Quattrocentocinquanta anni dopo il suo capostipite Andrea, nato nel 1524 e morto nel 1590, mezzo millennio dopo il più celebre ammiraglio, Marco, professore alla facoltà di Economia, di 53 anni, indipendente del Sel, spinto da una coalizione di centro sinistra, riporta la dinastia genovese per eccellenza ai vertici della Repubblica di Genova.
Il nuovo sindaco di Genova, il quattordicesimo dopo la Liberazione, il quarantunesimo nella storia di questa città, vince, in una giornata devastante per la politica della città, per i partiti che fino a ieri costituivano l’asse istituzionale della Superba, dal 1974 governata da sindaci e maggioranze quasi ininterrottamente (salvo una pausa di cinque anni dal 1985 al 1990) di sinistra con il Pci, poi Pds, poi Ds, infine Pd, in posizione di dominio.
Il Doria del terzo Millennio, che conquista il palazzo genovese, viene eletto da poco più di 110 mila elettori, su 507 mila aventi diritto al voto, su una popolazione che supera di poco i seicento mila. Questo prof dal tratto serioso, rarissimi sorrisi, eloquenza forbita da casta nobiliare, grande feeling con gli ambienti radical chic, conquista il 59,7 per cento dei voti in una elezione dove la percentuale dei votanti sta sotto il 39 per cento, record assoluto in negativo nell’ Italia delle grandi città.
Lo vota una percentuale inferiore a quel 43 per cento, che il Pci, suo antenato politico, guadagnava nel 1975 dell’era berlingueriana.
Il suo concorrente al ballottaggio, un altro prof di Economia, Enrico Musso, cinquanta anni, senatore della Repubblica, ex Forza Italia, spinto da una lista civica da lui fondata e molto blandamente da un terzo Polo che non si è quasi mai fatto vedere sulla scena elettorale, conquista il 40,3 per cento, più che raddoppiando il consenso del primo turno.
Doria, che il partito Democratico aveva in realtà opzionato prima dell’estate scorsa come possibile candidato sindaco, attraverso i suoi giovani vertici, desiderosi di accantonare l’esperienza della sindaco Marta Vincenzi in crollo di popolarità, era uscito da quella porta principale perchè i leader nazionali del Pd lo avevano stoppato e rientra dalla finestra di una candidatura “indipendente”, favorita da un gruppo di intellettuali e professionisti, tra i quali l’inarrestabile don Andrea Gallo, il “prete da marciapiede” per cui qualcuno, nella notte del successo elettorale, invoca perfino la carica di vicesindaco.
Vinte le primarie contro le zarine Vincenzi e la senatrice Roberta Pinotti, Marco Doria, vince ora il Comune, in mezzo a questa voragine di astensionismo in cui precipita un elettorato fedelissimo all’urna per decenni, nel cuore di una città declinante, dove il panorama politico sembra dissestato, dopo la scorribanda dei grillini che quindici giorni fa avevano sfiorato il ballottaggio con il carneade Paolo Putti, giunto al 13, 7 per cento, sotto di soli due punti a Musso.
Sorridono a denti stretti i leader dell’apparato Pd che, comunque, portano a casa l’amministrazione di Genova per la sesta volta consecutiva, nel giorno in cui Fizzarotti li sepellisce a Parma e Orlando li sotterra a Palermo. Sorridono anche perchè alla fine il solitario Enrico Musso si è riuscito a issare, con le sole sue forze, fino al 40 per cento e se avesse avuto un po’ più appoggi e un po’ di spinta dai moderati genovesi e un po’ più di votanti in canna, poteva veramente conquistare Genova. Un colpo sensazionale: far cadere la storica roccaforte rossa.
Invece la roccaforte resiste, grazie a un altro Doria di una storia secolare di Genova, della Repubblica Marinara, che di marinaro ha più poco e di potenza mondiale quasi nulla. E nella rigida serata di maggio va a festeggiare davanti al palazzo Ducale dei principi, dei Dogi, degli ammiragli e, undici anni fa, del tragico G8 genovese, in mezzo a un gruppo perfino sparuto di militanti.
Pochi sorrisi e un discorso impettito con qualche minaccia al sistema di potere consolidato da tutti questi decenni di monopolio assoluto.
“Sarò autonomo nella scelta degli assessori” spiega il neosindaco, vestito di scuro, con la voce un po’ arrochita dai discorsi inusuali. “Il mio primo compito è di riavvicinare i cittadini alle istituzioni democratiche, colmare quel vuoto che si è creato.”
Come dire: mi butto dentro a quel cratere del 62 per cento che non è andato a votare in uno dei week end più neri della storia italiana, quello della bomba di Brindisi, del terremoto in Emilia e del G8 quasi inutile negli Usa.
Che paracaduti avrà questo Marco Doria per planare dentro al vuoto elettorale, che improvvisamente fa di Genova una delle capitali del distacco dalla politica e dai partiti? Certo avrà il blasone della famiglia, il nome secolare, una paternità illustre, quella del suo genitore Giorgio Doria, il famoso marchese diseredato perchè aveva aderito al Pci, vicesindaco nell’anno di grazia 1975, quando si insediarono, quasi con un golpe, a palazzo Tursi gli assessori Pci-Psi della prima giunta rossa, che primeggiava in Italia, così come nell’inizio degli anni Sessanta nella stessa città aveva primeggiato il primo centro sinistra comunale, sulla scia di Moro-Nenni a palazzo Chigi. Rovesciarono in un colpo solo il potere di Paolo Emilio Taviani, il leader storico della Dc del quale, che singolare coincidenza, proprio in questa settimana si celebra il centenario dalla nascita.
Giorgio Doria, il padre spossessato di quasi tutto i suoi beni per quella strappo dalla tradizione, aveva il sogno di fare il sindaco di Genova. Ma l’alleanza vincente a sinistra non osò imporre un comunista subito e il marchese rosso si dovette accontentare di fare il vicesindaco, numero due dell’ex tramviere socialista, Fulvio Cerofolini. Sopportò per pochi anni, e poi uscì dal governo della città e anche da tutto il resto di un apparato politico che stava preparandosi a insediare un sistema di occupazione del potere destinato a durare per decenni e a attraversare la fine del secolo, l’inizio del nuovo millennio e eventi epocali, come la caduta stessa del comunismo, gli anni di piombo, la potente de industrializzazione genovese, la caduta demografica genovese, meno 150 mila abitanti in quindici anni, e quella occupazionale, con il precipizio verticale della classe operaia, dimagrita di 55 mila unità, tra l’inizio e la fine degli anni Ottanta.
Oggi il Doria del terzo Millennio riesce dove Giorgio Doria non era riuscito, scegliendo poi una carriera di studi tale da fargli meritare la libera docenza in Storia Economica “per chiara fama”, stessa cattedra che poi il figlio ha conquistato qualche decennio dopo e che ora dovrà lasciare in sospensione durante il suo mandato da sindaco.
Va a fare il sindaco, planando dentro a quel vuoto di partecipazione e di rappresentatività, in una città che la generazione politica precedente ha, alla fine, portato sulla soglia del collasso, dopo le illusione del Cinquecentenario Colombiano, delle opere del G8 nel 2001 e del 2004 di Genova Capitale europea della Cultura.
La prima grana che deve affrontare e che gli ha arrochito la voce, nella serata della vittoria, è il bilancio comunale da approvare entro 14 giorni perchè i predecessori non lo hanno timbrato.
E come e con quale aliquota dell’Imu da applicare? Poi ci sarà la voragine del deficit dell’Amt, l’azienda del trasporto urbano che sta in rosso di parecchie decine e decine di milioni di euro. E poi c’è il rosso del Carlo Felice, il grande teatro dell’ Opera, ricostruito negli anni Novanta, una macchina costosissima con 300 dipendenti da mantenere, che gli sponsor salvifici di Finmerccanica e la Erg dei Garrone stanno abbandonando, frustrati da un cambio di gestione che non arriva.
E poi ci sono Ansaldo Energia e Ansaldo Sts, ultimi gioielli di un impero industriale prima della famiglia Perrone, poi dell’Iri, che Finmeccanica mette sul mercato mondiale per salvarsi la pelle e i suoi conti……Poi ci sono i debiti delle aziende di assistenza alla persona, come l’Istituto Brignole, che una volta si chiamava Albergo dei Poveri, tartassato anche dalle inchieste giudiziarie…..
Il rosario delle penitenze o delle disgrazie potrebbe contenere molti altri grani (o meglio grane) per il neo sindaco, che alla domanda da dove comincerà, tenta i primi dribbling politici della sua carriera.
Che aveva vinto il ballottaggio lo ha appreso uscendo dall’aula universitaria dove aveva appena fatto lezione, nella zona del porto antico. Da lì, a due passi dal Museo del Mare, dove giacciono anche le vestigia dei suoi avi, comandanti e ammiragli, capaci di domare le rivolte della Corsica e di condurre il corpo di spedizione ispano-genovese, come accadde prima al mitico Andrea e poi anche al suo capostipite, Giorgio, è incominciato il calvario del neo sindaco.
E’ salito attraverso i carruggi, attraverso la Piazza Banchi della storica Loggia, lungo la strada degli Orefici, sfiorando la piazzetta San Matteo del palazzo nobiliare della famiglia, fino al suo point di candidato vincente, probabilmente sfogliando la margherita delle emergenze che lo attendono.
La pressione del Pd per “mantenere” in vita alcuni degli assessori e dei capataz della gestione precedente, quella naufragata con Marta Vincenzi, è forte, ma per ora cauta.
Nessuno conosce bene il carattere del nuovo sindaco e quindi le reazioni che avrà di fronte alle esigenze di una coalizione nella quale qualcuno scalpita già, come l’Idv di Di Pietro, a Genova dominato da una coppia di ferro, il deputato Giovanni Paladini, ex sindacalista di Ps e sua moglie Marilyn Fusco, assessore all’Urbanistica e vice presidente della Regione.
Sull’altra sponda il candidato perdente, Enrico Musso ha già spiegato che riprenderà subito il suo lavoro di senatore, iscritto al Gruppo misto, ma che in consiglio comunale non darà tregua a Doria.
L’ultimo Doria che aveva gestito il potere a Genova, appunto circa 450 anni fa, era passato alla storia anche per avere ottenuto dall’imperatore Rodolfo d’Asburgo l’appellativo di “Serenissima” per la Repubblica, mettendola sullo stesso piano di Venezia.
Quale appellativo conquisterà per la sua città il suo erede Marco Doria, professore, ex marchese, eletto nel buco elettorale più profondo che Genova abbia mai conosciuto?