Beppe Grillo a Genova non ha abolito i poveri. Lui a S.Ilario, loro sotto il ponte

di Franco Manzitti
Pubblicato il 2 Ottobre 2018 - 09:20 OLTRE 6 MESI FA
Beppe Grillo a Genova non ha abolito i poveri. Lui a Sant'Ilario, loro sotto il ponte Morandi

Beppe Grillo a Genova non abolisce i poveri; lui vive in collina, a S.Ilario, loro sotto il ponte maledetto. Nella foto: l’ex voto della Polizia Stradale alla Madonna della Guardia

GENOVA – Ora che c’ è il “decreto Genova” con i suoi 47 articoli, quasi tutti dedicati al terremoto di Ischia, ora che c’è il nome del supercommissario, Claudio Gemme, settantenne manager pubblico,  Presidente di Fincantieri SI Spa (Sistemi Integrati) dopo una vita in Ansaldo e una carriera nelle aziende ex Iri, nato sotto il ponte maledetto, non è che la città sia meno spezzata. Anzi. Quarantasette giorni dopo il crack, passata l’estate, incominciato l’autunno, tu quel ponte lo vedi come era il fatidico 14 agosto, ore 11,36-37. Il vuoto tra i tronconi rimasti in piedi, con quel buco di duecento metri che sta inghiottendo lo sviluppo della città.

La demolizione neppure accennata, i sensori da piazzare sui tronconi per capire se il resto crolla o no, la “zona rossa” blindata di sotto, la “zona arancione” collassata di traffico, i disastri economici che si consumano, il via vai dei politici tra gli sfollati e i danneggiati, le troupe televisive che cercano nuove angolazioni sulla tragedia, i muri divisori tra strade e superstrade della Valpolcevera che impazziscono di un traffico impazzito…

Sali allora pure in cima al monte Figogna, dove c’è il Santuario della Madonna della Guardia, quasi novecento metri di altitudine, in una giornata tersa e aguzza lo sguardo per capire fino a dove si è stesa la mano miracolosa della Madonna a impedire che le vittime fossero più di 43, che lo sfacelo fosse ancora più grande di quell’ammasso di macerie franato dal cielo sul greto di quel fiume secco, ora rannicchiato nella sua secchezza di pietre, erbe, rifiuti di periferia, un fiume-torrente come un complice di killer che aspettano le pioggie autunnali per gonfiarsi e preparare altre sofferenze.

Aguzza, aguzza la vista, ma il ponte spezzato non riesci a vederlo da lassù. Sfuma là in fondo, nella balugine della luce sprigionata dal mare, che da lontano ti spara l’azzurro-blu delle onde, spianate dal maestrale teso come una corda sull’arco ligure. Tu sei in mezzo a questo arco e, anzi, il ponte maledetto è proprio al centro di tutto, della rete autostradale interrotta lì, della Liguria spezzata, di Genova separata, a pezzi che non si ricompogono più.

Il ponte lo vedi, invece, perfettamente dipinto in un quadro a colori, con i suoi tronconi e la voragine nel mezzo e le auto che precipitano nel vuoto, nella capella votiva dentro alla pancia del Santuario dove da quasi due secoli i pellegrini salgono a depositare i loro ricordi “per grazia ricevuta”. E oggi, quarantasette giorni dopo, la grazia, che nei giorni del dopo crollo ha provocato una vera processione, è di non essere precipitati da quel ponte.

In quante centinaia ci stavano viaggiando sopra, nella vigilia del Ferragosto meno festa che sia mai stato celebrato, tu, lui, mio zio, quella famiglia di amici, quei turisti per caso, quel pendolare abituale, quella famigliola con i bimbi, viaggiavano a 55 metri da terra, “prima” o “dopo” e l’hanno scampata.

Hanno frenato, hanno capito che l’asfalto tremava e si scomponeva o hanno visto altri scappare, sono fuggiti all’indietro verso le due gallerie, le bocche infernali che ti avevamo sputato verso l’abisso. E nel Santuario deserto di un giorno qualunque, anche se è il quarantesettesimo dopo il crollo, accanto al quadro con il ponte che “urla” il suo crollo, ecco un altro ex voto che impressiona: firmato dalla Polizia Stradale, distaccamento di Sampierdarena, un dipinto con una cornice di mattoni e in mezzo lo stemma della Polizia con una scritta che spiega cosa è avvenuto quel giorno e a quell’ora e anche prima e anche dopo. Nessun poliziotto, nessun agente in servizio ha avuto danni. Grazie Madonnina.

Gli altri ex voto sono custoditi nel Santuario e aspettano di essere esposti in uno spazio dedicato alla singola tragedia del ponte. Sono tanti e nessuno avrebbe mai pensato che si aggiungessero a quelli storici per una vicenda avvenuta là sotto, in fondo a quella valle.

E ora in molti di quelli che hanno ringraziato sono saliti quassù, curva dopo curva _ ti racconta il rettore del santuario – Marco Granara, un prete solido di quelli che lasciano il segno nelle anime del proprio gregge – a pregare per sè e per le 43 vittime per i feriti. Hanno lasciato gli ex voto, come quel primo quadro grande e dettagliato, dove ci sono anche i protagonisti di tutta la vicenda, raffigurati sotto il ponte, il sindaco Marco Bucci, il governatore Giovanni Toti, un pompiere con il suo grande casco.

Così il ponte ora spicca nella galleria dei ricordi, accanto a un quadro di marinai della nave “Vulcania”, scampata a una grande tempesta nell’Atlantico, anni Cinquanta, con l’onda che la ghermisce, accanto a un ricordo di un marinaio scampato al naufragio dell’”Andrea Doria”, nel luglio 1956, altra grande tragedia genovese, ma a migliaia di chilometri di distanza, non così vicino come quel ponte maledetto là sotto, che non lo vedi, appunto, ma lo senti se scruti, scruti la valle spaccata, divisa, separata dal muro. Non è più lo stesso scenario che contemplavi da quassù, anche se sembra lo stesso. Ora la ferita degli ex voto è a un passo.

Per salire da sotto hai una strada sola, l’autostrada Genova-Milano, che scorre sul bordo della valle. Il resto è diviso, invalicabile, separato, staccato da strade chiuse, sbarramenti di zone rosse e arancioni, che quaranta sette giorni dopo sono ancora più divise, perchè il traffico aumenta e l’abbandono delle aree chiuse cresce nel disastro dei commercianti, nelle difficoltà delle 1300 aziende rimaste dall’altra parte, nel lento diffondersi di un pessimismo rassegnato.

Dicono grazie alla Madonna che li ha salvati nel Santuario, tanto grande è la riconoscenza per il miracolo su quel ponte maledetto, ma forse si può dire che, dopo le genuflessioni, i segni della croce e il ritorno giù nella valle dei dolori, poca resta da fare.

E’ arrivato il decreto dopo una attesa infinita, con le misure del governo gialloverde per attutire gli immani disagi. Ma non c’è un genovese che sia soddisfatto. E’ un decreto, quello del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, che toglie, invece di aggiungere.

Toglie, per esempio, i 791 milioni di euro che erano già stati assegnati dal Cipe per completare il Terzo Valico, la grande opera ferroviaria, che dovrebbe essere conclusa nel 2022 e che correva parallela al ponte, per scaricare il maxitraffico di container in arrivo e in partenza dal porto.

Tutta la città spezzata si scuote per indignazione, rabbia e delusione, davanti agli articoli del decreto, dalla berretta cardinalizia di Angelo Bagnasco, l’ arcivescovo, ai capellani del lavoro, la task force ecclesiastica, che lavora nelle fabbriche genovesi, ai leader delle categorie imprenditoriali, il presidente di Confindustria Genova, Giovanni Mondini, importante azionista di Erg, al presidente di Camera di Commercio, Paolo Odone, che sta in cima anche al vertice dell’Aeroporto, ai capi del sindacato, che si vedono tagliata la cassa integrazione fino, ovviamente, ai partiti di opposizione e ai parlamentari di Pd, Forza Italia, di Leu che definiscono il provvedimento “decretino” o decreto beffa.

Anche i pentastellati sono all’opposizione in città e in regione, ma, ovviamente, non fiatano. Nè loro, né il loro capo supremo Beppe Grillo, genovese quasi doc, silenzioso abitante nella ricca collina di sant’ Ilario, a Levante, lontano anni luce dalla povertà della sciagura in Valpolcevera, lui che con Di Maio sostiene di averla eliminata dall’Italia la povertà, grazie alla “manovra del popolo”. Il popolo è là sotto in Valpolcevera a soffrire, il capo è in collina dall’altra parte della città.

Quaranta e passa giorni dopo la città si sente tradita da un governo che pure era corso sotto il ponte con il premier Conte e i suoi vice, Salvini e Di Maio e si era beccato gli applausi, perfino la òla ai funerali delle diciassette vittime, nel grande Padiglione della Fiera del Mare, dove c’era una sola parola d’ordine: “Ripartire, ricostruire, fare presto,”

Nel decreto o “decretino” non c’è il nome del commissario, che spunterà dopo due giorni, quando il presidente Mattarella lo firmerà sulla scia dei dubbi per le coperture alle spese che i ragionieri dello Stato avevano espresso, “trattenendo” il provvedimento nei loro uffici, con grande scandalo dei pentastellati e un po’ meno dei leghisti.

Nel “decretino” non c’è nulla sul tempi e i modi di ciò che sta più a cuore di tutti: la ricostruzione. Nè i nomi delle ditte che ricostruiranno, né i tempi che fanno sanguinare Genova e anche l’Italia, che passava per questo ponte ed ora cerca strade più veloci, meno tortuose dello scatafascio di ligure.

Poi è uscito il nome di Claudio Gemme, genovese doc, con i genitori domiciliati in via Porro, sotto il ponte, un pedigree ansaldino, che vuol dire Genova e il quale ancor prima della nomina ufficiale ha rilasciato un mazzo di interviste per escludere l’ipotesi di un conflitto di interesse per la sua posizione di presidente di un società Fincantieri, azienda cui potrebbe capitare di costruire il ponte. Si è già dimesso da quel ruolo, pronto a impegnarsi in una delle operazioni più complicate della storia recente genovese: decidere chi demolisce e ricostruisce, a capo di una squadra di venti persone, due subcommissari, un po’ di tecnici e di superburocrati, pronti a scavalcare gli ostacoli. Con una pietra miliare nel loro lavoro: escludere in toto Autostrade spa, cui toccherà solo pagare l’operazione e se non lo facessero, il decreto ha preparato un meccanismo di finanziamento statale, lungo 30 anni di rate. Come dire: se Autostrade non paga l’immane danno provocato, lo farà lo Stato italiano, cioè tutti noi con le tasse. Salvo rifarsi con processi e cause interminabili alla vecchia concessionaria, che sta già preparando i cannoni dei ricorsi.

Questo decreto, tanto atteso, invano sventolato in piazza dallo stesso Giuseppe Conte (“Non sono venuto a mani vuote” – aveva urlato al microfono di piazza De Ferrari, a un mese dalla sciagura, mostrando il testo).

Al porto, in crisi verticale, con perdite di traffico che già viaggiano oltre il 30 per cento, il decreto riserva trenta milioni, una briciola, se questo è lo scalo principale in Italia, uno dei primi nel Meditterraneo. Altro che la cifra versata in tasse dallo scalo stesso e che avrebbe costituito una mossa attesa da decenni: l’autonomia finanziaria dei moli genovesi.

E ancora non si sa qual è il danno provocato al settore delle crociere, il più pimpante negli ultimi anni con 3 milioni di passeggeri in transito a Genova. Fino a quando Costa Carnival e Msc, le grandi compagnie mondiali, sceglieranno Genova per far partire e arrivare le loro maxinavi? Raggiungere le banchine “sacre” è un rebus di traffico.

Solo qualche piccola buona notizia allevia la sensazione di una città che, dopo l’emergenza, gli eroici sforzi del post tragedia, è chiaramente in ginocchio.

Hanno sgombrato le macerie dai binari ferroviari, che scorrevano sotto il ponte e collegavano il porto con l’entroterra. Fra 20 giorni quei binari saranno praticabili, ma si tratta di linee antiche che scaricano un po’ il traffico dalle strade ultratrafficate del dopo crollo. Erano già insufficienti ed ora sono presentate come “risolutive”.

Il decreto promette oltre 250 assunzioni nel settore pubblico, prevalentemente nella polizia locale e nei funzionari, ma sono gocce in una panorama occupazionale che si sta seccando velocemente. Il benzinaio, che aveva il suo distributore sotto il ponte e non rifornisce più nessuno, licenzia il suo aiutante. I negozi di via Jori e via Canepari, strade dei quartiere di Rivarolo, che erano polmoni commerciali con decine di esercizi e dove ora non va più nessuno, riducono il personale ogni giorno, che speranze hanno che la situzione si sblocchi?

Se l’amministratore delegato di Autostrade, Giovanni Castellucci, nella conferenza stampa del dopo tragedia aveva annunciato che si era in grado in otto mesi di ricostruire il ponte, ora quel tempo si è allungato e ogni giorno si allunga ancora nella indeterminatezza delle scelte. Ora siamo al 2021, cioè a tre anni di distanza per uscire dalla crisi.

Non si discute più di ponte militare in quattro e quattrotto, neppure più del disegno di Renzo Piano, il quale va da Fabio Fazio in tv a commuoversi, raccontando di come quel crollo abbia tanti significati per la città. Non si discute più, e per fortuna, del disegno dell’architetto amico di Beppe grillo, Giavazzi, il quale aveva progettato una vera muraglia con piste ciclabili, zone di ristoro e amenità varie.

Tutti immaginano che con la discesa in campo di Gemme a ricostruire sarà Fincantieri, che non ha mai fatto ponti. Un servizio su “Repubblica” ricordava la grande ooperazione di smontaggio della nave “Concordia”, con la costruzione dei cassoni per far galleggiare il relitto nel viaggio dall’isola del Giglio fino al porto di Genova. Chi ha costruito quei cassoni potrebbe essere lo stesso stabilimento Fincantieri che mette insieme i pezzi di ponte, tra Palermo e Genova-Sestri, dove la nuova società per il ponte avrebbe i suoi uffici.

Accanto a Fincantieri, come socio, anche Italferr, società delle ferrovie, esperta in infrastrutture, riempendo un suo vuoto nel core busineess, che non è certo quello di costruire ponti, anche se oggi la società ne sta progettando quattro per il Belgio.

Riesce difficile immaginare che chi ha sempre costruito navi (a Sestri sono in allestimento due grandi imbarcazioni per la Virgin) possa impegnarsi in questo ponte, così delicato nel suo ruolo, così atteso ed anche in qualche modo anticipato dal disegno di Renzo Piano, che da Fazio non si è certo tirato indietro, spiegando meglio quale sarebbe il suo ruolo, accanto a ingegneri, tecnici ed altri esperti. Ma Piano sarà della partita, ora che i suoi rapporti con il “superior”, Beppe Grillo si sono guastati?

Resta da vedere se il ruolo dell’archistar genovese (che odia farsi chiamare così) sarà compatibile con un’operazione a grande trazione grillina, ora che Beppe Grillo sembra preferire quello sconosciuto bergamasco, Giavazzi, fino al punto di definire il suo progetto per Genova “geniale”.

Il dibattito sulla ricostruzione, e ancor prima sulla demolizione, in realtà allunga i tempi, non offre una prospettiva né rapida, né veloce. Si parla, appunto, di tre anni e ci si chiede se Genova può resistere in questo modo per tre anni interi, senza ponte, “separata” dal resto del Nord Ovest, collegata ferroviariamente con linee vecchie e inadeguate, isolata di fatto come veniva incessantemente denunciato da pochi Don Chisciotte solitari, quali per esempio, l’editore della tv locale più forte in Liguria, “Primo Canale”, l’ex senatore di Scelta Civica, Maurizio Rossi, che urla da anni per far collegare meglio la città alle reti Fs, ma anche alle autostrade, con treni che da Roma impiegano cinque ore e da Milano quasi due, quando va bene.

Come resisterà Genova al progressivo prosciugamento delle sue attività economiche, nella grande valle colpita dove Ikea, Roi Merlin, Maison du Monde, Unieuro e gli altri colossi denunciano cali del fatturato già oltre il 20 per cento e un calo di clientela sempre più forte.

La grande distribuzione, che si era sistemata nella zona di Campi, ex area industriale di grande storia e tradizioni, è infatti ai bordi della “zona arancione”. Ci arrivi dal basso, nel groviglio di deviazioni dal casello autostradale dell’aereoporto e poi ti fermi, perchè il muro del ponte crollato impedisce il passaggio. Dall’alto, cioè dai quartieri a Nord della Valpolcevera, la Bolzaneto delle vecchie raffinerie Erg, dove ora c’è il grande mercato all’ingrosso, colassato anch’esso per la difficoltà dei dettaglianti di raggiungerlo, la Pontedecimo, ai piedi del passo dei Giovi, e i Comuni sulle colline, Sant’Olcese, Serrà Riccò, San Cipriano, Mignanego, sono come separati dal resto del mondo. Hanno un unico sbocco. Il casello autostradale di Bolzaneto per raggiungere il quale nell’orario di apertura di uffici, scuole, negozi, si formano code epocali. Per andare a lavorare ci mettevi da casa un quarto d’ora? Ora impieghi un’ora e mezzo all’andata e un’ora e mezzo al ritorno. Il ponte si è mangiato tre ore della tua vita.,

Come farà Genova a sopportare tutto questo per anni, aspettando che si accenda la speranza dell’inizio di un cantiere di demolizione-costruzione? Il sindaco Marco Bucci, che è un pragmatico ottimista, lavora ogni giorno per trovare soluzioni alternative al traffico bloccato, inventa sensi unici, doppie corsie di marcia, strade alternative e non si arrende.

Il governatore della Liguria, Giovanni Toti, che era il candidato a diventare commissario della ricostruzione, non ha peli sulla linguia a sparare sul decreto e su Toninelli, anche dalla sua posizione di alleato fedele e fedelissimo di Matteo Salvini e, in Liguria, di Edoardo Rixi, il vice ministro alle Infrastrutture, leghista della prima ora, l’uomo cuscinetto, tra la Lega che il ponte voleva già mettersi a ricostruirlo e quel ministro, che è venuto a glorificare il progetto dell’architetto bergamasco, prendendosi sul web oltre trentamila post di insulti.

Toti chiede che il decreto sia profondamente modificato nella discussione parlamentare e continua a sollecitare scelte rapide. Si gioca molto della sua posizione nazionale di leader di Forza Italia vicino all’onnipotente Salvini. Lui, il “capitano”, è l’ultimo ritornato a Genova dei leader di governo. Ha approfittato della festa leghista per correre dagli sfollati a rassicurarli. Ma con le passerelle i problemi non si risolvono. Per l’emergenza il 14 agosto Palazzo Chigi aveva stanziato subito 33 milioni di euro. A Genova, sotto il ponte, nella Valpolcevera in pezzi, non hanno ancora visto un centesimo di quella cifra. Anticipa il Comune. Per grazia non ricevuta.