Genova in crisi cerca Milano, una sola città, aspettando Expo’ e Supertreno

L’invenzione lessicale è del presidente del Porto, Luigi Merlo, un ex giornalista spezzino, Pd, ieri Margherita, già assessore regionale: Mi-Nova che starebbe per Milano-Genova. L’idea, direbbero i vecchi genovesi mugugnoni, è vecchia come il cucco: fare del decadente capoluogo ligure (meno di 600 mila abitanti, industria in picchiata, collasso perfino del mitico Teatro Carlo Felice), e della prorompente Milano del prossimo Expo’ mondiale 2015 una unica città.

Come e perchè? Sopratutto con la realizzazione, finalmente in pista, del Terzo Valico (appena approvato dal CIPE) e quindi di una linea ferroviaria veloce tra le due città che trapassi l’Appennino e quel pezzo di pianura, in meno di 45 minuti. La ragione è che Genova da sola non ce la fa più: il porto in leggera ripresa soffoca di spazi, la città è strangolata con infrastrutture ferme a 30 anni fa, almeno 150 mila giovani genovesi lavorano a Milano e in Lombardia, la fuga non è più solo dei cervelli, ma anche della manovalanza. Anche l’immigrazione si è fermata ed ha invertito il trend, perche’ crollano simultaneamente i due poli attrattivi degli immigrati: l’industria edilizia perde 2500 posti di lavoro e la crisi taglia anche la richiesta delle badanti che erano in tutta la Liguria un esercito di 45 mila.

Meno popolazione, meno soldi: le famiglie si aggiustano come possono anche nell’assistenza dell’esercito degli anziani che cresce, che cresce….

“Possiamo diventare una unica città, si potrà vivere a Genova e lavorare a Milano _ dice il pimpante presidente portuale_ Nel mondo esistono già grandi metropoli nelle quali collegamenti veloci consentono di viaggiare da un capo all’altro per decine di chilometri.”

Non è che l’idea di una relazione stretta Milano-Genova sia nuova. Negli anni e nei decenni si sono susseguiti altre soluzioni per risolvere il problema. Negli anni Sessanta- Settanta il giochino comprendeva anche Torino e al posto di Mi-Nova c’era GE-MI-TO, la riedizione più moderna del Triangolo industriale, uscito dalla guerra e dalla sua potente riconversione industriale. Ma GE-MI- TO alla fine è stato un aborto, magari per colpa del senso letterale di quella doppia crasi. Chi lo esalava il GeMiTo? Sopratutto Genova e poi Torino con la crisi Fiat.

Era rimasta solo la Milano da bere e quella triade era andata a farsi benedire. Poi era sopravvenuta la tattica politica e con la Seconda Repubblica e il regno milanese del Faraone, Roberto Formigoni, il presidente eterno della Lombardia, berlusconiano e “figlio” di don Giussani, cioè di Comunione e Liberazione e Compagnia delle Opere, si era staccato dalla vecchia, ipotetica alleanza.

Genova, Torino, Liguria, Piemonte, salvo le eccezioni fugaci di Ghigo e Biasotti, erano saldamente in mano della Sinistra in evoluzione. E così vai con il Limonte,-sigla inventata dal duo Burlando-Bresso, per saldare la sintonia dei loro governi.

Caduta la velleitaria Mercedes Bresso e conquistato il Piemonte dal leghista Roberto Cota, cosa ti nasce sul fronte nord occidentale? Il Patto del Quadrilatero, che i padani propongono mettendoci dentro anche il Veneto di Luca Zaia.

“Volete salvare la Liguria, cenerentola del Nord, la più sudista, economicamente parlando, del Nord padano-svizzero-austriaco della nuova Europa senza confini o con nuovi confini? Ci vuole l’asse delle quattro regioni forti e poi a Genova cosa c’è? Il porto numero uno del Paese, il più potenziale di tutto il Mediterraneo”_ giurano, come a Pontida, i lumbard con Bossi e non a caso Tremonti, Maroni, Calderoli, tutti riuniti nella primavera del 2010 nel salone del Maggior Consiglio del Palazzo Ducale genovese, il luogo ombelicale della ex Repubblica “Superba”, nell’occasione invasa altro che dai barbari.

Come poteva reagire la sinistra, che in Liguria governa tutto, meno il feudo imperiese di Scajola, l’imperatore del Ponente ancora in attesa di riscossa, l’ex ministro di Scajola?

Tramontata perfino l’alleanza stretta con Alessandria, cioè l’Oltreappennino dove il potente Fabrizio Palenzona, vicepresidente Unicredit e leader di cento società infrastrutturali, si tirava fuori dalla società Slala, stretta con i genovesi per “scaricare” il porto di Genova attraverso i retroporti bassopiemontesi, ci voleva un colpo d’ala.

Qua è spuntato il presidente dell’Autorità Portuale genovese, il quarantenne Luigi Merlo con l’idea Mi-Nova. A spingere l’invenzione sopratutto il decollo appena avvenuto del Terzo Valico, un’opera che Genova aspetta da 110 anni e che negli anni Ottanta era stata potentemente rilanciata dagli imprenditori genovesi. Il Governo Berlusconi ci aveva messo su il primo finanziamento di 700 milioni di euro, una mezza briciola per costruire una linea con tre gallerie di 43 chilometri, tra l’entroterra genovese e Novi Ligure, al prezzo finale di 5 miliardi di euro. Ma insieme ai primi spiccioli era partito anche un accordo blindato per obbligare i governi che si succederanno a finanziare tutta l’opera fino al suo completamento. La ragione è perentoria: quel Terzo Valico fa parte del Corridoio europeo, che Bruxelles ha previsto tra Genova e Rotterdam. Gli svizzeri hanno già perforato le Alpi con i loro trafori per lanciare quella strada e noi italiani siamo lì fermi davanti ai cespugli dell’Appennino. Una vergogna vera e propria.

Non solo, nel 2015 arriva l’Expò di Milano. con potenziali milioni di visitatori da dirottare dove se non nelle vicine riviere liguri, una vera manna che rischia di cadere altrove, se la Liguria rimane scollegata. Quattro anni non bastano certo per bucare l’Appennino, oggi i tempi di costruzioni sono eterni. “La Camionale di Mussolini tra Genova e Milano, la famosa Serravalle è stata costruita in tre anni e mezzo a colpi di picco e pala “ _ urlano quei vecchi genovesi, alludendo all’autostrada tutta curve e gallerie che scende da Milano a Genova e paragonandola a questa nuova linea ferroviaria da scavare con talpe e altre diavolerie moderne, ma da completare sfidando eserciti di ambientalisti e comitati stile val di Susa, in tempi biblici.

I guai di Genova, quelli che spingono il presidente Merlo a accelerare, con la megalapoli dalla Lanterna alla Madonnina sono anche altri. La città in dimagrimento non riesce a far decollare nessuna delle sue decisioni di sviluppo, sotto la guida della signora sindaco Marta Vincenzi, abilissima a stare sulla scena complicata di un primo cittadino al quale il Governo taglia da tutte le parti i finanziamenti, ma bloccata operativamente.

Non partono i lavori della Gronda, la supertangenziale che dovrebbe collegare tutte le autostrade che si attorcigliano intorno alla città e al porto, della quale la Vincenzi ha fatto discutere la città in un clamoroso debat public durato un anno e approdato a zero, se non alla “democratica” condivisione dei problemi.

Non si decide neppure dove costruire la Moschea mussulmana che pure Genova aveva nel 1300 e che ora nessun quartiere accetta. Non partono i lavori dell’inceneritore o degassificatore o come diavolo chiamarlo, che dovrebbe bruciare la rumenta genovese e ligure, per ora accatastata in una montagna che troneggia sotto il santuario della Guardia.

Ci si scanna da mesi per stabilire dove costruire il secondo stadio del calcio di Genova, che il presidente sampdoriano Riccardo Garrone vuole a tutti i costi, ma che non si sa dove erigere. Avevano perfino tirato su l’ipotesi di mettere il nuovo impianto vicino all’aeroporto Cristoforo Colombo(altra croce genovese, 23esimo nella classifica italiana per traffico e passeggeri) ma quelli dell’ Enav si sono ovviamente opposti.

Gli amministratori genovesi non riescono neppure a iniziare il rifacimento di uno stabilimento balneare in Corso Italia, la Promenade des Anglais dei genovesi, il “mitico” Lido, dove impazzava Rosanna Schiaffino futura sognora Falck, negli anni Cinquanta, perchè l’Idv di Di Pietro si è messa di traverso…..

Insomma Genova appare strangolata dal suo indecisionismo, assediata dai container sbarcati da un porto in leggera ripresa, invasa da decine di miglia di Tir che arrivano da autostrade collassate ogni giorno e non sa come uscirne.

Poi c’è il Tar, il Tribunale amministrativo regionale che ha riesumato la costruzione nel cuore della città di un megaparcheggio sotto il parco storico dell’Acquasola, un giardino settecentesco considerato intoccabile, capovolgendo vecchie decisioni e alimentando la polemica monstre di fine 2010, insieme con quella della gestione del Carlo Felice.

Il teatro lirico, ricostruito nel 1990 con una enorme torre nel centro città, è attanagliato da una crisi spaventosa: incassa 5 milioni all’anno e ne costa 30. Rischia di fallire aprendo una voragine non solo nei conti, ma anche nel ventre della Superba.

Di fronte a tutto questo il sagace presidente Luigi Merlo deve avere pensato: se non ci salvano i milanesi……

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