GENOVA – Il capo della banca, l’ex Doge della città, della Regione, il vice presidente di Abi, Giovanni Berneschi, il prototipo della genovesità affilata di soldi, capitali, tassi e speculazioni finanziarie agli arresti domiciliari da dieci giorni, inchiodato da accuse travolgenti, sommerso da ondate successive di intercettazioni che trasfigurano perfino il suo look da nuovo Govi, in quell’intercalare di intierezoni genovesi alla Grillo. Ora si chiama nel gergo del malaffare della sua presunta banda, comitato d’affari, “il magro” e il suo complice Ferdinando Menconi, capo delle società di Assicurazioni, complice numero uno, “testa di pera” con una pesantezza di definizioni inquietante.
Non c’è potere, trama, sfondo scenario politico, amministrativo, perfino giudiziario (quattro magistrati di tre diverse Procure e Tribunali coivolti nel fiume di rivelazioni come presunte talpe), che trabocca dalla maxiinchiesta. Ma lo sbocco più limaccioso è quello di una ventina di milioni di euro, guadagnati dalla società tra i due complici, con una spericolata manovra immobiliare di valorizzazione su oggetto comprato a cinque e rivenduto a dieci volte di più, fatti rientrare scudati sul conto della innocua nuora del Berneschi e “beccati”dalla Finanza. “Sputattanamento totale” – gracchia al telefono di una intercettazione l’ex capo Carige, quando viene a sapere che la Guardia di Finanza ha segnalato il rigiro alla Procura della Repubblica.
Il leader politico più potente degli ultimi quindici anni, l’ex ministro di Forza Italia, Pdl e prima democristiano tavianeo, Claudio Scajola in galera da quasi tre settimane a Roma, dopo l’ultima imbarcata con la famiglia Matacena e con la bella Chiara Rizzo, dopo l’assoluzione per la casa “a sua insaputa”, dopo le doppie dimissioni da ministro berlusconiano dell’Interno nel 2002 e dello Sviluppo Economico nel 2010, dopo il proscioglimento per gli intrallazzi al Casinò di Sanremo di trenta anni fa, nel 1983, dopo quella altra frase micidiale, con cui dava della vittima Br, il giuslavorista Marco Biagi, un giudizio di “rompicoglioni”, dopo gli scandali scampati giudiziariamente del porto nautico di Imperia, costruito con il faccendiere romano Francesco Calatagirone Bellavista (dichiarato fallito quel porto mentre Scajola era già detenuto).
Altro che accanimento terapeutico, Scajola in carcere a Roma è oramai oggetto di una mitraglia giudiziaria senza sosta. L’hanno arrestato in un hotel di Roma con una scena da fiction della mafia, impacchetttato e spettinato su un ascensore, manco fosse Toto Rijna, perchè aveva favorito la latitanza di Amadeo Matacena, deputato azzurro in fuga per una condanna in appello per concorso esterno in associazione mafiosa.
Hanno scoperto che l’uomo di Imperia ha assistito in tutti i modi la consorte del transfuga, la Chiara Rizzo, bionda molto alla page a Montecarlo e dintorni, femme fatale, ancorchè definita “figliola” nelle fluviali intercettazioni tra i due. E da allora è tutto un andarivieni di magistrati e guardie di Finanza tra Roma, Reggio Calabria, Imperia, Diano Calderina, il sobborgo da sogno di villa Scajola, magistrati e guardia di Finanza che stanno rivoltando tutto il passato del leader, sprofondato agli Inferi per la terza-quarta volta. Cercano qualcosa di più di quanto l’indagine Matacena latitante suggerirebbe.
Scavano nei faldoni che il post ministro, vero maniaco della precisione, aveva raccolto, anno per anno, ministero per ministero, sopratutto, processo per processo…
E’ riemersa, nel frattempo, anche la storia di Biagi e Angelino Alfano, ex rivale di Scajola nel cuore di Berlusconi, tredici anni dopo, denuncia che Biagi non era stato sufficientemente protetto. Da chi, ma dal ministro Scajola, ovviamente!
E nella casa del suddetto, setacciata dalla Gdf, saltano fuori montagne di quei faldoni, che lui si sarebbe portato via dal Viminale, con dossier segreti e informazioni proibile. E la Procura di Imperia gli notifica altre accuse per altri ipotetici reati, tutti diversi, come irregolarità edilizie nella ricostruzione della sua favolosa villa imperiese, non denuncia di pezzi storici inseriti in quel giardino paradisiaco, diventato dei supplizi, dove le forze dell’ordine passeggiano da anni.
Intanto si sbriciolano i residui del potere territoriale di quello che qualcuno continua a chiamare “u minustru”: le elezioni europee e quelle locali con il voto chiave di Sanremo, gran feudo berlusconiano, certificano la fine dell’impero. Nella città dei fiori va al ballottaggio un candidato del centrosinistra Vittorio Biancheri, che sicuramente conquisterà palazzo Bellevue, il Municipio Belle Epoque, dove sventolava, salvo rarissime eccezioni, la bandiera dell’ex ministro e dei suoi delfini.
Non basta: la sua scorta che manteneva anche se non è più nè parlamentare, né ministro, è accusata di peculato, perchè lo avrebbe protetto ancora nei suoi passaggi oltre confine e con lui si sarebbe prodigata a garantire la sicurezza della signora Matacena, in via di separazione dal marito esule e di cui tanto Scajola si occupava per trasferirlo da Dubai a Beirut, tappe di un incredibile percorso dorato, Montecarlo, gli Emirati e la città libanese. Separazione coniugale forse per ragioni redittuali o magari per altro? Gatta ci cova.
Chissà. Tutti mormorano della colossale sbandata del ministro imperiese per la Matacena-Rizzo, ma la prima a ergersi in difesa di Claudio è stata la sua consorte Maria Teresa Verda: “Tacete, lui è un grande uomo, generoso con chi ha bisogno!” E Chiara bisogna aveva…
L’uomo delle banche, l’ex senatore Luigi Grillo, di la Spezia, per sette legislature a palazzo Madama, decisivo nel 1994 per far pendere la maggioranza senatoriale in favore di Berlusconi, con il suo passaggio azzurro, questore a palazzo madama, fedelissimo dell’ex governatore di bankitalia Fazio, relatore di tutte le leggi bancarie dela legge sulle Fondazioni, trasmigrato con Alfano un anno fa e considerato il braccio destro del ministro delle Infrastrutture Lupi per la sua competenza nelle grandi opere di trasporto, è in carcere a Opera, accusato di essere una delle menti della micidiale “cupola” dell’Expo, insieme a Frigerio e a Greganti, avendo come spicciafaccende un altro genovese di adozione, l’ex sindacalista Cisl Sergio Catozzo, ex coordinatore dell’Udc, membro del Consiglio di Amministrazioine del Teatro dell’Opera Carlo Felice.
Anche qua pioggia di intercettazioni che svelano l’intreccio tangentaro, le buste che passano dai costruttori al comitato, beccato alla grande con cimici e perfino foto a colori degli inequivocabili incontri.
E infine il potentissimo ex arcivescovo di Genova e cardinale di Santa Romana Chiesa e segretario di Stato di papa Ratzinger, Tarcisio Bertone che secondo le rivelazioni della Bild, smentite dal Vaticano, ma riprese dalla Procura di Roma, avrebbe chiesto allo Ior di finanziare per 15 milioni di euro la società televisiva di Ettore Bernabei, utilizzando il suo grande potere di influenza, affinato negli anni di Genova e collegato alle produzioni televisive, grazie a un suo pupillo ligure, quel Marco Simeon, sanremese (guarda le coincidenze), decollato grazie al superprelato in tenera età, premiato a Genova con incarichi grandiosi nel consiglio dell’ospedale Galliera, vanto della Curia genovese e nella magistratura della Misericordia, diventato il consigliori di Cesare Geronzi, in Capitalia, poi responsabile in Rai delle relazioni esterne e istituzionali, un enfant prodige di qua e di là del Tevere, poi prudentemente smistato oltre Atlantico per sfuggire ai sospetti del dopo Bertone.
Il doge, il ministro, il supesenatore, il faccendiere, il cardinale, l’enfant prodige: in diverse posizioni e con una corte di presunti complici tra professionisti, immobiliaristi, perfino parenti stretti, come la nuora di Berneschi, anch’essa incarcerata, sono tutti in un frullatore giudiziario che ogni giorno viene alimentato da nuove rivelazioni, da fiumi di intercettazioni telefoniche e ambientali.
E Genova sta attonita, come nella poesia manzoniaia, a contemplare i pilastri del suo passato recente, o almeno di una gran parte di esso, che crollano e le macerie di un potere che si sta sbriciolando con una contemporaneità folgorante. Scajola e Grillo, eterni rivali nelle fila di Forza Italia e della Pdl per venti anni sono stati arrestati nella stessa fatidica mattinata.
Berneschi è arrivato dopo una settimana, tre giorni dopo che la Fondazione Carige, la proprietaria del 46 per cento della sua ex banca aveva appena venduto al ribasso un mazzo del 16 per cento delle sue azioni, provocando una caduta del titolo in borsa del 17 per cento, con un’operazione obbligata, che i nuovi vertici della Fondazione avevano portato a termine, dopo quasi un anno di un calvario che ha decapitato sia la banca , sia la sua maggiore azionista dei propri vertici, in un tornado che era l’annuncio delle tempeste di oggi.
La banca cassaforte dei liguri, che vacilla con la sua tradizione storica finanziaria e che traguarda un imminente e decisivo aumento di capitale di 800 milioni di euro, che potrebbe firmare l’ingresso di nuovi potenti soci, tra i quali viene indicato e smentito il potente finanziere milanese Carlo Bonomi, ma snaturare la genovesità per la quale Berneschi lottava con il coltello tra i denti…
Qualcuno tra quelli più vicini al crollo e ai suoi precedenti osserva che le manovre spericolate che hanno inchiodato l’ex doge a accuse come associazione a delinquere, truffa aggravata per le operazioni compiute facendo comprare e vendere a prezzi decuplicati immobili di pregio dalle società assicurative deel Gruppo, erano i tentativi dell’ex presidente di accumulare una forza finanziaria tale da potersi comprare la banca, aumentando la propria partecipazione del 2 per cento e cumulando con quella dei soci pattisti genovesi (6 per cento) e convicendo qualche altro genovese di ingente forza finanziaria, come la solidissima famiglia Malacalza della recente sfida a Marco Tronchetti Provera e alla cassaforte Pirelli.
Il via vai dei capitali, attraverso spalloni e trasferimenti tanto eclatanti da sconvolgere chi pensava di conoscere bene Berneschi, sarebbero la pista di quell’accumulo che l’interessato “confessa” in una delle sue intercettazioni: “…E’ una vita che accumulo…”. Ma come e in che modo?
Questa tesi è sommersa dall’altra, che inchioda gli imputati e sopratutto la pericolosissima liason tra lo stesso Berneschi e Ferdinando Menconi, il leader delle società assicurative , la palla al piede da decenni della Carige della quale Berneschi non si liberava mai.
“Non mi spiegavo perchè la banca dovesse pagare cinquecento, seicento milioni per tappare i buchi delle assicurazioni”_ ha conclamato, nell’unica intervista concessa in questi giorni attoniti, l’ex presidente della Fondazione Carige, Flavio Repetto, anche lui “caduto” nella guerra intorno alla banca, dopo che come traccianti di fuoco sulla città era caduto il micidiale rapporto di Banca d’Italia, dopo una ispezione di mesi e mesi, in cui si chiedevano epurazioni, tagli e aumenti di capitale.
Poi c è la partita dei “crediti facili” che il Doge avrebbe concesso dal quattordicesimo piano del suo grattacielo a imprenditori, armatori, costruttori in difficoltà con una politica onnipotente, ma che non può certo essere addebitata solo a lui. Tra i maxi crediti ci sono quelli concessi all’operazione Erzelli, 250 milioni al consorzio che sta inseguendo il sogno di costruire su una collina del Ponente genovese la sede dell’industria hig teck del futuro.
Siemens e Erikson tra mille traversie sono salite su quella collina sulla quale c’è _ secondo Renzo Piano_ il cielo più bello di Genova. Ma quell’operazione soffre da dieci anni, mentre i primi grattacieli sono già operativi, perchè l’Università di Genova non decide di strasferire la sua Facoltà di postIngegneria che costa 43 milioni di euro e gli altri traslochi decisivi come quello dell’IIT, l’Istituto Italiano di Tecnologia, vera fucina di scienza, ricerca e invenzione, con già 1000 piccoli geni a lavorare nella sua pancia, o come quella di Esaote, l’azienda biomedicale inventata dall’inventore di Erzelli, Carlo Castellano, non sono mai a tiro. Un po’ per la crisi che taglia tutto, un po’ per indecisioni genovesi quasi fisiologiche.
I crediti facili sono stati concessi a armatori in difficoltà nonostante le ottime referenze professionali, come alla flotta Premuda di Alcide Rosina o Gianni Scerni, ma anche al mitico Genoa del joker Entico Preziosi, esposto per 125 milioni di euro e in braccio alla banca vacillante.
A salvare il Genoa forse arriveranno i cinesi, amici di Preziosi che con lo fabbrica giocattoli. Ma a salvare la Carige, trapassata dalle inchieste e dai rapporti “neri” di Bankitalia chi ci penserà?
Genova, appunto attonita, guarda la sua torre di quattordici piani, decapitata, dove ora siedono il presidente principe Cesare Castelbarco Albani e in nuovo ad, Giampiero Montani, bancario di ferro e cerca una bussola che non c’è più. E tutti aspettano che Berneschi, il leone in gabbia, chiuso nella sua residenza agli arresti domiciliari, dica qualcosa di quanto ha rovesciato la sua banca, ma sopratutto lui, entrato in quel castello a 19 anni da impiegato, diventato il Doge e ora uscito capovolto, come una marionetta di un teatro dei pupi. Ma qui altro che pupi…
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