Baget Bozzo, Genova, la profezia avverata e l’eredità contesa

Don Baget Bozzo (Foto LaPresse)

GENOVA – Povero don Baget Bozzo, il grande prete discepolo prediletto di Giuseppe Siri, rapito prima dal sogno politico craxiano, poi da quello berlusconiano, che avevano conquistato quella sua tonaca ancien regime di sacerdote amante tanto della Madonna quanto della politica, giovanissimo enfant prodige della democrazia cristiana di La Pira, Dossetti e Gedda!

Scomparso da questo mondo nella primavera del 2009, dopo una rapida e un po’ inspiegabile malattia, nella sua grande casa di Carignano, nobile e un po’ decadente quartiere della Genova borghese, fitto da grandi viali di platani, riemerge un po’ sinistramente oggi con la notizia che la magistratura genovese ha ordinato la riesumazione della sua salma per verificare se è vero che la sua morte nasconde un mistero, quello di essere stata provocata da cure sbagliate del suo archiatra, un geriatra genovese, che guarda caso, diventò l’erede universale dei suoi non indifferenti beni.

Beffati i suoi parenti, i cugini, l’amata nipote e pure la Chiesa genovese, della quale Baget si considerava, malgrado le sue ribellioni e le sue sospensioni a divinis e il suo ruolo politico così difforme dalla liturgia, un figlio fedele e orgoglioso; dirottato il suo patrimonio materiale nelle mani del dottor Patrizio Odetti, lo specialista che lo curava: operazione molto misteriosa, sulla fine di un uomo assolutamente disinteressato ai beni materiali, ma molto affezionato alle sue idee politiche, oltre che alla sua fede e alla sua veste di sacerdote, indossata già da uomo maturo.

Povero Baget, prete con vocazione tardiva, consacrato nel 1967 a 42 anni di età, senza avere frequentato il Seminario per un inedito motu proprio del suo maestro di allora, il cardinale principe Giuseppe Siri, povero Baget, perchè la notizia della riesumazione coincide con il primo avveramento della profezia politica che il reverendo suggeritore di Craxi e di Berlusconi aveva lanciato a proposito di Genova, la sua città, tanto amata, ma anche tanto criticata nella sua gestione populista marxista.

Secondo questo prete, dotto e appassionato della politica fino al punto di essere stato sospeso a divinis negli anni Ottanta, proprio da Siri per il suo ruolo di eurodeputato nelle fila del Psi di Craxi, Genova era destinata a diventare una città di popolazione fortemente calante, di industrie morte e sepolte, di una vocazione imprenditoriale inaridita e solo di buona qualità della vita per dolcezza del clima e benessere di una popolazione sempre più anziana e rassegnata alla marginalizzazione.

Ora che l’Istat ha sparato i suoi dati nei quali, quasi improvvisamente la ex Superba cala a 580 mila abitanti, tra i quali trentamila immigrati in prevalenza schiacciante sudamericani dell’Ecquador e che i dati macroeconomici riducono ai minimi termini gli addetti a un’industria nella quale Finmeccanica persegue il suo scopo di vendere l’azienda principe di Ansaldo Energia e dove l’Ilva dell’acciaio di Riva rischia di morire dopo Taranto e insieme agli stabilimenti di Novi Ligure e del Piemonte e dove, nella lettura profetica del reverendo, molti misfatti industriali erano stati già commessi, quel vaticinio sembra calzare perfettamente con i tempi duri del nuovo millennio.

Ma nessuno poteva immaginare che l’avveramento di quella profezia, lanciata negli anni Ottanta-Novanta, durante le serpeggianti e durissime crisi postindustriali genovesi, mentre il berlusconismo incominciava ad affacciarsi, trovando una vera diga di opposizione nel potere imperituro della sinistra genovese, avrebbe coinciso con il caso di Baget Bozzo e della sua funebre riesumazione.

Alla vigilia di Natale questa singolare e un po’ sinistra coincidenza -la morte del reverendo e il declino inarrestabile della sua città statisticamente accertato – la magistratura genovese spara, si potrebbe dire quasi a orologeria, l’ordine di riesumazione perchè tutte le perizie compiute dimostrano che al momento del trapasso don Baget Bozzo non era affetto da malattie tanto gravi da provocare una morte così istantanee.

L’ultimo farmaco che il medico curante, il geriatra Odetti, gli aveva prescritto, a poche ore dalla fine, era un Gatorade, un banale integratore che in genere assumono gli atleti disadratati dalla fatica dell’impegno fisico.
Che prognosi infausta c’era, se l’allora ottantaquattrenne prete, da tempo oramai sempre più solo, critico verso l’ultimo suo vate, il Cavalier Berlusconi, all’indomani della sua ultima vittoria elettorale, quella del 2008, avrebbe dovuto soccombere, circondato oramai solo da badanti, colf e qualche fedelissimo? E, ovviamente assistito dal suddetto geriatra, non certo una presenza costante nella sua vita di paziente o semplicemente di anziano sacerdote, ogni tanto bisognoso delle normali cure per l’età avanzata? Quale infausta prognosi, dunque?

Dalle carte dell’inchiesta, dalle perizie mediche, dalle ricostruzioni testimoniali non emerge nulla se non i sintomi di una ipertensione arteriosa, così comune dopo una certa età e una certa depressione, molto usuale nel caso di anziani sacerdoti, costretti a una solitudine aggravata dalle limitazioni al proprio spostamento.

Ma dalle carte che la Procura aveva messo insieme, compariva anche il giallo di un secondo testamento misterioso, dal contenuto molto diverso rispetto a quello pubblicato e clamorosamente a favore del solo dottor Odetti: sette appartamenti di proprietà del don, altri beni materiali e i soldi rimasti suo suo conto, tutto al medico curante e nulla agli altri, parenti vicini o lontani, magari ai discepoli più fedeli, abituati a salire ogni giorno a riverire don Baget Bozzo o a lavorare per lui, fino a che le sue energie lo avevano mosso, fino a che il suo fervente spirito polemico aveva sorretto la sua penna, i suoi articoli, le sue riflessioni mai di rito, mai scontate, sempre originali.

E nulla alla sua Chiesa, nella quale era entrato, unto dallle mani del “suo” cardinale-principe Giuseppe Siri, nel 1967 e alla quale era rimasto legato sempre, al di là delle sue impennate politiche, fedele, nulla alle suore presso le quali celebrava la sua messa quotidiana e nulla alla Basilica di Carignano, nella quale diceva messa ogni settimana, fino a quando le sue condizioni glielo avevano permesso.

Baget Bozzo era assolutamente disinteressato ad ogni esigenza materiale, da quella del suo patrimonio, perfino alla congruità del suo decoro personale. La sua casa, per quanto in un quartiere borghese e da ricchi, in quella zona di Genova abitata dai ceti più benestanti, era di una sobrietà assoluta, i suoi vestiti spesso trasandati, i soldi gli servivano per mantenersi una minima assistenza casalinga e una specie di guardia notturna.
Come è possibile che un personaggio così poco pratico avesse deciso di lasciare tutto in toto a una persona che non aveva nei suoi confronti un legame affettivo in nessun modo particolare? Il sospetto sul quale viaggia l’inchiesta e che si configura nei confronti del dotto Patrizio Odetti, è quindi che egli abbia approfitatto di una “incapacità” di don Baget Bozzo a gestire i suoi beni materiali.

Si chiama “circonvenzione di incapace” e adesso, la sua scoperta e certificazione processuale passano attarverso la riesumazione della salma e gli esami per dimostrare, come già emerge e come alcuni giornali hanno già scritto, per esempio Il Secolo XIX diretto da Umberto La Rocca, che il reverendo avrebbe potuto vivere ancora a lungo se adeguatamente assistito e che non soffriva di patologie tali da portarlo alla morte così rapidamente, dopo un mese di crisi, curata appunto a Gatorade.

Se si torna indietro nella lunga e fervida vita di questo sacerdote genovese, figlio di una famiglia catalana (la madre si chiamava Baget), poi di fatto adottato dai Bozzo, nome consueto nella geografia genovese e si scopre che i suoi interessi sono sempre stati ben diversi da quelli materiali, patrimoniali e che, anzi la sua esistenza è sempre stata pilotata da una febbre politica e, ovviamente anche religiosa. Era stato fino da piccolo molto appassionato dello studio e della politica ed era cresciuto in una nicchia ricca di impegni politici e perfino di mobilitazione politico-partigiana.

Appena ventenne, durante la Liberazione di Genova dal nazismo-fascismo, Baget-Bozzo era stato un giovanissimo partigiano cattolico, in quel gruppo che attorniava il leader di allora, Paolo Emilio Taviani, fondatore della Dc ligure. C’era anche lui, lassù a Granarolo, sulla collina genovese a lanciare via radio, insieme allo speaker Taviani, l’annuncio storico: “Genova si è liberata da sola, i nazisti se ne vanno.”
Lui studioso, cattolico democristiano mobilitato, avrebbe continuato a studiare, a leggere, fino a diventare ciò che il suo cardinale Giuseppe Siri, avrebbe definito: “l’altoparlante della Biblioteca di Lipsia” per dimostrare quanto profonda fosse l’erudizione, la sua capacità di possedere una grande conoscenza e una scienza letteraria, giuridica, religiosa, teologica.

E la vocazione da prete? Baget aveva un’altra febbre da giovane, quella politica. Solamente quando oramai sicuro segretario nazionale giovanile del movimento democristiano venne battuto nelle elezioni a Roma, grazie a una manovra di Giulio Andreotti, un po più anziano di lui, ma inquadrato nella stessa Fuci, rientrò a Genova dove, come ha raccontato in una intervista a Blitz quotidiano don Giovanni Cereti, oggi rettore dell’Abbazia dei genovesi a Roma, quella vocazione gli fu costruita direttamente da Siri, appunto motu proprio.

“Se non hai la vocazione è il tuo vescovo che può impartirtlela”_ sentenziò Siri, che lo fece prete senza neppure fargli frequentare il Seminario. E che bisogna c’era? Baget Bozzo sapeva già tutto. Alla sua consacrazione, nella grande cattedrale genovese di san Lorenzo, in mezzo ai caruggi, alla vigilia del 1968, intorno a lui steso sul pavimento gelido della chiesa, in attesa della sacra unzione, come vuole la liturgia dell’ordinazione sacerdotale, c’erano anche Dossetti, La Pira, Fanfani e Gedda, ex potentissimo segretario Generale dell’Azione Cattolica, già inventore dei Comitati Civici che venti anni prima avevano fatto vincere le elezioni muro a muro con il Pci del 1948.

C’era tutta la chiesa anche quella di sinistra, impersonata da Dossetti, fattosi già prete da lustri e La Pira, il sindaco “santo” di Firenze. La storia di Baget prete, poi diventato grande suggeritore politico, grande giornalista, è rapida e piena di svolte ed anche di incontri quasi opposti per il significato che assumevano e la caratura degli interlocuturi: direttore di Renovatio con Siri, la rivista della reimpostazione cattolica dopo il Concilio Vaticano II di papa Giovanni XXIII, diventato socialista-trattativista quando fu rapito Aldo Moro e quindi affascinato da Craxi che voleva parlare con le Br.

“Chi è quel prete genovese”_ chiedeva Eugenio Scalfari, direttore di una Repubblica agli albori, al leader socialista in quegli anni, prima di ingaggiare tra i suoi editorialisti Baget. E Baget virò verso il Psi e Craxi, in quello spirito genovese che aveva portato i due giornali della città, “Il Lavoro” diretto da Giuliano Zincone, e “Il Secolo XIX” diretto da Michele Tito ad essere tra gli unici nel panorama italiano a sostenere la trattativa per liberare il capo Dc prigioniero degli uomini della Stella a Cinque punte.

Il feeleng con Craxi portò Baget fino all Europarlamento e alla sospensione a divinis, che Siri, addolorattissimo, gli applicò per violazione della Costituzione vaticava, che vietava ai consacrati di assumere ruoli politici istituzionali. Da Craxi a Berlusconi, del quale il Don divenne una specie di suggeritore costante e convinto, nel solco del suo oramai consolidato antimarxismo. Baget diceva messa in casa e scriveva, scriveva, articoli, libri, saggi. Prima della sua conversione berlusconiana, arrivò a scrivere per sei, sette giornali contemporaneamente, anche di linea politica diversa, ma tutti attratti dalla sua miracolistica capacità di spiegare l’arcano e il divino come strumento per interpretare la realtà politica.

Poi fu solo Berlusconi, ma non fino in fondo, perchè già dal 2005-2006 Baget aveva ben visto come il Cavaliere stava deviando dalla linea di riforme liberali che lui sperava di intravvedere nella sua azione. Incominciò forse allora il distacco da un leader tanto diverso da quello che Baget immaginava e che aveva, comunque, supportato, anche con forza immaginandolo strumento di una rivoluzione che non arrivava in Italia.
Incominciò allora, insieme al distacco “politico”, una certa depressione di questo sacredote che con gli anni, le difficoltà quotidiane, incominciava a restare sempre più isolato nel cuore di una Genova sempre più decadente.
La città che lui tanto amava e conosceva profondamente, nelle pieghe dei personaggi, nei ritmi biologici della sua vita politica, in quel muro a muro idseologico che aveva vissuto in gioventù e che poi dopo si era illuso di frantumare con visioni più liberal, magari “azzurre”, si stava restringendo.

Baget era ancora mobilitato con la sua penna, anche con la sua presenza, nei dibattiti, nei suggerimenti a chi gli pareva interpretare meglio la sua sfida liberale-religiosa. Accanto a lui sempre meno personaggi, mentre gli arcivescovi che erano succeduti a Siri, tutti mega personaggi della Chiesa, come Dionigi Tettamanzi, Tarcisio Bertone e poi Angelo Bagnasco, avevano con lui un rapporto di distanza, ma mai di polemica, il fedelissimo Alberto Gagliardi, che ne aveva seguito in qualche modo il percorso dalla Dc aperta a sinistra, alla redazione della rivista “IL Potere”, vero faro di “diversi pareri” e satira pungente, alla adesione a Forza Italia, al ruolo di Deputato Genova (definizione di Baget Bozzo), a sottosegretario berlusconiano e pochi altri, magari pronti a genuflettersi e poi a squagliarsi per opportunismo o scarsa capacità di sintonizzarsi con quel prete dalla battura folgorante, dalla profondità di ragionamento per loro insondabile, gli Scajola, i Biasotti, gli Scandroglio, i Vinai, eccetera eccetera.

E’ così che la parabola del prete diventato tale più per un ragionamento di teologia applicata alla realtà politica che per vocazione delle viscere emozionali nel rapimento di Cristo si è lentamente spenta, mentre la sua profezia su Genova si stava avverando.

Chi meglio di Baget nella sua stanza luminosa di Carigliano, sulla collina borghese del centro di Genova, di fianco alle cupole delle sue chiese, poteva capire il destino della propria città, lui che contava da anni i passi del declino dell’industria, della classe dirigente, della politica, della popolazione rarefatta anche nelle strade sotto casa, anziani, vecchi, spesso malati, spinti lungo quei larghi viali di platani, in autunno con le foglie svolazzanti sulle panchine, la sede dell’Ilva, grande fabbrica dell’acciaio, in faccia al suo palazzo, trasformata in un hotel a Cinque stelle, quai sempre vuoto, gli “scagni” genovesi storici del centro storico diventati prima call center e ora botteghe per turbe di cinesi.

Genova, 580 mila abitanti, quarantamila immigrati, sempre meno industrie, un bel clima, isolata, meno treni, meno collegamenti aerei, qualche splendido tramonto dietro le cupole delle chiese sempre più rarefatte di fedeli, dove don Baget ha celebrato le ultime messe, alzando l’ostia in alto, spingendosi con le punte dei piedi , come a superare tutto quello, magari anche la sua profezia, che oggi, vigilia del 2013, si è avverata.

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