Genova. Carige vs Fondazione, 70 miliardi di euro per 1,8 milioni di liguri

Genova. Carige vs Fondazione, 70 miliardi di euro per 1,8 milioni di liguri
Giovanni Berneschi

GENOVA – A Genova, nella città più vecchia del mondo, la rovente estate del 2013 manda in onda la battaglia che nessuno si aspettava per il controllo della banca numero uno, la Carige, la ex Cassa di Risparmio di Genova, quasi unica erede di una tradizione nata proprio a Genova all’alba del quindicesimo secolo, quando quei nasi raffinati, quei mercanti sopraffini, quei sottili finanzieri, quei coraggiosi navigatori e scopritori di terre e mari, si inventarono, nel 1404, il Banco di san Giorgio. Furono tanto avveduti e capaci da imporre il loro sistema al mondo sviluppato di allora, a quello che ancora non sapeva che differenza c’era tra “buscar el levante por el ponente”, prima che arrivasse Cristoforo Colombo. Figurarsi cosa sapevano di tassi di sconto e altre diavolerie genovesi nel far di conto e calcolare interessi e argenteria cantante.

Seicentonove anni dopo la Carige, seimila dipendenti, settecento sportelli in tutta Italia, per patrimonializzazione la settima banca italiana, autonoma rispetto ai grandi gruppi creditizi, nata in quel brodo culturale finanziario de los genoveses, vacilla e la torre dei suoi uffici, costruita un po’ inopinatamente in mezzo ai caruggi genovesi, con i suoi moderni quattordici piani, non spegne più le sue luci in un Ferragosto che nessuno poteva immaginare: riunioni, vertici, ultimatum, si sta decidendo non solo il nuovo board della banca ma il suo futuro, la difesa della sua autonomia.

Una raffica di ispezioni della Banca d’Italia, prima riservate ma molto approfondite, poi esplosive, hanno messo in luce le difficoltà emerse dopo una gestione molto centrale nel territorio genovese e ligure, dove dire Carige vuol dire da decenni la mamma, la banca che assiste, finanzia, protegge, corre in soccorso, diventa quasi un soggetto della politica, l’interlocutore che tutti cercano dal risparmiatore in ansia, all’imprenditore piccolo che cerca ossigeno, al grande armatore che ha ordinato le navi e con la crisi non sa più come pagarle, all’Università che deve finanziare un trasferimento di una sede di Facoltà, ai dipendenti del Teatro Carlo Felice che non ricevono lo stipendio, alla squadra di calcio della città che ha bisogno di una garanzia se no sparisce, e via andare.

Sotto gli avvertimenti della Banca d’Italia che ha chiesto ai soci della Carige un aumento di capitale di 800 milioni, per coprire sofferenze e difficoltà, incominciano grandi manovre che mettono in contrapposizione la Fondazione Carige, maggiore azionista della banca con una quota del 47 per cento, con il vertice della banca stessa, cui si rimprovera di non affrontare questa emergenza in modo adeguato.

Dal Consiglio di amministrazione si dimettono a raffica in otto, tutti nomi prestigiosi dell’economia e della politica. E’ una mossa a raffica per indurre il mitico presidente della banca, Giovanni Alberto Berneschi, da un ventennio ai vertici dell’istituto, autore della sua trasformazione, a dimettersi. Ma Berneschi resiste, non si dimette e anzi rilancia, facendo trapelare l’indiscrezione su un accordo con Unipol, pronta a entrare tra i soci della banca, accollandosi il settore assicurativo, in sofferenza grave da anni, nel mirino di Bankitalia e solo oggi in ripresa, un asset che potrebbe contribuire a stivare quell’aumento di capitale. Unipol smentisce e la tensione tra Fondazione e Banca si acuisce.

Dall’altra parte della barricata, cioè sul fronte della Fondazione c’è il presidente di quest’ultima, Flavio Repetto, un imprenditore che si è costruito un impero da nulla, diventando uno dei leader italiani dell’impresa alimentare, Elah Dufour, Cioccolato Novi, Baratti ed altri marchi prestigiosi. Repetto e Berneschi hanno corso come in un tandem per un quinquennio abbondante: facevano una politica chiara per allargare gli orizzonti della banca e nello stesso tempo rendendola non scalabile e autonoma.

Repetto era stato nominato al vertice, dopo le dimissioni un po’ improvvise di Vincenzo Lorenzelli, ingegnere, membro altolocato dell’ Opus Dei, ex rettore del campus Biomedico di Roma.

La Fondazione aumentava fino a quel 47 per cento la sua quota, rinforzando anche l’azionariato locale, fatto dai migliori nomi delle cosidette “buone società genovesi”, in testa a tutti il colorificio Boero, ma anche Beppe Anfossi, erede dell’impero degli acquedotti genovesi, una volta l’ “oro bianco” in mano alle grandi famiglie; e controllando le restanti quote in mano ai soci francesi, di istituti bancari d’ Oltre Alpe, rappresentati niente meno che da un principe genovese-milanese, Cesare Albani Castelbarco, un accortissimo agente marittimo, in permanente azione diplomatica tra le stanze genovesi e i circoli economici di Milano, uomo di grandi eleganze e grandi relazioni, oggi perfino presidente di una emittente locale televista Primo Canale, il cui propietario, Maurizio Rossi, eletto in Senato con Scelta Civica, ha dovuto lasciare per conflitto di interessi la sua televisione.

Berneschi contro Repetto? Lo schema della battaglia di Ferragosto non è esattamente questo, anche se così sembra. I due presidenti non sono rampanti quarantenni scatenati nel mondo finanziario, non sono carrieristi, arrivisti, tycoon senza peli sullo stomaco o banchieri senza scrupoli. Hanno, invece, alle loro spalle lunghe carriere di successo, solide competenze professionali nei loro settori, soprattutto Repetto relazioni più che sicure negli ambienti economici e finanziari del Paese, comprese Mediobanca e Assicurazioni Generali. Sono più che maturi presidenti, sintonizzati tra loro almeno nel difendere l’autonomia della banca, la sua centralità ligure, avanti negli anni, 82 l’imprenditore, 76 il banchiere, ma questa è la città più vecchia del mondo e la sua classe dirigente non è certo squilibrata in questo senso.

Lo scontro tra di loro è inatteso, ma non troppo perchè solo l’acutezza imprenditoriale di Repetto e l’agilità economica-finanziaria di Berneschi avevano fin’ora impedito che le naturali divergenze di carattere e di visione emergessero nella gestione di business, La Fondazione e la banca, che hanno condiviso, esaltandone la potenzialità in tempi difficili.

Repetto non è un genovese doc, è nato a Lerma nel Basso Piemonte, anche se è sempre gravitato su Genova e non è un caso che il cuore delle sue aziende sia a Novi, dopo che l’acquisto della Elah Dufour negli anni Ottanta lo aveva piazzato a Pegli, periferia di Genova, dove certamente il Comune di Genova non gli aveva steso ponti d’oro.

La solidità pratica piemontese si vede nel suo modo di affrontare gli affari e nel tenere a bada la politica che, per altro, lo aveva a lungo corteggiato dopo i successi imprenditoriali, offrendogli ogni tipo di poltrona, da quella di sindaco di Genova a quelle parlamentari e con targhe diverse di partito o alleanza. Repetto ha sempre risposto di no, tenendo la politica a uno, forse due o tre palmi di distanza, salvo servirsene quando era utile alle sue aziende.

Berneschi è un personaggio totalmente diverso, il prototipo di un genovese doc, che potresti vedere raffigurato nei ritratti storici della genia locale, mentre affila i dobloni, gli scudi e il suo sguardo acuto e diffidente che ti perfora tra gli occhiali insieme a un eloquio spesso targato made in Genova, magari con le più note e ficcanti interiezioni del dialetto (che il Gabibbo ha reso oramai universali), ti mette veramente a nudo.

Assomiglia a quei ritratti di van Dyck, ma anche alla maschera irresistibile di Gilberto Govi, un altro prototipo genovese in secula seculorum, quando si conta le asole e i bottoni della giacca non sostituiti dalla moglie per quella maledetta parsimonia che condanna i genovesi all’inferno. Almeno secondo Dante: “Genovesi gente diversa……..”

Se vai a chiedere un mutuo, un finanziamento, un salvataggio Berneschi ti osserva con quel doppio sguardo.

Ha salito uno a uno tutti i gradini della banca fino a diventare negli anni Ottanta il candidato numero uno alla direzione generale, cioè il braccio operativo sotto la presidenza di uno degli ultimi tavianei doc, l’onorevole Gianni Dagnino, diventato presidente quando la Cassa di Risparmio ( allora si chiamava così) stava vacillando nella tempesta più potente, prima di quella di oggi per i finanziamenti alla costruzione di un intero quartiere del cuore di Genova sulle macerie dell’ombelico storico della città.

Fallimenti di società costruttrici, irregolarità fiscali grosse come i palazzi appena costruiti, voragini di deficit come i buchi scavati per aprire i varchi del nuovo: Dagnino-Berneschi sanarono quella ferita e rilanciarono la banca e poi l’avviarono a un futuro che avrebbe gestito proprio Berneschi.

Ma il suo regno è forse durato troppo a lungo e scavallato tutte le rivoluzioni bancarie e anche molti “casi” estremi, anche se lui è rimasto lucido e combattivo come il fondatore del banco di san Giorgio, che vedeva lungo, lungo e altro che confondere, appunto El levante con El Ponente.

La raffica di dimissioni dal cda, centellinate come in un gioco a scacchi, prima cinque di botto, poi altre due, poi quella finale che mette il presidente Berneschi nella condizione di lasciare il timone che non lascerebbe mai hanno, appunto, incendiato il Ferragosto, con il consiglio di amministrazione della Fondazione riunito per pressare quello della Banca a afftrontare il problema della governance, incalzato dal lungo, lunghissimo ribasso del titolo in borsa giunto a 0,4, quando la partenza rigogliosa del titolo era stato 3,29 nel 2005. Il capo d’accusa per Berneschi, oltre a pettegolezzi sulla sua vicinanza a Antonio Fazio, l’ex governatore della Banca d’Italia fucilato in processi e scandali, alla attenzione eccessiva a Giampiero Fiorani, il capo della Popolare di Lodi falciato mentre voleva appropriarsi della Antonveneta, prevedeva le spese eccessive della sua gestione. 740 milioni per le società di assicurazioni, spina nel fianco e nel cuore della Banca da decenni, 1.500 milioni spesi per acquistare 265 sportelli in Italia, 45o per comprare Monte di Lucca, Cassa di Carrara e banca Cesare Ponti a Milano….Effetto finale la capitalizzazione della banca in Borsa precipitata da 5,5 miliardi del 2008 ai 900 milioni di oggi.

Ma la difesa di Berneschi è almeno agguerrita, quanto queste accuse che avrebbero messo in crisi i suoi azionisti, dei quali lui stesso e la sua famiglia fanno parte con 8 milioni nel board dei soci genovesi. Non è la Carige, diventata, in questo frattempo, la settima banca italiana per patrimonializzazione, autonoma e non ha svolto un ruolo forte in Liguria, costituendosi in roccaforte di aziende, imprese grandi e piccole che altrimenti avrebbero trascinato nel gorgo molto prima del tempo una economia devastata, non certo perchè il suo principale sbraccio finanziario non era presente sul territorio?

E poi Berneschi era sempre stato “l’uomo solo al comando”, con pochissima dissidenza fuori e dentro la banca. I cori di approvazione o di adesione a tutte le sue operazioni, anche quelle che potevano essere considerate più border line, come per esempio il salvataggio dell’armatore greco-cipriota George Poulides, quello della flotta Festival, sfolgorante al G8 del 2001, affondata tre anni dopo con un buco che si è caricato sulle spalle solo Carige e che minacciava molti bei nomi della politica e dell’economia genovese, tenuti fuori solo perché Berneschi aveva fatto scudo, sono sempre stati unanimi.

Oggi il silenzio davanti alla sua difficoltà e l’attesa delle sue mosse, che non mancheranno, è quasi sepolcrale. Lo ha difeso Luigi Gigi Grillo, ex potente senatore berlusconiano, ma prima democristiano, uomo-banca della Pdl, fedele di Antonio Fazio.

Ha mormorato qualcosa Claudio Burlando, presidente della Regione Liguria, ma in termini di salvaguardia del sistema Liguria. Si è esposto solo il presidente della Camera di Commercio, Paolo Oddone, che ha sempre fatto parte della Guardia Armata del vertice Berneschi. Il resto della città assiste in un silenzio che non è solo sepolcrale e ferragostano, ma è anche dettato dalla paura dello scontro tra questi due colossi dell’economia cittadina, i due presidenti scesi dal tandem, che si affrontano, sicuramente non per ragioni di predominio personalistico, ma perché hanno visioni oggi molto lontane sul futuro della Carige e, prima ancora della Fondazione, che è la sua maggiore azionista.

Non ci sarà molto da attendere. Lunedì 19 agosto si riunisce il consiglio di amministrazioine della banca, che deve decidere la data dell’assemblea dei soci, che a sua volta dovrà decidere il nuovo vertice dopo le dimissioni.

La Fondazione ha fretta: vuole raccogliere quei 900 milioni di aumento del capitale. Per ottenerli bisogna vendere e realizzare. Come? Non come faceva Berneschi. Ecco il punto dirimente.

Intanto dopo quella della Unipol sul tavolo di Berneschi potrebbe uscire altre carte. Non è uno che si arrende facile e conosce bene il mondo bancario da vicepresidente a lungo dell’Abi e sa su quale terreno si muove.

Prevalentemente il terreno genovese, che lui spesso ha economicamente definito un “Lago secco”, cioè una zona in cui il credito si stava prosciugando per la riduzione veriginosa della popolazione e delle imprese, quindi della raccolta del risparmio, vera forza rimasta nelle casseforti, nei conti correnti della residuale popolazione locale, fatta come è noto oramai prevalentemente di pensionati, di anziani, molti con il loro gruzzolo accumulato in anni migliori di questi.

Un funzionario di una banca diversa da quella di Berneschi in un articolo su Repubblica ha definito la condizione finanziaria genovese come il frutto della sindrome di Paperopoli. Che vuol dire? Genova è Paperopoli, affetta da una triplice malattia: paperonismo, paperinismo e malattia di qui quo qua. Il paperonismo colpisce il 70 per cento della ricchezza, nelle mani degli ultracinquantenni, che hanno ricchi depositi, ma spendono e vivono come se non avessero quei capitali.

Il paperinismo, scrive sempre l’arguto funzionario, è la malattia di quelle famiglie che non sanno come arrivare alla fine del mese che vorrebbero comprarsi una casa ma non possono, pensano ai figli, ma non sanno più come aiutarli. Qui. Quo Qua, sono ovviamente i giovani sbattuti tra voglia di fare, disoccupazione spaventosa, occasioni zero. Ma, come diceva Romano Prodi, allora presidente dell’Iri negli anni Ottanta, Genova “strippa di soldi”, malgrado il lago secco di Berneschi e la Liguria ne sono ricchi. Ha nelle sue casseforti più di 70 miliardi di euro per una popolazione di 1,8 milioni di abitanti. Paragonando le voci patrimoniali della Liguria e delle altre regioni il primato genovese non cambia soprattutto se si aggiunge il valore immobiliare delle case dei genovesi che valgono sempre di più del doppio di quelle degli altri italiani.

E in questa situazione Genova e la Liguria si sfarinano e la banca-mamma trema. Quali equazioni metteranno sul tavolo i presidenti Repetto e Berneschi per risolvare il problema, forse decisivo del futuro della terra che ha inventato la banca. Si spera una soluzione almeno all’altezza della Storia.

 

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