Erano trecento non solo giovani e forti, ma anche anziani e soprattutto molto incazzati. Erano il fronte avanzato del 2.890 operai che scavano il Terzo Valico ferroviario e dei 5.000 che lavorano direttamente e indirettamente a questa grande opera pubblica, la più impegnativa che si stia costruendo in Italia oggi, primo anno dell’era giallo-verde. E sono andati loro, probabilmente in rappresentanza di qualche milione di italiani, a urlare in faccia al Movimento 5 Stelle, o almeno ai suoi rappresentanti liguri, che loro non vogliono il “reddito di cittadinanza”, ma vogliono “lavorare”, “lavorare”, “lavorare”.
Urlano a squarciagola i trecento, in cima all’ennesimo corteo che dalla Valpolcevera del “ponte maledetto” scende verso il centro città, si raduna in uno dei punti dolenti della Genova spezzata e vanno a “dimostrare”, a cantare, le proprie ragioni, con voce sempre più forte, rullio di tamburi, spostamento di mezzi pesanti e una carica di rabbia che cresce, cresce, chissà dove porterà Genova, a 75 giorni dal crak del Morandi.
Dal decreto-Tela di Penelope, che oggi è al vaglio del Parlamento, per aiutare Genova spezzata a superare l’emergenza, ma che “sana” anche i 18 mila abusi edilizi di Ischia e moltiplica la possibilità di sversare gli idrocarburi conseguenza di lavorazioni pesanti nelle campagne italiane, una altra “manina”, “ manona” o uncino malefico ha stornato i 681 milioni già stanziati dal Cipe per finanziare il quinto e penultimo lotto di quel Terzo Valico, già costruito al 40 per cento. Un colpo di manina e quei milioni sono spariti.
Di chi era quella manina, di Toninelli, di Di Maio, che il Terzo Valico non lo hanno mai voluto e crepino gli operai che lo stanno costruendo!
E allora che fine fa questa ferrovia di 50 chilometri, scavata nella pancia morbida dell’Appennino ligure piemontese, per collegare con l’alta velocità il porto e i passeggeri di Genova con l’entroterra padano, il grande hinterland del Nord Ovest e, salendo su, su, verso il cuore dell’Europa, con le ricche connessioni svizzere, che i discendenti di Guglielo Tell hanno bucato non gli Appenini, ma le Alpi per arrivare in fretta a Genova, al suo porto supertrafficato e ora sono lì in attesa che gli italiani facciano la loro parte per far viaggiare la merce lungo il corridoio europeo Rotterdam-Genova.
Ahi, ahi, ahi, questo è un corridoio europeo, non sia mai e così i 5 Stelle, anche per questo ci hanno messo i bastoni in mezzo e l’inarrestabile Danilo Toninelli, ha stralciato il finanziamento dal decreto Genova, dove era stato opportunamente piazzato perché l’opera relativa costituiva una alternativa di comunicazione molto importante al ponte maledetto spezzato.
Il Terzo Valico sarebbe pronto nel 2021-2022 e gli ottantamila tir che passavano sul Morandi avrebbero un’altra via molto più agevole, meno inquinante e logorante sui binari modernissimi della nuova linea ferroviaria veloce.
E così questi trecento, in una mattina di falsa estate ottobrina, calano nel centro di Genova, invadono il Consiglio Regionale e inchiodano l’assemblea alle sue responsabilità. Li accolgono in maggioranza con un ordine del giorno che approva in pieno le loro istanze, mentre la sala rimbomba di questo “no al reddito di cittadinanza” e il presidente della Regione, Giovanni Toti, poco ci manca che li abbracci uno per uno, lui che sta conducendo una personale e quotidiana battaglia contro Toninelli. Non li abbraccia, ma da il cinque a ognuno di loro, sfilando sotto il palco del pubblico che gli operai hanno occupato.
Quando i 5 Stelle consiglieri regionali leggono un loro ordine del giorno sul caso Terzo Valico, in cui prendono tempo e si astengono, i trecento incazzati e determinati, voltano loro le spalle. E la pasionaria 5 Stelle Alice Salvatore, una trentenne ultraprotetta da Grillo, inghiotte pallida la rabbia operaia.
Uno dei leader annuncia: “Alle ultime elezioni ho votato per loro, ora me lo taglierei quel braccio che ha segnato la scheda. Noi vogliamo lavorare e questi ci cancellano un’opera che stiamo costruendo e che dà lavoro a migliaia di noi, dopo anni e anni di magra”.
Che ci azzecca questo tunnel, atteso da 100 anni a Genova, finalmente in costruzione, passato attraverso difficoltà di ogni tipo, pianificato alla fine degli anni Ottanta, finanziato inizialmente dal Governo Berlusconi, passato attraverso scandali di corruzione, commissariamento del Cociv, il consorzio che lo costruisce, con maggioranza il noto imprenditore Salini, rivolte ambientali, discussioni infinite sulla sua effettiva utilità, che ci azzecca con il ponte Morandi, con la Valpolcevera sofferente, spezzata, divisa, fatta a pezzi dal crollo’?
Non è solo la sua funzione logistica, parallela al tragitto “spezzato”, è anche la voragine occupazionale che aprirebbe il suo stop, per un territorio genovese devastato dalla sciagura del ponte, dove aziende storiche chiudono a ripetizione, per un settore edilizio da un decennio finito ko e che nel Grande Cantiere tra Genova-Trasta in Valpolcevera e Novi Ligure, vede una ripresa potente, quasi decisiva.
L’Opera è veramente colossale e proiettata nel futuro. Tra quelle mille difficoltà il Consorzio la sta portando avanti con una tecnica molto avveniristica. Tre talpe, che sono macchine gigantesche, lunghe trecento metri, scavano e contemporaneamente costruiscono la maxigalleria. Se entri nella pancia dell’Appennino e di questi cantieri, scopri una tecnologia avanzatissima, che oramai ha realizzato una parte fondamentale del lavoro. Ci sono cinque cantieri allestiti lungo il percorso, da dove arrivano quei trecento furibondi e ci sono villaggi dove vivono gli operai e tutto un entroterra appenninico, che è coinvolto, certo anche sconvolto, dalla operazione costruzione, ma che beneficia dei vantaggi economici.
Tutto cancellato, tutto fermato, i cantieri abbandonaati, le maxitalpe lasciate a marcire dentro ai tunnel mezzi costruiti, i villaggi abbandonati a se stessi, quasi tremila operai a casa senza più lavoro e prospettive? Questo è quello che immaginano i trecento calati a valle da Nord del ponte, dalla valle laterale, dove i cartelli ti informano che “qui incominciano i lavoro del Terzo Valico”.
Nella sala consiliare della Regione la rabbia ribolle, come era ribollita quaranta giorni fa quella degli sfollati, come urla oggi anche la disperazione delle aziende sotto il ponte. Sono arrivate le prime lettere di licenziamento, con scritto nella motivazione: “Causa crollo del ponte” e gli sciagurati che l’hanno ricevuta alla metà di ottobre, ora la mostrano, questa maledetta lettera, provocata dal maledetto ponte crollato, alle telecamere e ai microfoni.
Sono dipendenti di una carrozzeria che da quel 14 agosto non ha più un lavoro che sia uno, sono i benzinai del distributore che sta in via Fillak a cento metri dall’interruzione della strada, che passava sotto il Morandi, sono i dipendenti di quelle aziende che sono strangolate dalla mancanza di clientela se non dalla impossibilità di essere raggiunte, sono i commessi che lavorano in quei negozi del polmone commerciale di Rivarolo, la via Canepari e la via Jori, dove non passa più nessuno e prima c’era un flusso continuo di clienti, quando la valle era collegata.
La disoccupazione “da ponte caduto” è come un gas silenzioso, quasi inodore che settantacinque giorni dopo la catastofe si sparge per la Vallepolcevera e stermina quasi chirurgicamente aziende, piccole imprese, esercizi commerciali, pizzerie, piccole trattorie, chioschi che cercano una ragione per resistere, ma non la trovano più.
Benedetto sia sempre il sindaco Marco Bucci, che sta cercando di “sturare” la viabilità della valle, aprendo le strade chiuse, soffocate prima dalle macerie cadute dal ponte, poi dai sigilli dell’autorità giudiziaria, che ha sequestrato i reperti.
Ma è come far entrare goccia a goccia un flusso liquido che avrebbe bisogno di inondare di nuovo il terreno. E come si fa con il ponte smozzicato là sopra, monitorato come un malato in crisi terminale dopo 75 giorni di agonia senza speranze, il muro di sotto e tutta l’area che “respinge” più che attirare?
“ O Dio mio, devo andare in Valpolcevera chissà quanto tempo ci metto!”, si mormora come in un ritornello nella città ferita e spezzata, dove il trauma del ponte sembra fisicamente lontano e ininfluente sullo scorrere della vita quotidiana.
Genova è una città “separata”, costruita a blocchi, divisa da muri e la Valpolcevera è dietro un muro che per molti zeneixi non esiste neppure, non ci guardano là dietro.
E allora lo sblocco appare come un’operazione gigantesca, che oggi non si riesce a fare e quel terreno si secca e i riflettori mediatici stanno ancora appollaiati lassù, più per raccontare le storie melanconiche degli sfollati, che da dieci giorni entrano ed escono dalle loro case in articulo mortis per portare via i loro effetti di vita o, appunto, le storie dei licenziati piuttosto che per sperare di raccogliere i primi sintomi della ripresa.
Come sperare, se il segretario generale della CGIL, Ivano Bosco, quantifica ufficialmente che i posti di lavoro che già ballano in valle sono 2.500. Senza contare quelli del Terzo Valico che stanno urlando in Consiglio Regionale?
Dal 4 ottobre il sindaco Bucci è diventato anche supercommissario alla Ricostruzione, ma aspetta che il Parlamento timbri il decreto Genova per partire con la sua squadra di subcommissari e di esperti, per programmare la ricostruzione e prima ancora la demolizione: quale progetto, quali ditte, quali imprese, che ogni giorno spunta un disegno o una impresa in lizza, come il Rina, la famosa azienda, una volta di certificazione navale e ora uno dei residuali colossi con sede a Genova, pronta a “partecipare” alle operazioni con tutte le sue competenze dispiegate, non solo la certificazione ma pure la programmazione, la esperienza ingegneristica.
E non può fare niente il sindaco-commissario, prima di quel timbro, se non preparsi i nomi dei suoi collaboratori e annunciare a chiunque lo interpelli “che bisogna fare il ponte”, “bisogna fare subito il ponte”.
Così, mentre gli operai-scavatori del Terzo Valico finiscono, come esempi di solida concretezza di una Repubblica fondata sul lavoro a norma di Costituzione italiana, perfino nel “Caffè” di Gramellini” sul “Corriere della Sera”, che premia il loro rifiuto a starsene distesi sul divano e beccarsi il reddito di cittaadinanza, il decreto impatta il Parlamento, le commissioni e l’aula di Montecitorio. Dove, come era previsto si arena, si spiaggia, nella incosistenza tecnica di chi lo ha preparato, suscitando prima le sostanziali modifiche preparate dai genovesi coalizzati per una volta assieme, senza differenze di ruoli, ideologie, partiti e associazioni e suscitando dopo l’ira delle opposioni politiche al governo, in primis, il Pd, che scovano nel provvedimento lacune spaventose. “Dilettanti, incapaci, inetti”, urlano alla Camera, tra una sospensione e l’altra, i deputati del Pd, in testa quella Raffaella Paita che fu la famosa concorrente sconfitta per i democrat da Toti e che ora è la sua più attenta alleata, cane da guardia di Genova tra gli articoli del Decreto.
E’ dal 14 settembre che il premier Giuseppe Conte sventola questo decreto, esibito la prima volta nell’ombelico di Genova, a Piazza De Ferrari, durante la celebrazione del primo mese di lutto.
“ Non sono venuto a mani vuote”, aveva cercato di urlare, con la sua voce da prof abituato a aule universitarie, non a piazze piene di lacrime e rabbia. “Ecco il decreto che permetterà a Genova di risollevarsi!”
Quarantacinque giorni dopo, quel decreto non ha nei suoi commi la precisazione, per esempio, di dove lo Stato potrà pescare le coperture finanziarie, 30 milioni all’anno, per garantire che si può pagare il nuovo ponte, nell’ipotesi per nulla trascurabile che Autostrade spa si rifiuti di farlo, inoltrandosi nel labirinto, peggio di quello di Minosse, dei ricorsi giudiziari, dei processi, delle Corti, dei Tar, dei Consigli di Stato. E come si fa a approvare un decreto, se non c’è scritto sopra chi paga? E come fa il sindaco-commissario a nominare le imprese che si getteranno nell’impresa della costruzione, come fa se il decreto non certifica il prezzo del ponte, ancora non concordato da nessuno? E’ un serpente che si morde la coda e allora l’opposizione urla e si dispera in commissione e in aula: “Questi non sono capaci, in due mesi non sono stati in grado di preparare nulla, hanno solo sbraitato che lo avevano fatto.”
Come un re travicello nella tempesta, in apertura di seduta, il vice ministro alle Infrastrutture, il genovese Edoardo Rixi, leghista, numero due di Toninelli, cerca di spiegare che il Governo ha fatto tutto il possibile per soccorrere Genova “spezzata “ e elenca gli interventi dalla prima ora della catastrofe in avanti. Ma il punto di arrivo sono le pagine del decreto, che secondo l’opposizione scatenata mancano di tutto. “E’ inamissibile che arrivi in aula dopo tanto tempo un provvedimento senza le carte a posto”, sostengono i deputati di Forza Italia, Andrea Mandelli, Maurizio D’Ettore, Roberto Occhiuto.
La seduta si sospende più volte, si minaccia perfino una riunione dei capogruppo, mentre il presidente Fico scampanella . Gli emendamenti, che modificano il testo originario del Governo e sul quale l’aula della Camera deve votare sono 350. Alla fine la votazione finale slitta alla settimana successiva. E il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Lorenzo Fraccaro, cerca di gettare acqua sul fuoco: “Le coperture ci sono tutte meno quella dell’articolo 8 che riguarda la zona logistica:….”.
E’ un guazzabuglio immane, che di sicuro garantirà a Maurizio Crozza, il comico genovese, un’altra puntata sul ponte e sulle sue disavventure e un’altra serie di imitazioni, oltre a quella di Toninelli, già consacrato nelle sue uscite roboanti. Settantacinque giorni e Genova aspetta, aspetta, mentre gli operai del Terzo Valico sfilano dopo l’occupazione della Regione verso la Prefettura.