Genova. Futuro in mano a Doria sindaco tra partiti, doge tra veleni di famiglie

I Fieschi, gli Spinola, i Fregoso, i Cattaneo, i rami cadetti della sua Dinastia, quella dei Doria: lo circondano tutti il nuovo sindaco di Genova, eletto solo dal 40 per cento della popolazione, a nove giorni dalla vittoria e si riuniscono nei palazzi più o meno nobiliari per tramare di poltrone e incarichi e seggi e, ovviamente, anche di prebende e di futuri incarichi.

Cambiati i nomi delle antiche famiglie secolari in quelli dei disfacenti partiti di oggi, questa è la scena che va in onda nella Repubblica di Genova, anno 2012, sotto il regno del quattordicesimo sindaco nel Dopoguerra, del quarantesimo dell’era moderna, ben dopo Dogi ( appunto) e dopo consoli e podestà. Lo circondano e strepitano per il potere che sta sfuggendo di mano alle famiglie, pardon ai partiti, in modo tanto evidente da far paura in una città nella quale nel frattempo sta succedendo come un terremoto.
Doria si è messo la fascia tricolore con un certo sussiego, ricevendola dalla sua predecessora, la signora sindaco Marta Vincenzi, che gliela ha consegnata insieme con una bottiglietta di rosolio alle erbe del suo giardino, con un gesto che il Doria dai magnanimi lombi di marchese ha gelato con lo sguardo da sangue blu, quasi fosse l’omaggio di una suddita, magari della giardiniera di casa o della moglie del fattore e non quello di una leader che sta preparandosi a dargli battaglia senza quartiere.
E poi l’ex marchese dei Doria ha incominciato a costruire la sua squadra di governo cittadino, la giunta, operazione delicatissima attraverso la quale si misurerà, avrebbero detto gli antichi, la sua virtute.
Si parla di virtù politica perchè la nuova giunta sarà il parametro delle capacità di innovazione che questo nuovo sindaco può trasmettere a una città in ginocchio, prostrata anche e soprattutto dalla guerra tra famiglie, dentro alla famiglie e dai tumulti dei ciompi.
E’ chiaro che le famiglie sono sopratutto il Pd diviso, lacerato in cerca di un rinnovamento acrobatico, dove la giardiniera Vincenzi si oppone duramente e il governatore della Regione, Claudio Burlando impone ecumenicamente dall’alto il suo ruolo di padre nobile, si potrebbe mutuare, da vescovo-conte.
Ma sono anche i ribelli dell’IDV dipietrista che minacciano appoggi esterni e uscite dal governo se i loro prescelti non entreranno nella stanza dei bottoni. E sono anche la new family della lista elettorale di Doria, quelli che si considerano nuovi e quindi più accreditati per stare in stanza con il principe.
L’opposizione sconfitta, soprattutto quella post berlusconiana, che ha perso tutti i turni elettorali, rumoreggia e, invece di assaltare Doria, si lecca le ferite in un marasma di regolamenti di conti tra di loro. Così, mentre il neo sindaco si rinchiude a meditare nel suo palazzo, a pochi metri da quello del potere civico, evitando perfino di salire in processione sacra con il vescovo-cardinale vero, Angelo Bagnasco, al Santuario amatissimo dai genovesi della Madonna della Guardia, nel rituale appuntamento del pellegrinaggio di preghiera per il mondo del lavoro, gli oppositori si riuniscono in un teatro cittadino a lavarsi i panni sporchi e urlano fino a notte, cercando inutilmente un leader, un partito, un’idea di città.
L’ex capo Claudio Scajola è esiliato a Imperia dove tra pochi giorni incomincia il più grande processo scandalo dell’era moderna in Liguria: quello per il porto costruito da Francesco Caltagirone Bellavista e diventato la madre di tutti gli scandali in un sistema-ragnatela nel quale non si è salvato nulla e che sta facendo sprofondare una intera provincia.
Gli altri capi, come Sandro Biasotti, deputato berlusconiano ed ex presidente di Regione per la destra tra il 2000 e il 2005, minaccia di mollare tutto e di rifugiarsi nella sua lista arancione, lo stesso colore scelto da Doria in Comune.
Molta è la confusione sotto il cielo e sotto questa confusione i grillini, cioè i Ciompi, hanno buon gioco a anticipare che assedieranno il nuovo sindaco, subito chiamato alla prova del nove sul tema che spacca la città: far partire o no la famosa Gronda, la tangenziale che dovrebbe sbloccare il traffico cittadino e la connessione tra porto e autostrade o fermarla per impedire il presunto scempio ambientale?
La società autostrade, che ha già finanziato il progetto per decine e decine di milioni, ha annunciato che se non incomincia subito trasferisce i finanziamenti a Bologna.
I costruttori, gli edili sono anche loro in tumulto per questa opera che provoca sommosse di popolo e prese di posizioni di architetti e intellettuali: chi la vuole così, chi la vuole cambiare, chi aspetta il Via, passaporto ambientale dei Ministeri, chi scrive documenti di critica alle scelte del sindaco precedente e innesca polemiche roventi, manco non avessimo appena finito una estenuante campagna elettorale.
Di fatto si discute della pelle di Genova per i prossimi anni, di migliaia di posti di lavoro, di tunnel gallerie e ponti tra le colline già rosicchiate dal cemento e la costa martoriata dalla città con i suoi difficili accessi al porto, dove migliaia di Tir al giorno cercano di entrare e uscite dai collassati varchi.
“ Mia o l’è quello o problema de Zena”, diceva in stretto dialetto il mitico console dei camalli Paride Batini, indicando dalla finestra della sua stanza nella palazzina dei portuali, sulla collina che si erge in mezzo alle banchine la coda continua e eterna degli autocarri. Batini è morto da tre anni, mentre i giudici lo processavano da accuse cadute poi nei processi come castelli di carta, ma la sua essenziale diagnosi non ha trovato ancora una soluzione.

Genova si attorciglia e le infrastrutture nuove, disegnate, pagate, discusse, dibattute anche fin troppo dalla popolazione, tra demagogia e spinte giuste alla partecipazione, sono ancora tutte da fare. Il sindaco chiuso nel suo palazzo a sfogliare non la margherita, ma la rosa delle candidature alla giunta che sta per annunciare, ha davanti questo muro da scalare.

Se chiude quel rubinetto la città, la Repubblica, ex Serenissima per titolo conquistato 450 anni fa dal suo avo Giorgio Doria, figlio di Melchiorre e di Fiammetta Spinola, avrà un altro destino.
Non è ipotizzabile quale, perchè mentre le famiglie si scannano e il Doge (pardon il sindaco) decide, i ciompi entrano in consiglio comunale, altri pezzi di città si stanno stracciando.

Ma ai più vecchi sembra rivivere il dibattito degli anni sessanta, tra la città di servizi e la città industriale, che guardava all’immediato Oltreappennino come una estensione naturale del lembo di terra fra monti e mare che è Genova. Il risultato è stato che la città industriale non c’è più e quella dei servizi, senza industria, non c’è mai stata.
Una secessione sta minando l’attrazione numero uno tra gli Eventi genovesi, il Salone Nautico, che dal 1961 è la maifestazione principale, conosciuta nel mondo, lanciata da una classe dirigente di grandi orizzonti, capace di richiamare centinaia di migliaia di visitatori e di rianimare il tessuto turistico cittadino.
I cantieri che costruiscono barche a vele e tutto il mondo che vi gravita intorno stanno organizzando un salone parallelo nella Marina di un neo maxiporto turistico, nato dall’altra parte della città nelle acque di Sestri Ponente, ex Stalingrado d’Italia, perchè era la città delle fabbriche e dei grandi cantieri, soprattutto quel cantiere che ha varato le navi storiche della flotta mercantile italiana dal Rex, al Cristoforo Colombo, all’Augustus, all’Eugenio C., compresa la mitica e sfortunatissima Andrea Doria, andata a picco non perchè c’era uno Schettino a bordo, il 26 luglio del 1956, ma perchè un rompighiaccio svedese, lo Stockholm la speronò al largo di New York.
Andrea Doria, Marco Doria: come si vede i nomi tornano nella storia della Repubblica di Genova che sta per decidere ancora una volta il suo destino, tra diaspore e guerre di successione.

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