Argentina affonda nell’inflazione, dimentica i suoi guai col Mondiale vinto in Qatar, ma resta un severo monito per l’Italia. Il modello di Peron era Mussolini e ancora oggi sono i peronisti a guidare il Paese: il fascismo evolve dal socialismo, ecco i risultati.
Quanti erano, tra l’aeroporto Ezeiza e la passerella finale nell’Avenda de Majo e Plaza del Congreso, gli argentini che facevano da corona alla loro “selecion”, in sfilata con la coppa del mondo? Qualche milione sicuramente.
Prima in una notte portena, poi nel giorno dolce di fine primavera inizio estate di Buenos Aires, dove tutti volevano festeggiare e anche dimenticare il resto. Quarantacinque chilometri di folla nel cuore di Baires, una folla sterminata. Mai calcolata in questa città incantevole, tra il Mar de La Plata, i suoi quartieri nobili di Libertadores, del Tigre, quelli ufficiali di Plaza del Congreso e de la Casa Rosada. E le periferie sterminate, cinque sei milioni di persone impazzite per la Copa.
Più che nei giorni del delirio per Peron e Evita, anni Cinquanta. Molti di più della marea di madri nell Avenida de Majo, che chiedevano dei loro figli scomparsi, eliminati dalla dittatura feroce del generale Videla, anni Ottanta. Più della folla disperata del 2001, l’ultima volta che l’Argentina era fallita e il “Coralito”, deciso dal presidente De La Rua aveva bloccato in banca i risparmi della gente.
L’Argentina impazzisce per la sua squadra albiceleste, per Messi, che reincarna Maradona, per un successo atteso dal 1986. Non a sorpresa, ma conquistato dopo due finali perse con la Germania, per il calcio, la “pelota”, che fa dimenticare todo, che fa battere il corazon, perché porta questo Paese incredibile in vetta al mondo.
Il Paese “al mondo alla fine del mondo”, il Paese del tango, il Paese di Francesco, il Papa diventato unico leader riconoscibile sul pianeta di oggi, l’uomo vestito di bianco che sta a Roma, ma è argentino nell’accento, nella lingua nel cuore, nella sua formazione dentro alla periferia di questa città impazzita di gioia, che festeggia per giorni, senza sosta.
Perchè se finisce di festeggiare ricomincia a piangere. Altro che la celebre canzone “Don’t cry Argentina”, non piangere Argentina.
E’ un tango triste o un tango allegro che si balla a milioni per le strade, tra la disperazione per l’inflazione che corre al 99 per cento e il livello di povertà che colpisce una famiglia su quattro, che denutrisce un bimbo su due? O è allegro, perché sconfitti dalla loro economia “loca,” gli argentini si sfogano con questo successo mundial, che li mette in cima al mondo almeno nel calcio, davanti a una platea immensa, dal cuore di quel deserto del Qatar?
Nel 2022 del trionfo in Qatar questo paese del Cono Sud Ovest del sub continente americano, dalla terra caliente del Mar de la Plata ai ghiacci eterni del Petito Moreno, sta male come nel 1986 e ancor più come sotto il tacco dei generali dittatori, quando fu Campeon del mundo nel 1978, giocando a casa propria.
Allora il Mundial si disputò nell’inverno argentino e nell’estate europea, oggi gli albiceleste sono diventati campioni per la prima volta mentre là siamo all’inizio della caliente estate, il verano che infiamma le città e l’immenso territorio di questo paese. E fa dimenticare i tempi duri, il lavoro perduto, il “desabastiacimento”, i negozi che si svuotano di merce, la politica che non riesce a dare risposte al dramma collettivo. La spesa che si va a fare con la borsa piena di banconote senza valore per riempirla di un pacco di pasta o di riso.
Anche Alberto Fernandez, l’ultimo presidente in carica, peronista di sinistra (se questa definizione ha un senso ancora), travolto dall’inflazione dopo avere tentato di trattate con i fondi internazionali i 44 miliardi di dollari di deficit pubblico, sta fallendo. Come il suo predecessore, il liberale Macri, una specie di Berlusconi argentino.
E nel 2023 si vota ancora, in un clima difficilmente descrivibile. Sembra finito il tempo di Cristina Kirchner, vice presidente, che regnò dopo il marito dal 2007 al 2014 e ora è perfino scampata a un attentato, la donna che faticò a rendere gli onori a Francesco, il papa argentino appena eletto dal Conclave a Roma.
Il terzo ministro dell’Economia, nominato da Fernandez, Sergio Massa, non sa come rimediare con una politica ancora peronista. E intanto nel paese emerge una forza nuova che l’Argentina, uscita drammaticamente dai regimi militari assassini, tra gli anni Ottanta e Novanta, non aveva ancora conosciuto. E’ la formazione di destra estrema “La libertà avanza”, che, con un programma ultraliberista sta intercettando il malcontento e sfida il disperato premier, intenzionato a ripresentarsi nell’autunno 2023, se ci arriverà.
Se vivi a Buenos Aires in questi tempi così alterni puoi misurare l’inflazione da semplice turista o viaggiatore, quando vai a pagare il conto dell’albergo.
Non puoi pagare con carta di credito Visa perché questa soluzione si basa sul tasso di cambio ufficiale tra peso e dollaro o euro. Sul mercato libero illegale, ma tollerato dalle autorità, si ottiene il doppio di peso per un dollaro.
Questo tasso non ufficiale è noto come “dollaro blù”, il tasso di cambio parallelo del dollaro statunitense in Argentina, che rappresenta il costo di acquisto o vendita di una banconota fisica in dollari sul mercato nero (o blù). In realtà esistono esistono almeno quattro diverse varianti del dollaro.
Ci sono le grotte, in argentino “cuevos”, dove è possibile recarsi per cambiare dollari o euro in moneta locale. Ti avvicinano per strada per portarti in queste “grotte”, che sono come banchi di pegno o luoghi in cui è possibile acquistare o vendere gioielli o oro, ma in realtà sono luoghi clandestini, dove avviene il commercio del dollaro “blù”.
Come nell’Unione Sovietica e nei Paesi dell’Est europeo dei bei tempi.
In questa situazione il denaro serve solo come mezzo di pagamento ed è difficile trovarlo nei tagli utili, Un conto di 250 mila peso per saldare il soggiorno in un albergo del centro di Buenos Aires si paga con solo un quinto della somma totale in banconote da 1000 euro. Il resto sono tagli piccoli, Significa che tu vai a pagare con una cariola piena di carta.
E questa è l’immagine fisica dell’inflazione galoppante. Un viaggiatore illustre ha raccontato che per pagare ha impiegato più di due ore di tempo, perché il cassiere dell’albergo doveva verificare l’autenticità della banconota, una per una. Un incubo.
D’altra parte l’inflazione è una malattia endemica di questo paese dal 1945 con la sola eccezione del periodo in cui governò Carlo Menem , anni 90, anche lui classificato peronista, che agganciò la moneta al dollaro americano, cancellando l’inflazione per 10 anni, ma che così distrusse le esportazioni. E fu il crak. Cosa è l’Argentina senza più esportazioni delle sue materie prima, della sua carne, dei suoi divini raccolti?
Quindi la battaglia delle prossime, ennesime, drammatiche elezioni 2023, sarà sull’inflazione, su come domarla.
Uno dei leader, che spunta in quel nuovo partito della”Libertà che avanza”, è Javier Milei, 51 anni, anarco capitalista, ex portiere di una squadra di calcio, esperto consulente economico, eletto deputato nel 2017. Sarà il candidato presidente tra un anno?
Difficile misurare questa spinta anarco-liberista, che cerca spazio perfino lanciando una lotteria.
In corsa ci sono anche leader meno “estremisti”, come Lopez Murphi, economista, ministro della Difesa e dell’Economa al tempo di Feranando De La Rua, cioè venti anni fa. Il suo partito si chiama Republicanos Unidos.
Uno degli slogan dell’opposizione a questo peronismo giunto forse al suo capolinea (ma in Argentina non si può mai dire) è: Abbiamo bisogno di una rivoluzione capitalista”.
A questo proclama si arriva dopo un crollo che dura praticamente dal 1945, quando l’Argentina era il paese più ricco del mondo. Prodotto interno lordo paragonabile a quello di Francia e Germania dopo l’uscita dalla guerra.
Poi è successo che laggiù non sono mai stati in grado di modernizzarsi, di industrializzarsi, di stare al passo con i tempi. Poi è successo che nel 1946 è arrivato Juan Domingo Peron, durato fino al 1955 e tornato a inizio anni Settanta, inizialmente un ammiratore di Benito Mussolini, nella seconda “vuelta” vecchio, malato, “padre” sia prima che dopo di una soluzione populista sociale, nazionalista che incominciò a scoraggiare gli investitori stranieri.
E l’Argentina precipitò in una lunga spirale di alti e bassi ( più bassi che alti) fallendo nove volte, affidandosi alle diverse variazioni del peronismo, ai “desarollisti” di Arturo Frondizi e di Roberto Frigelio, ai militari buoni, come Alberto Ongania e Lanusse. E poi drammaticamente cattivi, come Videla, che per stroncare il terrorismo della “izquerda” rivoluzionaria instaurò un regime del terrore: 350 mila desaparecidos, molti uccisi nelle camere della morte, molti lanciati dall’aereo in mare con un masso legato ai piedi. Poi la sciagurata guerra contro gli inglesi per riconquistare le isole Falklands-Malvinas.
La fine dei generali sanguinari, un periodo di pace e di speranza durato poco, pochissimo, come un tango che rallenta piano piano il suo ritmo.
Eravamo anche allora all’indomani di un campionato del mondo di calcio vinto dalla squadra albicelese, che aveva campioni come Luque, Kempes, Tarantini, Bertoni, Ardiles e sconfisse in finale l’Olanda.
Non ci fu, alla fine la stessa festa di questi giorni. Era un’altra storia. Quella volta il riscatto era contro la paura “interna”, oggi è contro la miseria.
E’ estate nell’ emistfero sud e cosa c’è di meglio che festeggiare con in mano una cerveza fresca? Dimenticando tutto.