Cile, 40 anni fa. Golpe: Allende suicida, Pinochet buttava salsa e spaghetti

Cile, 40 anni fa. Golpe: Allende suicida, Pinochet buttava salsa e spaghetti
Il generale Augusto Pinochet, capo del golpe di 40 anni fa in Cile (LaPresse)

“Non si preoccupi, Santiago del Cile è imbandierata, la folla per le strade festeggia!” mi aveva tranquillizzato, quella mattina dell’11 settembre 1973, l’allora ministro della Dc Paolo Emilio Taviani, quando in Italia era arrivata dall’acerbo inizio di primavera cileno, nell’ “altro mondo alla fine del mondo”, la notizia del golpe del generale Augusto Ugarte Pinochet contro il presidente socialista Salvador Allende.

Taviani era tutto meno che un tifoso di quella violenta operazione militare che stava insanguinando il Cile, ma si stava illudendo che il colpo di stato, partito dalle guarnigioni della Marina di Valparaiso e che stava decapitando il governo socialcomunista di Unitad Popular, fosse “morbido”.

Lo aspettavano tutti in America Latina, in Europa e soprattutto negli Usa quel golpe che avrebbe fermato la rivoluzione socialista, il fermento del Cono Sud del Sud America, la fotocopia su una scena molto diversa geograficamente, dai ghiacci dello stretto di Magellano al deserto di Acatama allo scenario caraibico, ma simile politicamente a Cuba.

E Fidel non era arrivato a Santiago e non si era fermato, contro ogni protocollo, per tre settimane intere a girare per il Cile socialista e rivoluzionario, a sostenere l’amico Salvador?

In Italia Cile voleva dire volgarmente “spaghetti in salsa cilena”, cioè una soluzione politica importata da lontano, ma che fosse in grado di trovare una strada democratica al socialismo, di mescolare forze di governo diverse, come il socialismo storico di Allende con il marxismo comunista di Corvalan e l’estremismo extraparlamentare del Mir, Movimento della Sinistra Rivoluzionaria con qualche “occhieggiamento” della sinistra democristiana cattolica. E tutto questo dopo una vittoria elettorale, quella di Salvador Allende, senza nessun atto di forza.

Era l’Italia dove stava sorgendo l’alba tragica degli anni di piombo, delle bomba di destra sui treni e delle prime azioni proletarie della Banda genovese XXII Ottobre, i nonni delle Br, che si erano appena costituite a Chiavari sotto la guida di Renato Curcio, studente di sociologia a Trento. Era l’Italia democristiana e socialista, dove il centro sinistra classico stava defungendo, dove il Pci guadagnava terreno e conquistava la società civile e che era, in quell’anno fatidico per il Cile, governata da un centro destra con Andreotti presidente del Consiglio e Giovanni Malagodi, il leader liberale, ministro del Tesoro. Taviani era ministro del Bilancio e della Cassa per il Mezzogiorno.

In quel clima, l’esperimento cileno, incominciato nel 1971, con la vittoria elettorale di Allende, era seguito quasi al microscopio, soprattutto da quegli ambienti che incominciavano a immaginare un avvicinamento tra la Dc e il Pci di Enrico Berlinguer, nel solco di quello che allora veniva già chiamato “compromesso storico”.

Quale modello migliore da studiare della Unitad Popular cilena, dove il dottor Salvador Allende era considerato un socialista moderato, che aveva stretto una alleanza strategica con un Partito Comunista molto “moscovita”, molto ortodosso, raccogliendo nella sua alleanza anche le frange più avanzate di un altro socialismo, quello ben più spinto di Carlos Altamirano, che in Italia si poteva assimilare alle correnti più a sinistra del Psi, i lombardiani e oltre, verso la nascente galassia dei movimenti extraparlamentari?

In Cile nel 1970 quel modello “aperto”, in un contesto così diverso, aveva vinto e tenuto alla sua destra non solo la Democrazia Cristiana di Eduardo Frei, ma anche il partito liberale di Jorge Alessandri, due ex presidenti del Cile democratico, uno dei sistemi politici più equilibrati dell’America Latina di quei ruggenti anni Settanta, nei quali l’Argentina, il Brasile, il Perù, i paesi più consistenti da un punto di vista del ruolo subcontinentale, rullavano tra spinte e controspinte militari e rivoluzionarie.

Taviani aveva due ragione forti per tenere sotto la sua attenzione quel paese, quell’esperimento, una affettiva ed una politica. La ragione affettiva era la presenza in Cile di una dei suoi figli, Cesare che lavorava a Churanilague, vicino a Concepcion, una cittadina non lontana da Santiago, in una Comunità ed era una specie di missionario laico che aveva portato laggiù la sua giovane moglie e i suoi bimbi e svolgeva un lavoro di assistenza e formazione sociale, proprio in quel clima di aperture al socialismo.

La ragione più politica di Taviani era la sua convinzione di democristiano, presidente dei partigiani cattolici della FVL, ex doroteo, capo di una corrente detta dei “pontieri” (che da lì a poco avrebbe sciolto), che si occupava di tenere legate le diverse anime democristiane: oramai era necessario in Italia un rapporto più stretto con il Pci, un dialogo più diretto, una prospettiva di alleanze. Lo spingeva in quella direzione, con una condizione di preveggenza, la sua passione per la politica estera che lo attirava verso ogni esperienza politica nuova, lo induceva la progressione della politica italiana con l’avanzata elettorale del Pci, le difficoltà di dialogo con il Psi nei governi di centro sinistra, di cui aveva ininterrottamente fatto parte, oramai da quasi venti anni.

Non era la posizione di Aldo Moro, che sei sette anni dopo avrebbe pagato con la vita la chiusura del cerchio del compromesso storico, ma ci era vicina ed aveva anche connotati più pragmatico-economici, che erano nella sua dotazione.

Insomma Taviani era affascinato dalla salsa cilena e dal tentativo di Salvador Allende, che aveva conosciuto, ma del quale non era certo un tifoso. Era un osservatore attento, quasi metodico, informato dal figlio Cesare degli sviluppi della situazione. E come molti in Italia e in Europa si fidava della tenuta del sistema democratico cileno, quello più a prova di golpe delle sofferenti democrazie sudamericane, il Brasile in mano allora a generali duri e ai plotoni della morte, l’Argentina ondeggiante tra Peron, i suoi epigoni o le sue epigoni e le fatuità dei desarollisti Frondizi e Frigelio, il Perù dei generali di sinistra.

Certo, in Cile c’era un esercito formato dalla scuola tedesca di una delle immigrazioni più potenti in quella parte affascinante del Cono Sud, i militari sfilavano nelle Avenida di Santiago, battendo il passo dell’oca, come la Whermarcht tedesca e avevano caschi simili a quelli dei corpi militari tedeschi. Ma almeno fino al 1971-1972 era impensabile che quell’esercito diventasse violento e sanguinario e prendesse il potere in modo così devastante, bombardando perfino la Moneda, il palazzo di Allende e facendo sparire decine di migliaia di oppositori.

Per questo il primo messaggio del ministro democristiano su Santiago imbandierata, perché stava finendo non solo il governo di Unitad Popular , ma un periodo durissimo per il Cile, inginocchiato dalla crisi economica, con le riforme socialiste tutte esplose, quella agraria incompiuta con le espropriazioni dei grandi proprietari terrieri, quella del rame, le miniere “salario” del Cile statalizzate e rese inefficienti dagli embarghi Usa e dagli scioperi degli autotrasportatori che bloccavano il prezioso metallo.

Era una democrazia, quella cilena, nella quale gli avversari politici erano anche amici tra di loro, seppure su barricate opposte. Allende aveva vinto dopo due tentativi elettorali falliti e poteva sembrare che gli fosse consentito di provarci con quella ricetta della Unitad Popular, riuscendo a mediare tra l’anima comunista che voleva procedere con i piedi di piombo secondo il comandamento “consolidar para avancar”, mentre i socialisti estremisti opponevano il loro “avancar para consolidar”.

Che voleva dire facciamo tutte le riforme subito, cambiamo l’economia da capo a fondo e vinceremo. Era facile illudersi che l’esperimento procedesse senza scosse nel clima mondiale e sudamericano che si era creato intorno al Cile di Allende: c’era il timbro di Fidel Castro a Santiago, c’era la fascination del Che Guevara che era morto nella foresta boliviana e stava diventando il mito delle generazioni occidentali postsessantotto, c’era il “canto” del grande romanziere colombiano Gabriel Garcia Marquez il cui libro “Cento Anni di solitudine”, pubblicato nel 1968, era diventato la bandiera, il manifesto del Subcontinente e poi di tutti i movimenti libertari nel mondo. E lui “Gabo” era affascinato dalla rivoluzione cilena, mentre la colonna sonora di tutto ciò diventavano le canzoni del complesso andino degli Inti Illimani, che cantavano “El pueblo unido jamas serà vencido”, il popolo unito non sarà mai sconfitto e emozionavano mezzo mondo, mentre Santiago diventava come un esperimento in vitro politicamente, dove Pablo Neruda vinceva il Nobel della poesia, dove gli osservatori dell’Est europeo diventavano consiglieri e si installavano a centinaia nelle comuni, dove sventolava più che la bandiera di Unitad Popular quella del MIR, i rivoluzionari.

Chi arrivava in Cile nei mesi, perfino nell’anno prima del golpe dell’11 settembre 1973, come è capitato al vostro cronista, trovava una tensione insopportabile. I camionisti, potente lobby anti Allende, mandavano in tilt il Paese con i loro scioperi, provocando il “desabastacimiento”, cioè la mancanza di rifornimenti di generi alimentari e di tutto quello che era necessario per vivere.

L’inverno australe, in quella striscia di terra lunga e stretta che è il Cile, tra le Ande, l’Aconcagua e i deserti del Nord, diventava durissimo e l’estate si infiammava. Le miniere del rame erano paralizzate dagli scioperi che colpivano non i vecchi padroni, ma la proprietà dello Stato, le campagne espropriate non producevano quello che ci si aspettava, dopo la nazionalizzazione a danno dei latifondisti…..Che tutto questo sfociasse nella tragedia del colpo di tacco dei generali golpisti, agli ordini di Pinochet, uno dei tanti militari che anche Allende era abituato a frequentare e di cui si fidava, al punto da affidare in quella situazione estrema il ministero dell’Interno al collega Generale Carlos Pratts, non era prevedibile, soprattutto per chi aveva messo sotto vetro l’esperimento cileno, come fosse quasi una ipotesi di scuola.

Non si facevano i conti con le teorie Usa di controllo del continente americano, con la dottrina Monroe, con la politica di Nixon-Kissinger, con la bruciatura cubana che gli stati Uniti si erano presi, dieci anni prima, quando Jhon Kennedy aveva dovuto bloccare l’isola di Fidel e i missili russi puntati sulle città americane.

Il Cile era laggiù, in fondo all’America Latina, ma la sua tradizione era evoluta, la sua economia, prima degli scossoni socialisti, era stata una delle più solide, come poi sarebbe tornata ad essere, dopo il bagno di sangue e il lungo regime golpista sotto quel generale che compariva sempre in divisa con il muso truce e gli occhiali scuri.

Negli ultimi frenetici mesi, prima del golpe, prima che tutto esplodesse nella carneficina dello stadio di Santiago e nel dramma incancellabile di 30 mila desaparecidos, non si parlava più in Italia di “spaghetti in salsa cilena”, ma si guardava con apprensione agli sviluppi, che una attesa caduta di Allende avrebbe scatenato.

L’America Latina bruciava per intero intorno a quel Cile: in Argentina stava tornando, dopo 25 anni di esilio, Juan Pèron, con la seconda moglie, “copia” della prima, Isabelita per restaurare un sistema ultra demagogico-popolare devastante che avrebbe introdotto, dopo il golpe militare del 1976 una delle dittature militari più sanguinarie della storia. Il Brasile, definito il gendarme del Sud America, scatenava le squadre della morte che si sono inventati i suoi generali.

La mattina dell’11 settembre 1973 quegli spaghetti in salsa cilena vanno di traverso a tutti. Il golpe parte all’alba da un incrociatore che al largo di Valparaiso spara sul comando a terra. È il segnale che la Marina Militare si è sollevata. A terra si associano i comandanti dell’esercito e quelli dell’Aviazione mandano a volo radente i caccia a bombardare la radio governativa. Alle 8,30, che sono in Italia le 14,30, la radio annuncia l’insediamento della nuova giunta militare, comandata da Pinochet, un nome che solo il Cile conosceva.

Il centro di Santiago è circondato dai carri armati, la Moneda diventa l’ultimo baluardo, dove Allende si chiude con la sua guardia personale i Gap, tra i quali il futuro grande scrittore Luis Sepulveda, imbracciando il mitra Kalascnikov AK-47, che gli aveva regalato il previdente Fidel Castro.

Il 13 settembre, due giorni dopo il golpe, il mondo apprende il dramma per intero: il presidente morto suicida, due fori di arma da fuoco da distanza ravvicinata sotto il mento, compatibili con il suicidio, come ha scritto su “Sette” del Corriere della Sera Rocco Cotroneo, giornalista grande esperto di Sudamerica e della sua storia recente.

Il fiume di Santiago, rio Mapocho, si tinge di sangue.È la fine della via socialista attraverso la democrazia, il sogno anche italiano degli spaghetti in salsa cilena, è il crak di una illusione mondiale anti imperialista degli anni Settanta, che provocò tanti sussulti anche in Europa e in casa nostra. L’America Latina intera entra nel buio di dieci anni di sangue e repressione.

Taviani oggi si chiederebbe se quella era la reazione dell’imperialismo e del fascismo a un piccolo tentativo di arrivare al socialismo con una strada di democrazia o se era, diciotto anni prima del Muro di Berlino, quella era la sepoltura anticipata del regime marxista.

Quel giorno Santiago non era imbandierata, se non nei suoi quartieri alti, il Barrio Alto, ma quell’altro giorno di diciotto anni dopo, Berlino era addirittura impazzita di festa.

 

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