Genova, ministri Pinotti e Orlando al call center: Qui Pd…

di Franco Manzitti
Pubblicato il 6 Ottobre 2015 - 08:22 OLTRE 6 MESI FA
Genova, ministri Pinotti e Orlando al call center: Qui Pd...

Roberta Pinotti, al microfono dal call center per salvare il Pd in Liguria

GENOVA – “Perchè non ti sei più iscritto al partito, cosa posso fare per convincerti?”

Una telefonata può salvare la vita, ma in questo caso può anche salvare il Pd genovese e ligure, colpito e affondato dopo le ultime elezioni regionali, vinte dal centro destra di Giovanni Toti, delfino berlusconiano.

E così le telefonate, in questo mese di passione “rossa”, partiranno da autorevoli ex compagni per convincere la base a tornare all’ovile, che poi sono i 17 circoli Pd genovesi, dove la moria di iscritti sta riducendo al lumicino le fila di un partito che quando si chiamava Pci, ma anche Pds e poi Ds e poi ha formato con quattro petali della Margherita proprio il Pd, affiliava decine di migliaia di “compagni”, un vero esercito, disseminato in quella che veniva considerata una città roccaforte per il Partito Comunista, giunto al 43 per cento dei voti, nei gloriosi anni Settanta del berlinguerismo vincente.

Dall’altro capo del filo telefonico , in questa specie di Call Center di “ottobre rosso” niente meno che ministri del calibro di Roberta Pinotti ,titolare della Difesa, una delle star del governo Renzi, impegnata veramente su tanti fronti bellici, al punto che più che Difesa sembra veramente diventata, tra Siria, Irak, tensioni Isis internazionali, terrorismo diffuso, truppe italiane in tutte le aree di crisi e emergenze profughi a largo raggio, una ministra delle Guerre o di quella “terza guerra modiale” della quale solo papa Francesco ha il coraggio di parlare. E ovviamente anche l’altro ministro ligure, l’impegnatissimo Andrea Orlando, il Guardasigilli, titolare di Grazie e Giustizia è chiamato al telefono.

Ve li immaginate la matronale Pinotti, oramai ospite fissa di tantissimi talk show, dove ora il suo stile si è affinato, virando verso una sobria ed austera competenza “militare” e lo sfuggente Orlando, nella stanza del call center a cercare di strappare iscritti che stanno stracciando la tessera Pd o a convincere neofiti, aspiranti, a compiere il gesto di affiliarsi?

L’idea geniale deve essere venuto al commissario Pd per la Liguria, scelto personalmente da Matteo Renzi per rimettere su una linea accettabile di galleggiamento il partito sbandato dopo il naufragio delle regionali. Si chiama Denis Ermini, è, ovviamente, toscano e l’hanno nominato da due mesi. Arriva a Genova o in Liguria tutti i lunedì e cerca di districare la matassa di un partito che non riesce a metabilizzare la sconfitta. Un gruppo di duecento militanti, il nocciolo duro della “guardia storica” si è già schierato da tempo contro i vertici attuali del Pd, in testa AlessandroTerrile, il segretario provinciale, un avvocato che ha già fatto il passo doble, dimettendosi e poi ritirando le dimissioni e ha chiesto, questa diaspora, di poter discutere a fondo i perchè della sconfitta.

Questo significava chiamare direttamente in causa Raffaella Paita, la candidata della débacle, e il suo sponsor numero uno, l’ex presidente della Liguria, Claudio Burlando. Ma mentre lei non ha mai smesso la battaglia e praticamente senza fare autocritica si è fatta nominare capogruppo del Pd in Regione ed ogni giorno cerca di intervenire nel dibattito politico-amministrativo, scambiando l’apparenza per la sostanza, Burlando dopo una lunga vacanza nei boschi dell’Appennino ligure, a caccia di funghi e al tavolo dello scopone, è politicamente un desaparecido.

Così i duecento da una parte e il commissario dall’altra sembrano gli unici soggetti di un partito che si assottiglia giorno per giorno. Gli iscritti che nel 2013 erano settemila, nel 2014 sono diventati tremilacinquecento e nel 2015 il tesseramento annaspa intorno ai mille.

E per forza! La batosta delle regionali non è solo una sconfitta per la quale per la seconda volta dal 1970, anno di fondazione delle Regioni, la Liguria è passata decisamente alla Destra di Lega Nord, Forza Italia e Fratelli d’Italia, più Area Popolare. La sconfitta di fronte al delfino di Berlusconi, paracadutato in Liguria settanta giorni prima dal voto, arriva dopo la catastrofe delle Primarie del centrosinistra vinte dalla Paita su Sergio Cofferati, il “cinese”, ex segretario Cgil e sindaco di Bologna, oggi europarlamentare.

Con quel voto “interno” la storica sinistra zeneise si è prodotta più danni di quanti qualsiasi sconfitta esterna avrebbe potuto scatenare: con l’invito a votare anche ai nemici della Destra, anche quelli più beceramente schierati nell’ ala estrema, compresi ex fascisti di chiara fama, l’establisment burlandiano, ha annichilito tutta la vecchia tradizione della ex roccaforte rossa nel segno labile del futuribile “Partito della Nazione”.

Come è arcinoto Cofferati ha strappato, uscendo dal Pd, poi in corsa nelle elezioni è entrato Luca Pastorino, deputato civatiano, iscritto al Pd, sindaco di Bogliasco, sfidante da sinistra alla stessa Paita.

Con queste diaspore e con l’esito elettorale il Pd si è frantumato completamente. Per questo oggi deve ricorrere ai call center per conquistarsi almeno una dignità di ruolo nel panorama tumultoso della Liguria e soprattutto di Genova.

Siamo alla vigilia di dee elezioni chiave, sia a Savona nel 2016 che a Genova nel 2017, dove dovranno essere eletti i sindaci. L’ uscente a Savona è Federico Berruti, Pd renziano della prima ora, un po’ ondeggiante dopo avere tentato di correre alle regionali. Non è più rieleggibile, avendo concluso due mandati e la caccia al successore candidato è difficile anche perché in Liguria le Primarie sono oramai sfiorite completamente e non c’è la forza per scegliere all’interno di un partito dilaniato. Né c’è la forza per convincere qualche esterno, della cosiddetta società civile a tentare la corsa contro due spauracchi, quello di una destra rianimata dalla vittoria di Toti in Liguria e dei grillini, rimontanti ovunque.

A Genova l’elezione è più distante, e il sindaco Marco Doria potrebbe anche tentare il secondo mandato, soprattutto se scende il campo il suo orgoglio nobiliare, ma la posizione del sindaco che regna da tre anni e quattro mesi, appunto il marchese-rosso, Marco Doria, è difficilissima.

Anche lui è stato il frutto, nel 2012 della sua elezione, di Primarie avvelenate, da lui clamorosamente vinte contro le due candidate del Pd, la stessa speaker dei call center di oggi, Roberta Pinotti e la sindaco uscente, Marta Vincenzi.

Correndo da indipendente Doria, erede della nobile famiglia dell’ammiraglio Andrea Doria, conquistò il trono genovese, affondando il Pd che poi è stato costretto a difenderlo e a sostenerlo, malgrado profonde divaricazioni nel programma stesso di governo della città. Inizialmente poco comunicativo, un po’ rigido nelle sue posizioni, anti grandi opere di infrastrutturazione della città, distante dall’imperatore Burlando, allora presidente della Regione e padrone assoluto del partito. dopo l’uscita di scena delle due zarine sconfitte, Doria ha sempre governato su un filo del rasoio o se vogliamo su una forbice che si allargava, separandolo dai nuovi dirigenti del Pd, il giovane Terrile e poi il commissariando segretario regionale Giovanni Lunardon.

Le scelte chiave per Genova, boccheggiante nel suo destino post industriale, hanno sempre visto il marchese rosso e i democrat in posizioni se non contrapposte diverse. Sul risanamento della società partecipata che si occupa di rifiuti, l’Amiu e sul salvataggio dal sicuro crak di quella dei trasporti, l’Amt, il sindaco è stato assediato, contestato, perfino dileggiato dai lavoratori imbufaliti da tagli e delusioni programmatorie. Il Pd lo ha debolmente difeso, anche se sorretto, in uno scenario cittadino sempre più teso, da ultima spiaggia con il palazzo comunale assediato e la sala del consiglio perfino occupata. A questo si era arrivati sfiancandosi nella partita di una grande infrastruttura che dovrebbe impedire a Genova di soffocare per il traffico in uscita dal porto, la famosa Gronda, una supertangenziuale che il Pd vuole e sulla qualeDoria ha ondeggiato a lungo, prima di accettarne qualche soluzione un po’ più addolcita territorialmente. Il braccio di ferro tra il primo cittadino e il partito della maggioranza cittadina e governativa ha sfibrato la città e continua a offrire la sensazione di una giunta inconcludente, che non lascia alcun segno.

Doria, nobil signore, professore di economia alla Università genovese, era stato votato, malgrado il suo timbro di ultrasinistra, un passsato Pci e poi Sel, anche da qualche strato dell’alta borghesia, sensibile al fascino di quel cognome che, risalendo indietro di trentadue generazioni, arrivava al mitico Andrea Doria e a una tradizione forte nella società genovese.

Anche il padre di Marco Doria, Giorgio, grande storico e amministratore politico, vice sindaco per il Pci negli anni Settanta, aveva un ancora più marcato timbro di sinistra. Ma i Doria a Genova sono i Doria, sono “padroni” di grandi fortune immobiliari, abitano palazzi tra i più belli del mondo, patrimonio dell’Unesco, hanno quel tratto che non inquietava la silenziosa e solida borghesia delle palanche, degli scagni, degli ex armatori. Insomma meglio un Doria, anche se schierato tutto a sinistra, “perchè lo conosciamo”, che un poco affidabile concorrente sindaco anche espresso dalla destra.

Questo patrimonio di iniziale appoggio, che mixava il consenso obbligatorio del Pd a quello personale di frange moderate e borghesi si è dissolto in tre anni. E si sono incrinati tutti e due i pilastri di sostegno. Il Pd, spazzato dalle sue fole contradditorie, dopo gli spadroggenamenti di Burlando e della Paita, che agivano su Doria con il passo di un Protettorato politico, dall’alto della Regione sul Comune, ha sempre tenuto in discussione il “suo” sindaco, fino al punto di mollarlo in bando, ogni tanto, come in porto si può fare, se scappa la cima che assicura una barca a un approdo solido. E l’altro pilastro, del consenso più diretto e personale, si è spezzato per la mancanza di risultati concreti, quelli che, appunto, una borghesia solida si aspetta.

Nessun passo avanti o quasi nell’operazione di spostamento sulla collina degli Erzelli del più avanzato centro di high tech in Italia, un mix di imprese, start up, insediamenti universitari, insomma lo scenario dell’era post industriale. Stand by, quindi, per un rilancio imprenditoriale. Decisioni vaghe o indecisioni totali sul nuovo ospedale da costruire a Ponente, su un nuovo stadio di calcio, spinto dalla famiglia Garrone, sulla moschea islamica, attesa e promessa da un decennio, passi da lumaca per la metropolitana che a Genova comprende una sola linea lunga neppure dieci chilometri. Unica luce nel buio i disegni di Renzo Piano per collegare il porto Antico con la Fiera del mare, oramai agonizzante, croce e calvario dell’amministrazione comunale, costretta a farsene carico dopo un crak non dichiarato ma effettivo.

Come sempre a Genova, se non si sa come procedere, si chiede a RenzoPiano un bel progetto e di quello si parla per qualche anno. E qui anche Doria, l’austero e il sobrio ci è caduto. E ha sposato il Blue Print, un mini water front della costa genovese.

Per tutti questi motivi il Galeone del sindaco, partito tre anni fa con qualche speranza, sotto una bandiera arancione, la stessa di Pisapia e in qualche modo di De Magistris, sindaci più o meno coevi, è entrato nella tempesta. E il Pd che manovrava le vele ha incominciato a vacillare nel sostegno e a cercare un’altra rotta.

Oggi Doria sta in piedi solo perchè il Pd, per quanto commissariato in Regione e in pieno trip post sconfitta, sa che una caduta del sindaco e una elezione anticipata potrebbero aprire la strada all’incubo numero uno: consegnare Genova, la superba, la città di Beppe Grillo proprio ai grillini. Pensate che beffa e che successo per il “Giuse”, che sotto i baffi e la barba osserva la scena dalla collina holiwoodiana di Sant’Ilario! E se non fossero i Cinque Stelle a conquistare Genova potrebbe essere il nuovo centro destra autoctono che si sta creando all’ombra di Toti delfino e della sua giunta giovane e magra (nel senso che ci sono solo otto assessori). Mentre Forza Italia zoppica, i suoi storici leader liguri Claudio Scajola e Gigi Grillo hanno avuto i loro guai e non calcano più la scena, in Liguria lo scenario è diverso. La Destra appare per la prima volta con i giochi in mano: se azzeccasse un candidato sindaco!

E allora nel Pd vai con Ottobre Rosso e vai con il call center per trovare i nuovi piddini. Chi l’avrebbe mai detto che proprio qua la speranza si inabissa con Ottobre Rosso, nome del famoso sommergibile dell’omomimo film di successo, Sean Connery comandante URSS che sceglie di consegnarsi agli americani? Qui i democrat si consegnano a un call center.