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Genova: ko la Carige, ko la politica, ko la città

di admin |6 Marzo 2015 11:53

Genova: ko la Carige, ko la politica, ko la città – Foto LaPresse

GENOVA – La banca è circondata. Le teste cadono. C’è stato un golpe e poi un controgolpe, come se fossimo in qualche Repubblica delle banane o a Asuncion del Paraguay ai tempi del generale Stroessner.

Invece siamo a Genova, che le banche le ha inventate e che ora guarda alla Carige e alla sua Fondazione, azionista di maggioranza con il 47 per cento, come se fosse crollata la Lanterna e non il grattacielo di 14 piani nel quale ci sono gli uffici del sesto istituto di credito italiano per patrimonializzazione.

Il doge di Carige, Giovanni Berneschi, il past presidente appena stangato, lavora ai suoi fascicoli in una stanza secondaria del palazzo che era il suo regno, dimissionario da venti giorni e sostituito dal principe Cesare Castelbarco Albani, che siede, profumato e azzimato al suo posto nella stanza principale del quattordicesimo piano, dal quale si governava non solo la banca ma in parte anche la città di Genova e la Liguria intera, da dove si irradiava la luce dei soldi da elargire, altro che la Lanterna.

Il presidente della Fondazione, il cavaliere Flavio Repetto, re dei dolci Elah, Novi, Dufour, che tanto amaro come in questi mesi non lo aveva mai assaggiato, ha forse i giorni e le ore contate, dopo che diciassette membri del suo consiglio di indirizzo hanno chiesto la sua revoca quindici giorni dopo la caduta del doge Berneschi.

Ecco il controgolpe al golpe, che era scattato nel cuore dell’estate con le dimissioni a raffica nel cda della banca, “armato” dalle relazione degli ispettori della Banca d’Italia, che avevano chiesto la destituzione del vertice con accuse di una pesantezza inusuale. Sotto attacco Berneschi e ora è sotto attacco il cavalier Repetto. Chi ha armato la mano dei golpisti e dei controgolpisti? Prima Repetto contro Berneschi e oggi Berneschi contro Repetto?

La Banca trema dalle fondamenta e non solo dal suo quattordicesimo piano. La Fondazione, che ha i suoi nobili uffici nel caruggio ai piedi di quel grattacielo, vacilla quando pensava di avere in mano le carte per governare il cambiamento: il nuovo presidente Catelbarco e il suo vice l’ex presidente della Provincia Alessandro Repetto, scelti in casa proprio da Repetto.

Le scosse del terremoto sono tanto forti che anche la politica della città ha incominciato ad allarmarsi e ha finalmente fatto quello che a Genova in dialetti si chiama resattu, un balzo. Il presidente della Regione, Claudio Burlando, ha convocato una assolutamente inedita riunione degli enti locali che decidono le nomine dei consiglieri della Fondazione, per cercare di far rientrare il controgolpe.

Così si sono ritrovati, sparuti e spaventati, sindaci, reggenti della Provincia, presidenti di Camera di commercio e anche il messo del cardinale Angelo Bagnasco, intorno a un tavolo della regione in un palazzo a un tiro di sputo dal grattacielo, intorno alla emblematica Piazza De Ferrari, a lanciare inutili richiami per i ribelli.

I dissidenti hanno risposto picche, capeggiati da un altro re deposto negli ultimi mesi in Liguria, l’ex ministro di Berlusconi, Claudio Scajola, accusato di avere innescato la rivolta da Imperia, sventolando la bandiera della sua provincia, esclusa dalle recenti nomine nel nuovo consiglio della Carige, rinnovato dopo i fulmini e le saette di banca d’Italia.

Una questione di campanile, dietro i siluri che rischiano di ridurre a zero il potere locale nella banca, una vendetta di Scajola, che sta riemergendo in parte dalle sue catastrofi giudiziarie, che è fuori dal Parlamento, che ha perso perfino le elezioni locali di Imperia. Una specie di bacio della morte del leader che fino a un paio di anni fa dominava la Liguria e si permetteva di snobbare Genova capitale?

Troppo semplice ed anche ingiusto, perch: la politica ligure con la banca Carige e la sua Fondazione non ci ha capito nulla da anni d anni e le ha lasciate governare il credito e il territorio, per manifesta condizione di inferiorità. Berneschi, self mad man bancario, 57 anni in Carige, da sottoimpiegato a Doge, superficialmente definito banchiere-contadino, perchè guida un trattore durante le vacanze estive a La Spezia e Flavio Repetto, self made man imprenditoriale, di origine bassopiemontese, capace di salire dalle mense aziendali che organizzava alla conquista delle più prestigiose firme dell’industria dolciaria, sono state figure nettamente svettanti sul ceto politico della Liguria.

Claudio Burlando e Claudio Scajola, gli ultimi leader di sinistra e di destra rimasti in sella nella regione dove è nato il fenomeno delle 5 Stelle, avevano semplicemente trovato un accordo, sei anni fa, per sistemare qualche poltrona nei consigli della banca e della Fondazione, dove – colpo di genio – avevano addirittura piazzato anche un monsignore della Curia genovese di Angelo Bagnasco.

Scajola si accontentava di avere il fratello maggiore Alessandro nel ruolo di vice presidente della Carige, una posizione buona per tagliare nastri e ricevere qualche imprenditore a quel quattordicesimo piano del mitico grattacielo. E fino a quando era un ministro potente gli bastava compiacersi di “convocare” o Repetto o Berneschi nel suo ufficio imperiese, una piccola palazzina dietro un distributore di benzina. Loro prendevano l’autoblù e filavano sull’Autofuiori fino a Imperia-Porto Maurizio. Tutto sotto controllo signor ministro.

Burlando faceva prima: se c’era qualche problema con la banca, attraversava la piazza De- Ferrari e saliva con l’ascensore speciale nell’ufficio di Berneschi. Tutto sotto controllo, Claudio.

Quando Scajola ha incominciato a vacillare, “ a sua insaputa” e nel crollo del porto di Imperia tra Francesco Caltagirone Bellavista e la sua ex fidanzata, la vedova di Gianni Cozzi, un brillante deputato Udc purtroppo immaturamente scomparso, il cavaliere Repetto si era dispiaciuto a veder cadere il pilastro di Imperia, ma il suo gioco con la sponda politica e con quella finanziaria di Assicurazioni Generali e di Mediobanca era ben più solida che lungo la tratta dell’Autofiori verso Imperia.

Frequentatore delle cene riservate di pochi imprenditori con Berlusconi della prima era e addirittura suggeritore di Luca di Montezemolo in tempi più recenti, che bisogna c’era di qualche “ducetto” locale?

Quando Burlando si distraeva dalla politica per battere il territorio ligure nella sua missione di governatore (ha recentemente confessato in una lunga intervista a Wanda Valli di Repubblica che non “fa politica da dieci anni, troppo occupato di amministrare”, come se le due cose fossero incompatibili…) Berneschi, dall’ultimo piano del suo ufficio stellare, alzava un po’ più la voce ricevendo la fila di imprenditori, armatori, manager piccoli e grandi che veniva a chiedere aiuto non offerto dalla politica a chi opera in Liguria.

Il Terzo Valico, collegamento fondamentale per sviluppare le infrastrutture del porto e della città strangolata dal traffico non andava avanti? Berneschi si sgolava e urlava i suoi anatemi in perfetto zeneise scurrile e cercava lui le piste per far ripartire l’opera dai binari morti di amministrazioni che non decidevano neppure dove depositare lo smarino delle gallerie da scavare, i detriti a milioni e milioni di tonnellate.
L’Università si scannava al suo interno per decidere se accettare o no la proposta di trasferire la sua Facoltà di Ingegneria nel costruendo villaggio high tech di Erzelli, finanziato con cifre da capogiro (si parla di 270 milioni di euro) dalla Carige? E l’intoppo stoppava la unica operazione di orizzonte aperto concepita in Liguria negli ultimi anni? Chi cercava di cucire? I tessitori politici che per mestiere avrebbero dovuto farlo, i sindaci di oggi, Marco Doria, una sorta di Forrest Gump tra le macerie genovesi e quelli di ieri come Marta Vincenzi, bravissima a organizzare debat public per conquistare il consenso popolare, meno pragmatica a decidere operativamente alcunch{, facevano come Penelope. O non c’erano o non ci facevano…

La patata bollente finiva su quel tavolo settecentesco del quattordicesimo piano di Berneschi, il quale con chi ne parlava? Ma con Repetto, un azionista di maggioranza della banca che il Doge non amava molto, ma con il quale il rapporto era diretto. O con il cardinale Bagnasco, che lo benediceva….Celebre la frase in genovese tra i due, di fronte alla candidatura a sindaco dell’ex senatore Enrico Musso, ex berlusconiano, poi liberal, oggi solo consigliere comunale di se stesso: “Ghe ne veu un atru”, ce ne vuole un altro. Il cardinale e il banchiere al posto della politica.

Insomma la politica in fase di disfacimento di questi anni e le categorie produttive, l’associazionismo imprenditoriale, ridimensionato dai tempi del Triangolo Industriale, pendevano solo dalle labbra della Superbanca.

Il presidente degli industriali degli ultimi quattro anni (il suo successore Giuseppe Zampini, ad di Ansaldo Energia, è stato appena piazzato nel consiglio della nuova Carige, dopo la decapitazione di Berneschi) il giovane Giovanni Calvini, espresso da una famiglia molto solida, con ditta di import export di frutta secca, poteva andarsi a prendere un buffetto e non molto di più dai banchieri, tanto è oggi il peso di Confindustria e il leader della Camera di Commercio, giunto al terzo mandato era Paolo Odone, di nota famiglia di commercianti, una quintessenza di Berneschi e del suo controllo di ferro sulle categorie camerali, che una volta avevano al centro il mare e il settore marittimo, ma ora navigano in settori terziari ben meno rigogliosi di affari, business e capacità di espansione.

Altro che januensis ergo mercator, genovese uguale mercante… Oggi i mercati sono tutti sotto gli ombrelli e cercano di ripararsi dalla crisi che grandina chiusure, fallimenti, trasferimenti, fughe oltre Appenino e oltre frontiera verso paradisi svizzeri, sloveni e polacchi.

Tutti a bussare alla porta di Berneschi e di Repetto, mentre la burocrazia e gli apparati amministrativi strangolavano sempre di più anche le più piccole iniziative imprenditoriali e commerciali e nessuno scendeva in campo dall’agone politico a smuovere le acque stagnanti.

Il compianto capitano coraggioso dell’impresa genovese, Riccardo Garrone, oramai erroneamente definibile come petroliere, la cui azienda oggi è proiettata nel settore delle nuove energie, scomparso meno di un anno fa, e insieme a Vittorio Malacalza, imprenditore di molti settori e contendente di Tronchetti Provera in Pirelli, uomo forte della finanza e della impresa genovese, bollava i banchieri di Carige e Fondazione come “i poteri forti della città”, guai a averli contro. Erano loro a stoppare tutto.

Forse esagerava nelle censure, ma ci pigliava nella definizione globale: gli altri poteri della città si sono molto indeboliti e quel potere era l’unico capace di imprimere decisioni e svolte sulla tela rattoppata del sistema Genova.

Che pretendere da una città che fino all’inizio degli anni Ottanta si equilibrava economicamente tra il sistema delle grandi aziende Iri, siderurgia, energia, impiantistica, cantieristica eccetera eccetera e un pugno di grandi famiglie ultraborghesi in decadenza più o meno verticale, i Costa, i Ravano, i Piaggio, i Cameli, i Bibolini, i Corrado, i Bozzo, i Dufour e i Romanengo, con il grande porto pubblico in mezzo, in mano al terrificante binomio dei camalli della Culmv e del Cap, il Consorzio Autonomo del porto, lottizzato dai partiti di governo che ci piazzavano a capo i professori di Filosofia…

Allora la politica della Prima Repubblica aveva buon gioco con i Taviani, i Russo, i Lucifredi, i Manfredi, gli Orsini della Dc e i Macchiavelli, i Pertini, i Meoli, i Canepa del Psi a montare rapporti fruttuosi con un sistema bancario un po’ meno egocentrico di oggi: la Carige si chiamava Cassa di Risparmio, i presidenti e i vice rigidamente democristiani e socialisti li nominavano direttamente Taviani e i socialisti e nel cda ci mettevano anche i primi comunisti, pronti a occuparsi di finanza paracapitalista.

Oggi di quello scenario rimane poco o nulla e probabilmente è per questo che il grattacielo della Carige, con alla base il palazzo storico della Fondazione svetta così potentemente e gli altri sembravano gnomi in arrampicata libera sulle pareti di cristallo.
Forse Repetto e Berneschi non si sono accorti del tempo che trascorreva. Sono due anziani signori nella città più vecchia d’Italia, d’Europa e forse del mondo e il loro svettare ha avuto qualche eccesso.

Il tempo e gli accertamenti diranno se le accuse più pesanti rivolte a Berneschi, di avere concesso crediti senza garanzie solo agli amici e di non avere provveduto alla catastrofe delle aziende assicurative Carige Assicurazioni e Carige vita sono fondate. E se l’apertura allo Ior di Repetto, decisa in solitario, che gli viene contestata e che gli ha provocato il siluro dei golpisti, era una mossa avventata.

Oggi la Carige rischia che arrivi un Commissario e metta i ferri alla sesta banca italiana per patrimonializzazione, cresciuta in quaranta anni da banca municipale a settecento sportelli in tutta Italia e a una galassia di società che contengono altre banche.

A chi dovevo dare i soldi se non agli imprenditori che mi presentavano progetti capaci di creare posti di lavoro?”, contrattacca Berneschi crocefisso dal rapporto di Banca d’Italia.

“Abbiamo difeso l’autonomia e la forza della Banca e l’abbiamo resa non scalabile”, si difende Repetto, che si è prodigato per aumentare la quota di maggioranza, tirando dentro i soci genovesi, recuperati da quelle macerie del cataclisma economico genovese degli ultimi trent’anni.

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