolti irremediabilmente. I risultati di questi studi spingono a lavorare ancora di più sulla memoria, mettendosi in sintonia con la capacità emozionale di suscitare quei ricordi.
Non si tratta ovviamente solo di “sfruttare” gli eventi traumatici che colpiscono la corteccia cerebrale in chiave di recupero della memoria. Si tratta anche di stimolare la memoria attraverso quegli spunti che possono arrivare da sollecitazioni esterne, come quelle citate prima, la musica, le parole, i numeri, i vecchi giochi.
Nei giorni scorsi in uno dei laboratori di Creamcafè c’era una seduta durante la quale si proiettava un film classico della storiografia cinematografica dell’immediato dopoguerra: “Le Mura di Malapaga”, regista Jean Clement e protagonista il leggendario Jean Gabin. Film interamente girato nel 1949 a Genova, prevalentemente nelle zone del centro storico, tra il porto e i carruggi, una area che ha subito profonde modificazioni, distruzioni, ricostruzioni.
Cosa sollecitava ai soci del Creamcafè che assistevano, la proiezione di quelle immagini vecchie sessantaquattro anni di una città che non c’è più, ma che è ancora individuabile?
Cosa si pescava nella memoria degli spettatori, andando tanto indietro nel tempo? La proiezione si interrompeva ogni qual volta uno degli spettatori, colpito da un particolare della scena voleva rivelarlo, facendo emergere il suo ricordo in proposito. Ecco cosa serve il lavoro sulla memoria: a recuperarla, difendendola e intessendo processi ricostruttivi che aiutano il funzionamento del cervello.
Spiega ancora il professor Guido Rodriguez:
“Lavoriamo su tutte le possibilità di recupero dei ricordi e cerchiamo si sollecitare le diverse aree cerebrali, quelle che presiedono l’olfatto, la vista, il tatto…..”.
Il film aiuta le memoria visiva. La parola e la ricostruzione che può suscitare possono muovere un racconto e, quindi, ricostruire una memoria.
Al Cream Cafè, quindi, non si bevon caffè e capuccini, ma si realizza una specie di testa di ponte dentro alla città, dove certamente esistono altre frontiere, altre trincee contro l’avanzata dellAlzheimer.
Riassume il professor Rodriguez:
“Abbiamo presupposti scientifici, non verità assolute, né speranza da vendere, ma un metodo e dobbiamo cercare di allargare la base dei soci per diffondere una sensibilità a questa emergenza sopratutto dove non arriva più la famiglia, che nella società moderma ha perso la sua centralità, il suo valore, il suo ruolo di assistenza. Ora ci sono le badanti e qua ne arrivano tante, perchè cercano anche loro l’esperienza e il metodo con cui stare megli vicino ai loro “clienti-pazienti”.”
Un campanello d’allarme dovrebbe essere la cifra ormai indicata dalle Organizzazioni mondiali della sanità, che misurano nel mondo i malati di Alzheimer nel 2050: saranno più di 150 milioni e si incominceranno a contare anche nei Continenti più giovani.
All’inaugurazione del Creamcafè genovese, in settembre, c’era anche Remo Bodei, docente di Filosofia alla University di Los Angeles, che ha tenuto una conferenza sul tema “Ricordare, dimenticare, invecchiare” .
Ha spiegato Bodei: “ L’identità personale implica una continuità, un filo della memoria, se si spezza non siamo più nessuno: eppure se invecchiare è insito nelle nostre cellule ed è inevitabile, non ci restano che i nostri interessi, leggere, studiare. Antidoti alla rassegnazione.”
Come lavorare sulla propria memoria. In italiano, in inglese, in francese, magari anche nel proprio dialetto……
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