GENOVA – Che peccato! Genova sta sprecando in un momento molto importante della sua storia recente una campagna elettorale intera, che dura oramai da più di un anno e non riesce a decollare neppure nella sua complicata fase finale.
Non si sente il rumore della battaglia tra i contendenti che sono tanti, come mai nell’epoca recente, ma che sembrano come rassegnati a una piccola contesa, quasi che il risultato fosse scontato o non modificabile, malgrado tutto quello che sta succedendo nel mondo, in Europa, in Italia e ovviamente anche a Genova. Il rumore della battaglia non è un’ urgenza.
Non vogliamo vedere scorrere per forza il sangue di Marco Doria, il più nobile contendente al trono di sindaco che Genova ricordi dal tempo dei Dogi ed anche il più a sinistra mai in corsa, secondo i canoni dei nostri schieramenti politici. Né vogliamo vedere trafitto nella contesa il pio, anzi piissimo, Pierluigi Vinai, candidato del centro destra, scelto per costrizione, per di più non genovese, sicuramente uno dei più popolari, quanto ad estrazione sociale, dei quattordici concorrenti.
Non vogliamo vedere spezzarsi per forza l’armatura del professor Enrico Musso, docente universitario e senatore, concorrente per un centro liberale e civico che corrisponde a un “non luogo” della politica genovese negli ultimi trentanni, almeno dal 1975 della prima giunta rossa, che spazzò via la Dc e con essa, per lustri e lustri, ogni aspirante moderato alla poltrona di sindaco. Non consideriamo tali né i candidati leghisti o paraleghisti degli anni 1993, Enrico Serra e Sergio Castellaneta del 1997, né l’ex portuale e socialista Rinaldo Magnani del 2002, né lo stesso Musso del 2007, allora targato Berlusconi.
Forse il più moderato tra sindaci e aspiranti tali è stato, inopinatamente, Giuseppe Pericu in sella dal 1997 al 2007, eletto, però da un centro sinistra aperto anche al suo fronte più radicale. L’accusa di discontinuità, che la sua successora, Marta Vincenzi, gli ha pesantemente e continuativamente rivolto, non era anche la reazione a quella “moderazione”?
Stendiamo un velo sugli altri concorrenti, che magari vorrebbero vedere scintillare le spade della battaglia, ma che sono troppo lontani dall’aspirare alla vittoria: dallo stesso candidato leghista Edoardo Rixi, il più calzante nella contesa dura, al grillino Paolo Putti, alla “spiazzante” Susy De Martini della Destra, la nostra “fregoli” della politica”, per tanti abiti e bandiere che ha cambiato.
Il rumore della battaglia significherebbe che queste elezioni così a lungo preparate, oseremmo dire mal preparate, da partiti e schieramenti, sono “vere”, “aperte” ed hanno nel futuro della città idee e programmi fieramente contrapposti. Non solo: Gronda si o Gronda no o Gronda ni, Terzo Valico si o no, Moschea si o no, ma dove. Che altro?
E’ vero: i programmi che nessuno legge per intero sono molto uguali. In tempi grami come questi le conferenze strategiche sul futuro non si fanno più, ne qui, né altrove: escono perfino dal gergo macroeconomico. La livella dell’emergenza economica, dei bilanci kaput, l’imprevedibilità delle crisi fanno assomigliare idee e prospettive a cascami residuali del passato, a vecchi arnesi da bacheca di museo.
Eppure la politica, anche quella dei conti in rosso e della crescita, si nutre di speranza, di nuovi orizzonti. A Genova nessuno fa più vedere un orizzonte aperto da decenni. Restano, invece, immagini da declino inarrestabile. La città più vecchia del mondo, duecentomila abitanti su seicentomila oltre i 65 anni e fra un po’ sarà peggio. Vecchi e soli. Senza più fabbriche e il futuro industriale abbarbicato alla collina degli Erzelli, al suo rompicapo….
Signori candidati non è limando queste immagini di declino che si combatte la battaglia decisiva. Il prossimo sindaco non può presentarsi con un grande sogno nel cassetto, non è più l’epoca, ma non può negare al suo popolo un orizzonte.
Che sarà Genova nel 2022, tra due mandati da primo cittadino, solo una città nella quale uno su quattro sarà immigrato o figlio o nipote di immigrati, con un tasso di vecchiaia più alto che nelle enclaves giapponesi, strangolata nel traffico, non appetibile per le nuove “global elites” dell’economia da Bric (Brasile-Russia,India, Cina), pronte a investire miliardi e miliardi in Africa e, perchè no?, nel Vecchio Continente?
Il nuovo sindaco deve avere una sua idea e poi magari quattro o cinque soluzioni per i problemi chiave della città di oggi. Non di più. Che si scannino su questo, invece di giocare in difesa e a rimpiattino.
La sinistra si sente come obbligata a vincere, il centro e la destra a subire in un gioco al ribasso, mani man arriviamo al ballottagggio
Nessuno sembra spasimare dalla voglia di fare il sindaco: ecco quello che impressiona e che fa sentire la nostalgia della battaglia. Doria ha già detto che se perdesse resterebbe volentieri a fare il prof e anzi non sa come adattarsi a rinunciarci, se invece vincesse. Vinai sembra lì per caso e non si infiamma certo. Musso, che è partito molto da lontano, è sempre un professore e anche un senatore; se gli va male chi leva il seggio a Palazzo Madama a lui, di per se asettico e tecnico, quindi fatto apposta per i tempi che verranno, partiti o non partiti in resurrezione o disfacimento? E gli altri sanno che perdono e quindi non si strappano né le vesti né l’aplomb da dosso.
Verrebbe da invocare un governo tecnico, un Monti in salsa genovese. Ma le amministrazioni locali sono scelte con il loro leader direttamente dal popolo e qui non c’è un Napolitano che “unge” i tecnici e si inventa un Grifo d’oro sindaco civico con “grosse koalition.”
Ci devono pensare i partiti e guardate come ci hanno pensato bene. Il Pd ha cucinato il pasticcio delle primarie, contrapponendo la Vincenzi, uscente dal primo mandato, alla Pinotti auto candidata e così lanciando Doria, un indipendente Sel, di cui ora tutti hanno paura, loro per primi.
Paura perchè è nuovo e incontrollabile, ma vince solo se il centro sinistra fa quadrato e, quindi, attrazione fatale. Il Pdl ha organizzato una indegna passerella di candidati che hanno detto no, da Beppe Costa al carneade Gianfranco Vinacci. Solo Enrico Musso ha autodeterminato il suo destino, e da tempo, con la fondazione trasversale “Oltremare” e l’unica iniziativa originale di tutta la tornata elettorale: la prima lista civica.
Poi sono seguite tutte le altre e questa pioggia confessa nel modo più clamoroso il patatrac dei partiti.
Senza rumore di battaglia non si capisce quale Genova sarà quella del muovo sindaco. Quella un po’ impettita di Marco Doria, più “comunista”, un po’ inflessibile, giovanilista e vagamente pauperista con concessioni a Gronde e anche qualche cornicione, ingessata nei vecchi apparati, ma con strappi alla Adriano Sansa nelle scelte degli uomini? Quella clerico-bloccata di Vinai? Quella chiaramente più tecnocratica e più a sorpresa di Musso?
Ma la città non si identifica solo con il suo sindaco e il resto come viene. Esattamente trenta anni fa “Il Secolo XIX” aveva lanciato una grande inchiesta che doveva rispondere alla domanda bruciante, dopo gli anni di piombo e in piena crisi postindustriale: “Genova domani, in cravatta o in tuta blu?”.
La domanda partiva dalla notizia che nel consiglio di fabbrica dell’Ansaldo, che era allora la ‘industria” a Genova, i colletti bianchi erano diventati più numerosi degli operai. Quella domanda e quell’inchiesta aprirono di fatto la trasformazione genovese: la fine dell’era Partecipazioni statali, le Colombiane, i Mondiali di calcio del 1990, la capitale europea della Cultura, il G8 della tragedia democratica, ma anche degli investimenti pubblici fatti fruttare nel rifacimento di pezzi interi della città. Meno 150 mila abitanti, meno 58 mila posti di lavoro nelle industrie, il nuovo Carlo Felice, il nuovo palazzo Ducale, la scoperta del Porto Antico di Renzo Piano, il crollo del muro tra la città e i moli, l’invenzione Acquario………
Trent’anni e ora il silenzio al posto della battaglia. E la stessa domanda: Genova domani?