Petaloso o stepchild la lingua italiana non si arrende ma…

Da petaloso a stepchild, la lingua italiana non si arrende
Da petaloso a stepchild, la lingua italiana non si arrende

ROMA – Come sta la lingua italiana a 160 anni dalla nascita ufficiale con l’Unificazione, quando si può dire che il modo di parlare sia diventato “adulto”? Come sta oggi, che il cosiddetto meticciato linguistico spopola, che le parole straniere si intrufolano perfino nel linguaggio delle istituzioni, vedi stepchild adoption, job act o grow act, ora che i social dettano nuove parole, nuove abbreviazioni? Ora che perfino dalla scuola emergono nella hit parade delle nuove parole di successo termini come l’oramai celebre e simbolico “petaloso”?

Non sta male, da adulto, l’italiano, ma dipende molto dalla cultura di chi potrebbe guidarlo, limitando gli eccessi e le invasioni. I “parlanti” dell’italiano sono aumentati con il progressivo e inarrestabile ridursi dei dialetti: questo è un aspetto positivo, ma i guai arrivano se le aggressioni straniere delle parole di altre lingue, sopratutto dell’inglese, conquistano le espressioni della scienza, dell’economia, delle arti e, appunto, delle istituzioni, come è recentemente avvenuto con i termini usati nella legge delle Unioni Civili: stepchild adoption, per esempio. Qui il problema è che non siamo in grado di inventare più nuove parole e le adottiamo supinamente da altre lingue. Un grande linguista come Francesco Sabatini ha contrapposto a stepchild adoption “adozione del configlio”, usando quel meccanismo di “consuocero”, “compartecipazione”, largamente accettato dal parlar corrente.

Dello stato dell’italiano, dei suoi rischi, delle deviazioni, parliamo con Vittorio Coletti, Accademico della Crusca, docente di Storia della Lingua Italiana all’Università di Genova, autore con Sabatini del famoso dizionario Sabatini-Colletti e di molte altre pubblicazioni, di cui l’ultimissima, “Grammatica dell’Italiano Adulto” (Il Mulino), sta ottenendo un grande successo di vendite.

Questa Grammatica viene definita da Coletti stesso nella prefazione un manuale di Pronto Soccorso della lingua, ma poi è lui a precisare che l’italiano non è un “malato da Pronto Soccorso, non bisogna curare la lingua, sono i parlanti che prima di tutto devono conoscerla e averne una piena consapevolezza. Un esempio su tutti: il tanto discusso uso del congiuntivo, di cui appunto si sta perdendo la capacità di utilizzo”.

“I parlanti sono molto cresciuti e ora sono la stragrande maggioranza degli italiani, che usano molto meno il dialetto – spiega Coletti – Questa crescita ha accentuato molti fenomeni nel “movimento” della lingua. Un esempio per spiegare come l’uso massiccio e più esteso produca errori? Si dovrebbe dire “ se ti avessi incontrato ieri, te lo avrei detto…..” e invece si dice spesso: “ se ti incontravo ieri, te lo dicevo…”. Cosa significa questo? Che il parlato semplifica”.

Coletti usa un esempio ancora più spettacolare, quasi cinematografico, citando un personaggio cult dello strafalcionismo linguistico, il Paolo Villaggio-Fracchia di tanti film comici. “Perché Villaggio dice, facendo ridere le platee, o, commettendo un errore che faceva lo stesso Leopardi? Perché il verbo andare al congiuntivo diventa vada, mentre altri verbi come amare finiscono in ami, cioè con il finale in i. Per il parlante scatta la regola analogica, che lo porta a usare lo stesso finale di altri verbi e quindi sbaglia, perché non ha piena coscienza… Insomma il problema sono le eccezioni, non le regole”.

L’altro problema della massificazione della lingua è, forse, questo ricorrere continuamente ai termini stranieri, una vera invasione nel parlato?

“Questo è certamente un problema – spiega Coletti – ma non se si usa un termine straniero, diventato oramai universale, come per esempio abat jour o computer. In questi casi il problema della parola totale non è preoccupante. E’, invece, preoccupante se la parola straniera viene introdotta nell’economia, nella scienza, e addirittura nelle istituzioni, come – lo abbiamo già ricordato – job act, stepchild adoption – . Anche usare parole come sport e film, che una volta non si potevano nominare, non significa tradire l’italiano”.

Di fronte all’invasione di “forestierismi”, così si chiamano i termini stranieri che ci stanno “corrompendo”, l’emergenza – secondo il professore linguista – è piuttosto quella di una società e di un movimento culturale che non riescono più a “copiare” i termini nuovi prodotti nel mondo.

“E’ grave che l’ italiano non arrivi più a copiare e non abbia l’ambizione di farlo. I francesi e gli spagnoli sono molto più avanti di noi in questo senso. Una volta almeno arrivavamo a copiare bene: regista viene da regisseur. Vuol dire che non siamo più in grado di inventare nulla? Decidiamo di “adottare” le parole e ci stabilizziamo in quella posizione. Credo sia proprio un problema di cultura: non riconosciamo spesso un ruolo sociale alla lingua e in questo modo si impoverisce tutto. I termini come stepchild adoption bisogna evitarli, perché innescano processi lenti del linguaggio ma alla lunga pericolosi.
Se non si incomincia a reagire altri termini, come “Ministero del Welfare” o “question time”, mutuati dalla politica, non si sradicano più: si impianta una terminologia non italiana in luoghi ufficiali come il Governo e il Parlamento”.

Non saremo, a questo punto, in una situazione di pronto soccorso dell’italiano, ma qualcosa deve essere scattato tra i primi difensori della lingua se proprio l’Accademia della Crusca ha organizzato un vero e proprio servizio dal titolo “Incipit”, che serve a intervenire quando la minaccia è diretta e pericolosa e sollecita una reazione immediata.

“Per esempio quando hanno incominciato a dilagare le parole “bail-in” e “bail-out” nella terminologia bancaria, la Crusca ha subito corretto in italiano “ salvataggio interno” e “salvataggio esterno”_ esemplifica ancora Vittorio Coletti.

Certi processi che introducono i forestierismi sono, d’altra parte, apparentemente imparabili. Come mai il termine “mouse”, che indica una funzione chiave del computer, non è stata tradotta subito per quel che è, cioè “topolino”?

“Perché le parole possono improvvisamente avere anche significati nuovi – spiega Coletti – Vi ricordate quando, all’inizio dell’era automobilistica, il volante venne chiamato in quel modo, usando il verbo volare che non c’entrava nulla? Si indicava un altro significato, che poi si è consolidato eccome!”

Oggi è molto più difficile creare termini con significati nuovi: probabile segno di una debolezza culturale della società.

“E’ come se soffrissimo di un complesso di inferiorità linguistico. L’italiano non è una lingua troppo moderna – giustifica ancora Coletti – ha un passato molto profondo ed è talmente radicato che è difficile trovare nei testi antichi qualcosa di incomprensibile oggi. Siamo in grado di capire tutto “indietro”. Non avviene la stessa cosa per i francesi, gli spagnoli, gli inglesi, che quando si imbattono in certi testi secolari hanno bisogno di un vero e proprio traduttore.”

Rispetto alle invasioni straniere verrebbe da ricordare a chi, come la Crusca e Coletti, difende e “cura” l’italiano oggi, se non fosse per caso corretto quello che fece il fascismo mussoliniano per isolare l’italiano dai termini stranieri, fino a coprirsi di ridicolo per la traduzione forzata di tante parole.

“Ci sono certi linguisti come Tullio De Mauro – spiega Coletti – che hanno poi giustificato quell’atteggiamento, che era sbagliato. Oggi è sbagliata, semmai, la rinuncia a certe parole straniere per principio. Il meticciato linguistico va, comunque, accettato, ma bisogna distinguere due livelli. Un livello di guida e un livello quotidiano. Nel livello di guida bisogna stare molto attenti e non esagerare.

Perché si fanno tanti corsi in inglese nell’Università italiana, usando quella lingua per insegnare? La società poi paga questi costi e la ricaduta di quello sforzo, anche economico, non c’è. Guai a uscire dall’italiano nel livello alto, appunto di guida, nel “sapere alto”. Questo sì che è un errore grave. Il dialetto si è ridimensionato ed è avviato a restare nella nicchia proprio perché ha rinunciato a “nominare” il linguaggio alto. Se l’italiano non “nomina” più la scienza, la medicina, allora davvero rischia molto. E questo potrebbe veramente succedere. Se si insegna in inglese le parole in uso in quella disciplina saranno sempre di più inestirpabilmente inglesi. E’ chiaro che nel livello quotidiano il forestierismo produce meno danni.

Sono i mezzi di comunicazione, la televisione con i suoi mille canali, i social, il web, con i loro fiumi di parole, le loro regole standard di numeri e abbreviazioni, un ostacolo per la lingua?

“E’ chiaro che i grandi mezzi di comunicazione sono molto importanti per dettare le regole – risponde Coletti – Come dimenticare il ruolo che avevano tanti secoli fa le grandi predicazioni della Chiesa nella diffusione e nell’insegnamento della lingua? E oggi come si affermano termini come job act se non con il martellamento tv? Ci vogliono, a mio avviso, una pulizia e una trasparenza nell’uso di questi grandi mezzi di diffusione anche della lingua. Francia e Spagna esercitano un controllo sui mezzi di comunicazione di massa. Suggeriscono regole, decaloghi, pongono qualche limite. I mezzi di comunicazione potrebbero decidere di intervenire”.

Ma questo non può sembrare una censura, una limitazione perfino pesante?

“I difensori della lingua sono i cittadini stessi – racconta Coletti – ci sono valanghe di lettere ai giornali su questi temi. All’Accademia della Crusca arrivano migliaia di lettere, che segnalano problemi e chiedono suggerimenti. Abbiamo un servizio ad hoc, che si chiama “consulenze”, mai come oggi attivo. Francesco Sabatini risponde tutte le settimane su Rai1. Sono attività necessarie perché altrimenti le “invenzioni”, come quella del termine oggi di gran moda “petaloso”, diventano la molla per una gara a creare dal nulla: ogni scuola potrebbe partecipare a un megaconcorso per inventare, appunto, la parola più “in”.”

A Vittorio Coletti, che sta su questa frontiera insieme di custode e difensore della lingua e suo continuo esegeta interessa molto sottolineare come il processo di conoscere meglio la lingua, il suo funzionamento, la consapevolezza di quello che si ha in mano con le parole, sia fondamentale.

“Bisogna stare attenti e anche distinguere la lingua parlata da quella scritta – spiega – La differenza si è molto ridotta e questo crea grandi questioni. Non si può, però, dimenticare che il parlato e lo scritto rispondono a due modelli biologici diversi. Per parlare servono la bocca, gli occhi, l’orecchio e una parte del cervello. Per scrivere servono gli occhi, la mano e un’altra parte del cervello. Parliamo molto molto di più di quanto scriviamo: bisogna averne coscienza”.

Restando sullo scritto, che sarà molto meno del parlato, ma che ora, tra messaggini, email, chat, uso sfrenato di connessioni e web, vive un’altra era, ci sarebbe da chiedersi se questo new linguaggio crea potenti distorsioni all’italiano adulto.

“Ricordiamo che anche nel Decamerone c’erano le abbreviazioni – ricorda il professore – e che anche Cicerone abbreviava il discorso orale dalla preparazione scritta”.

Insomma l‘italiano adulto, come lo chiama con un chiaro riferimento di stima Coletti, è vitale, vivo anche se subordinato agli ondeggiamenti della società, della cultura che lo devono sorreggere ancor più nei tempi moderni. “Non dimentichiamo quello che rappresenta ancora l’italiano nella storia dell’arte, nella musica: gli altri dovevano, devono ancora impararlo…”.

Rimane quel “petaloso”, la “pietra dello scandalo”, la miccia che potrebbe avere acceso un dibattito utile.

“Si conia un parlare “nuovo” – conclude Vittorio Coletti – Prendi un nome e ci aggiungi “oso” e così formi una parola. Petaloso vuol dire che ha più petali, come tutti i fiori. Il problema è se poi questa parola ha successo, se si afferma. “Comodoso”, per esempio non era riuscito. “Faccioso”, invece si. Per dire se una parola nuova e regolare bisogna stabilire: 1) se ha successo, 2) se rispetta le regole, 3) se ha un senso semantico che copre un significato non coperto. Non tutte le parole scoperte, poi servono, perché devono, appunto, essere gradite, regolari e avere un senso aggiuntivo”.

Parola (adulta) dell’Accademia della Crusca.

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