GENOVA – La raffica tanto attesa e temuta arriva alle quindici in punto dal mare, cancellando in una nuvola il porto, le case e finendo a schiantarsi contro la collina di Castelletto, da dove si vedrebbe il Paradiso genovese, cantato dal poeta Giorgio Caproni.
La cellula o la cella, come la chiamano i metereologi sconfitti di questo autunno kaputt, fa presto per fortuna a scaricarsi e non rigenerarsi su un pezzo di città, che va dal centro verso Ponente ed è lontana parente dei temporali rigenerati a ripetizione che, tra mercoledì e venerdì notte, hanno colpito a morte la città, piegandola, allagandola, facendola diventare non solo l’epicentro della disgrazia idrogeologica italiana, ma anche l’ombelico della vergogna nazionale per l’inconcludenza, la burocrazia giudiziaria frenante e la meritocrazia a rovescio.
Chi non ha fatto nulla per impedire quel dissesto idrogeologico si è preso pure quarantaquaattromila euro di premio per i risultati raggiunti in un piano comunale di incentivazione del proprio personale dirigente, secondo un sistema premiale che arriva sulla città affogata come la beffa, dopo il danno, dopo l’incapacità amministrativa, dopo la paralisi e l’inefficienza, dopo i deficit della Protezione Civile, prima nella prevenzione, poi nella previsione ed ora nella gestione della catastrofe.
E’ l’ex senatore liberale, ex candidato sindaco sconfitto dalla sinistra per due volte, prima in Forza Italia e poi da indipendente, il professore universitario Enrico Musso, che smaschera da consigliere comunale di opposizione in carica la storia dei quattro moschiettieri, dirigenti comunali, gente da stipendio tra i 160 e i 200 mila euro all’anno, che si sono beccati la supergratifica, un anno e mezzo fa, per avere raggiunto un obiettivo prefissato.
Racconta Enrico Musso:
“ E’ stato facile smascherarli, mi è bastato incrociare due tabelle sul computer, perché mi ricordavo l’inaugurazione di quel sistema di premi e sapevo di un risultato raggiunto da almeno quattro funzionari in tema di difesa del territorio sulla base di obiettivi prefissati dal Comune”.
L’ex senatore è diventato la superstar del giorno dopo il disastro con questo scoop che smaschera l’efficienza a rovescio del Comune di Genova, che premia chi fallisce.
Intervistato da tutti i tg e da tutti i giornali, questo professore universitario di Economia dei Trasporti pesca il jolly nel mare in tempesta di una città che oramai è spaccata su due fronti, aspettando la fine di un’emergenza che dura e non cessa e fa stare tutti con il fiato sospeso, gli occhi al cielo, il respiro tagliato da un clima terribile, 25, 26 gradi di temperatura, tassi di umidità al 90 per cento, il mare che bolle a 24 gradi, spazzato da uno scirocco gravido, che si alterna a colpi di libeccio frontali.
Il primo fronte è quello della contestazione che monta non solo con la paradossale passeggiata di domenica, 12 ottobre non celebrato dell’anniversario colombiano per la Scoperta dell’America, del sindaco Marco Doria tra gli insulti della gente che spalava fango e rabbia e svuotava i negozi e le cantine e recuperava i relitti di centiniaia di automobili e moto e si impastavaa di fango nel cuore della città.
Anche la frase anti-Stato del prefetto Franco Gabrielli, capo della Protezione Civile, arrivato qua con la sua giacca a vento di ordinanza e l’ammissione della previsione meteo sbagliata, che si scaglia contro le Istituzioni colpevoli di non far funzionare il sistema delle opere pubbliche in grado di proteggere la città dalle alluvioni, responsabile delle lentezze, della dispersione di quei 45 milioni di euro destinati allo scolmatore del rio Fereggiano e impiombati in una girandola di corsi e ricorsi al Tar della Liguria e a quello del Lazio, con le ditte appaltatrici che si contendono il doppio boccone dello scolmatore e della copertura del killer Bisagno, fa montare la ribellione.
E come non potrebbe essere diversamente? Chi è Gabrielli se non lo Stato stesso, che si presenta a Genova con il suo carico di responsabilità nella direzione della Protezione civile, megastruttura messa su dal 1976 dal Governo e diventata oggi una colosso da 15 mila uomini, un esercito più esercito di quello con le stellette, che manda ora i suoi soldati a spalare fango e mettere sacchetti di sabbia nel timore di altri straripamenti?
Chi è, se non un prefetto, rappresentante dello Stato, del Governo, incapaci di proteggere una città che dal 1970 ha avuto più di cento morti e miliardi di danni e solo nell’ultima tornata i danni pubblici sono più di trecento milioni e quelli privati devi moltiplicare almeno per tre.
La caccia ai responsabili è il primo fronte con l’avvoltolamento tra livelli locali, nazionali e territoriali.
Prima colpa: non avere dato l’allarme,
seconda colpa non avere azzeccato la previsione (ma poveretti, è la prima volta che sbagliano, dice il presidente della Liguria, Claudio Burlando, bisogna essere comprensivi…. Poi hanno sbagliato anche lunedi, senza prevedere che lo tsunami colpiva il Nord della Provincia di Genova, le colline verso Alessandria, Novi Ligure, Campo Ligure, Masone, Rossiglione, Gavi),
terza colpa non avere un piano autentico in caso di emergenza, ma quattro fogli giudicati inadeguati dallo stesso Comune di Genova e mai preparati, anche se qui l’alluvione è una calamità permanente e quel che si deve fare lo sanno anche i bambini, quelli che poi finiscono nelle foto-show dell’evento perchè a quattro-cinque anni sono già lì a spalare.
E di chi è la responsabilità del mancato piano, se non della Protezione Civile nazionale e locale che in questa emergenza – scusate il verbo irridente – purtroppo ci sguazza?
E dov’è la responsabile di questa Protezione Civile, l’assessore regionale Raffella Paita, concorrente alle prossime elezioni liguri, candidata di Burlando e fatta sparire in questi giorni dal mago Zurlì (la sostituisce in giro per le vie crucis di Genova e della Liguria il povero Claudio Montaldo, vicepresidente della Regione, anche lui pd, reggi coda di Burlando da decenni)?
L’hanno fatta evaporare per non bruciarla alle Primarie, che si dovevano tenere a partire dalla raccolta delle firme nei prossimi giorni e nelle quali lei partiva in grande vantaggio.
Ma le Primarie sono state congelate (meglio dire sono state affogate) dai vertici del Pd genovese, i quali hanno scoperto che non si possono fare le conte dei candidati quando la distanza con i cittadini è abissale e non c’è un democrat in grado di mostrare la faccia non solo nei caruggi di Genova, ma in ogni strada del circondario.
Quarta colpa: avere perso quei finanziamenti senza colpo ferire, aspettando i verdetti del Tar e i ricorsi dei concorrenti, come oggi si aspettano le cellule di tempesta: inevitabili e senza previsioni di tempi.
Qui i tempi sono eterni perchè l’opera chiave, quella dello scolmatore del Fereggiano è ferma dal 1993, anche se i finanziamenti arenati nella giustizia da azzeccagarbugli dell’anno tremila sono arrivati dopo, molto dopo.
Ma chi ha dirottato tra il 2009 e il 2011 della tragedia costata sei vite i finanziamenti precedenti a quei 45 milioni sul Fereggiano e chi ha non ha reagito al balletto sui finanziamenti dell’altra opera chiave, già in rifacimento, ma lenta come Matusalemme, per la copertura del Bisagno, imponendo uno Sblocca-Genova, altro che Sblocca Italia!
Le due opere principali per salvare il salvabile negli ultimi tre anni sono state ferme e nessun politico, nazionale o locale, nessun premier da Berlusconi a Monti, a Letta, a Renzi, governanti in successione, nessun prefetto che fosse il Bertolaso di prima o il Gabrielli di oggi, nessun sindaco in carica, e qui c’è solo Marco Doria, o nessun presidente di Regione e qui c’è solo l’immortale Burlando, in sella dal 2005, ma in campo in politica dagli anni Ottanta e pure sindaco di Genova tra il 1992 e il 1993 fatidico dell’opera Fereggiano, che lui dichiara di avere incominciato allora a finanziare e se dopo 21 anni non ci sei riuscito…… e pure ministro dei Trasporti, che ha battuto un pugno sul tavolo…….Che ha urlato allo scandalo!
Quinta colpa, pensare che Fereggiano e Bisagno, con opere connesse, siano la chiave per salvare la città dalle alluvioni, come se non ci fossero altri 88 rii che scendono dal grande anfiteatro genovese e che uccidono pure loro e devastano e ora nessuno ricorda nulla, perchè è facile dimenticare.
Ma nel 2010 e anche nel 2011 Sestri Ponente era devastata dal Rio Molinassi, che scende con un alveo incassato tra case e montagne di detriti ed è stato uno scandalo tanto forte, che alla decima alluvione finalmnte hanno demolito un palazzo, piazzato proprio in mezzo al fiume e hanno festeggiato gli stessi politici, come se avessero vinto all’Enalotto, invece avevano solo fatto il loro dovere in ritardo di venti anni e di dieci alluvioni.
Perfino lo Sturla, torrente del Levante cittadino è un killer che nel 1992 uccise una nonna e la sua nipotina, rimaste a casa in un edificio costruito in mezzo all’alveo. I parenti di quella bimba piangono ancora, ma chi parla dello Sturla?
E chi si ricorda del Rio Carbonara, che scende dalla collina del Righi, sprofonda nella pancia del nobile quartiere di Castelletto e nel 1985 esplose nei caruggi del centro storico e annegò una povera anziana che si trovava nel caveau di una banca e non riusci a risalire le scale in tempo……
E il rio Torbella è saltato fuori a Rivarolo, la notte dopo la spallata del Fereggiano e del Bisagno e ora sgombrano case e appartamenti tra Rivarolo e san Quirico, nel Ponente profondo, in quei posti dove bruciava la fiamma della raffineria Garrone, Valpolcevera, altro mondo rispetto al Bisagno e altra valle, ma stesse croci alluvionali.
La geografia di Genova è complessa e la sua composizione urbanistica si è formata perfino parallelamente, in senso sociale e in senso di rischio alluvionale.
Si tratta della storia stessa della città, la sua evoluzione urbanistica che oggi attenti cronisti ricostruiscono, spiegando indirettamente perché da una parte si muore annegati e franati e altrove si sta al sicuro.
La colpa più grande è quella di chi ha stretto il Bisagno, torrente fino all’Ottocento dalle anse larghe e curve, dall’alveo quasi esagerato per il corso delle acque, in un rio costretto tra muraglioni sempre più vicini, fino a coprirlo e a incanalarlo stretto, prevedendo che la sua portata massima sarebbe stata 500 metri cubi al secondo. Errore terrificante quando è stato commesso negli anni Trenta della sua copertura.
L’altra notte la piena era a 1200 metri cubi al secondo e chi lo ha strangolato, costruendo interi quartieri sopra le sue sponde e sul suo vecchio letto, tra le colline e il suo zigzagare nella lunga valle periferica si rivolterà nella tomba.
“Forse il grande errore è stato proprio coprirlo – sospira un grande sindaco degli anni Settanta, ancora in forma e oggi attento osservatore della sua città, Giancarlo Piombino, un democristiano tavianeo di ferro che governò la città fino al 1974 delle prime giunte rosse. – Se invece di costruire sopra il corso del Bisagno viale Brigate Partigiane, la grande strada a doppio scorrimento, che porta verso la Foce, verso la Fiera del Mare, si fosse lasciato l’alveo scoperto con due strade ai lati tante tragedie non sarebbero accadute……”
Ma l’alveo era brutto, spesso secco, pieno di erbacce e non si confaceva alla grandeur di Mussolini, che impose i grandi viali, la piazza della Vittoria, gli spazi della architettira fascista.
Sesta colpa…..Settima colpa, si potrebbe andare avanti negli squilibri di questa città, disegnata in modo così ardito dagli arichitetti urbanisti di fine Ottocento, dai sindaci come il mitico barone Podestà, che inventò le Circonvallazioni a Monte sulle colline, ma strinse anche gli spazi intorno al Bisagno.
Così nacquero quartieri che erano protetti in secula seculorum da ogni rischio alluvionale, come appunto Castelletto e Albaro e un po’ anche Carignano, dove ancora oggi vive e lavora la borghesia più o meno altolocata, al sicuro da ogni diluvio.
E nacquero quartieri più nazional popolari, come quelli intorno al Bisagno, tra Marassi, Quezzi e San Fruttuoso, esposti anche loro in secula seculorum al rischio permanente anzi crescente.
E nacquero i grandi quartieri popolari, che fiorivano dalla fine del 1800 con la potente spinta di industrializzazione, che sarebbe durata fino agli anni Novanta del secolo breve, intorno al porto e alle grandi fabbriche e ai grandi cantieri, Sampierdarena, Cornigliano del mare perduto, Sestri Ponente, l’ex Stalingrado di Genova per la sua profonda matrice Pci e poi Prà e Voltri, dove la memoria delle tragedie alluvionali non si ferma certo solo alla catastrofe del 1970, quando incominciò l’era moderna dei disastri idrogeologici, intorno agli stabilimenti dell’Ansaldo, della Fincantieri, dell’Italsider poi Ilva, a tutta l’industria pubblico-privata.
Ora l’industria non c’è quasi più o sta evaporando, ma ha marchiato il territorio, la sua urbanizzazione, spesso votata a accogliere le successive ondate della immigrazione, prima quella dal Sud d’Italia, insieme a quella dal Nord meno produttivo degli anni Cinquanta, i bergamaschi, i veneti e ora i terzomondiali, prima gli africani, ora i sudamericani, i rumeni, gli albanesi…….
Un tessuto rattoppato, diseguale,trattato come da nessuna altra parte per questa costrizione della propria storia di spazi stretti, di mare profondo, di colline scoscese, di industrializzazione strategica, di portualità imperdibile, di necessità logistiche impellenti, di vallate profonde.
L’aeroporto addosso alle case sul mare, il ciclo integrale dell’acciaio costruito sul mare stesso riempito cancellando le spiagge, le onde, i pesci. E, quindi, dove le case, l’edilizia popolare,, la “167” legge ad hoc per dare una casa a tutti negli anni Settanta-Ottanta del pre compromesso storico, degli accordi che Genova primogenita del centro sinistra italiano, con la giunta comunale Dc-Ps del 1961?
Dove mettere su quel territorio la vita, le strade, le scuole, tutto il resto? Dove perfino le nuove chiese, strabenedette dal cardinale-principe, Giuseppe Siri, il re dei conservatori vaticani, ma anche del potere temporale e sociale in porpora?
Sulle colline, sulle strisce di terra dove hanno costruito quartieri interi, nei quali era difficile perfino accedere e guardare il mare per lo scatenamento di architetti e urbanisti, che cosa volete che gli importasse se c’erano rii, torrenti da imbrigliare, tombare, ridurre all’ingabbiamento spinto……
Si potevano fare Dighe, come a Begato, Lavatrici come sopra Prà e via a inventare, sperimentare , saccheggiando il territorio.
Ecco quanto indietro bisogna tornare per trovare tutte le colpe, senza essere magnanimi con quelli che le colpe ce le hanno oggi sulla schiena, perché questi sono avvertiti molti di più di quelli di prima, che non avevano la stessa coscienza idrogeologica, ecologica, ambientale e solo l’ansia di costruire, dare una casa a tutti, dopo il grande, macroscopico errore di non recuperare il centro storico, i decantanti carruggi, l’insediamento più prezioso nell’Europa Occidentale, con le gemme dei palazzi dei Rolli, gli angoli immortali, dove si sommavano le ere felici della potenza genovese e poi il fiorire rinascimentale e poi il mecenatismo ottocentesco ed anche la decadenza dei ghetti e il brulicare della prostituzione e dei suoi antri, immutabili nei tempi, anche a due passi dal palazzo del Principe.
Bagasce intorno alla via Aurea dei tempi che fu e oggi bagasce a tre passi da palazzo Tursi, dove governa Marco Doria, il sindaco marchese, schiacciato dagli eventi, insultato per strada, “pestato” come nessun altro predecessore, anche se è quello che ha meno responsabilità. Non fosse altro perchè governa da soli tre anni e prima insegnava Storia delle Dottrine economiche.
La città storica ha fatto meno conti con le alluvioni, perché è lì il germe di Genova, il suo Dna intorno alle banchine, al riparo dalle onde ed anche dagli assedi nemici, che a difendere ci pensavano in alto le mura, i forti che nei sei-settecento sono diventati una vera Muraglia, la più importante dopo quella cinese, ma in cima alla collina da dove potevano piombare i nemici in armi e da dove ora piombano i rii, i torrenti, i bei che seminano più terrore degli eserciti di allora.
Non c’è scudo o olio bollente che tenga, riecheggiando lo slogan dei ragazzi guerrieri di oggi contro l’alluvione: non c’è fango che tenga.
Il secondo fronte aperto oggi è quello della ricostruzione, parola enorme da usare, perchè a parte gli annunci sui risarcimenti, la riduzione delle tassazioni, i milioni promessi da tutti, dalle banche, alla Cei, al Governo per ora chi lavora sono solo i ragazzi del fango, quelli che girano con le magliette sporche, la pala e che sono migliaia di migliaia, arrivati da mezza Italia, generosi, forti, anche spinti dalla voglia di fare qualcosa oltre che scoraggiarsi in un paese da 42 per cento di disoccupazione giovanile.
Ma, attenzione, lo stato di all’erta dura ancora, le cellule sono in agguato e la maggior parte della popolazione è anziana e chiusa in casa e aspetta con grande angoscia e, soprattutto, non è su twitter, come pensano alla Protezione Civile o qualche politico che si sente ancora rampante. E che, invece sta affogando.
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