Genova muore di Tar. L’aristocratico Yacht Club contro Piano

Genova muore di Tar. L'aristocratico Yacht Club contro Piano
Carlo Croce, presidentedello YCI di Genova, contro Renzo Piano

GENOVA – Parquet di legno, poltrone e divani di cuoio, passiere rosse, un terrazzo proprio affacciato su un mare di barche a vela, un ristorante esclusivo e dallo stile anglosassone, divieto assoluto di tenere il cellulare acceso e, intorno, il suono dolce delle scotte e delle dritte degli yacths più belli che tintinnano al vento: eccolo qui la sede dello Yacht Club Italiano, l’oggetto dell’ultima grande contesa genovese ed anche il vascello Bounty dell’ ammutinamento contro questa nobile costruzione genovese che si oppone all’ultimo progetto di Renzo Piano, definito Blue Print, per collegare il porto antico alla Darsena della Fiera del Mare.

Non è un vascello ma un palazzotto old style il luogo dove sono annidati gli ammutinati. E’ la sede storica del più antico Yacht Club d’Italia, uno dei più vecchi al mondo, nato nel 1879, sigla mitica YCI, Yacht Club Italiano, quello per entrare nel quale ci vogliono quarti di nobiltà da sangue blu, da alta borghesia, da grande capacità marinara-velica e se non ce le hai, alla votazione d’ingresso ti fulminano con le palline nere che cancellano quelle bianche, a botte di una che ne abbatte tre.

Gianni Agnelli, ovviamente, entrò con il vento in poppa delle palline bianche negli anni trenta, più recentemente qualche bel nome dell’armamento genovese si è beccato le palline nere ed è rimasto fuori dal Club.

Gli ammutinati stanno oggi sulla tolda-parquet dello Yacht Club, schierati contro il proprio presidente, Carlo Croce, grande famiglia genovese, figlio di Beppe Croce, intimo di Jhon Kennedy, un mito della vela mondiale, che presiedette, così come la governa oggi questo signore elegante, snob al punto che durante il primo governo Berlusconi, lui e un gruppo ristretto, e molto blasè, di amici indossavano una cravatta nera tutti i giorni per manifestare la loro distanza da quel premier un po’ grossier, nello stile e nel percorso sociale da parvenù.

Lo Yacht Club si è opposto con un clamoroso ricorso al Tar della Liguria al progetto di Renzo Piano Blue Print insieme con altri nobili circoli nautici, remieri, canottieri della Lega Navale, dell’ Elpis, del Rowing, ed anche di pescatori che abitano in questa area genovese sul mare, con alle spalle la collina di Carignano, altro quartiere residenziale di ampi viali, residenze eleganti, una popolazione prevalentemente borghese o sommamente borghese, com quella che abita la villa principesca della famiglia Puri, inparentata Pirelli, che con le sue bifore domina dall’alto le vele dello Yacht.

Il Blue Print, che Piano ha regalato alla sua città, dopo avere già cambiato e inventato la zona del porto antico in occasione del 1992, anniversario di Cristoforo Colombo, sfratta quelle barche, quelle canoe, quegli armi a due, quattro, otto remi, quelle canne da pesca, dalle loro darsene custodite da oltre un secolo, proprio a ridosso dell’ingresso del grande porto genovese, neppure un miglio dalla sede del Salone Nautico dei tempi d’oro.

In teoria le sedi, compresa quella altolocata dello Yacht, che ha 1100 soci nel mondo, 280 posti barca in mare e settanta a terra e paga una concessione demaniale di 6o mila euro all’anno, potrebbero restare lì o subire traslochi non catastrofici, ma le barche no, perchè la matita di Piano ha cambiato il terreno ed ha previsto demolizioni e soprattutto riempimenti del mare, per dare sfogo all’industria delle Riparazioni Navali, che ha i suoi cantieri proprio lì e che ha bisogno di grandi bacini, dove piazzare le navi da “curare” e i mega yacht da costruire.

Ci sono industrie come la San Giorgio del Porto, la Mariotti, per le quali è essenziale avere spazi maggiori dove lavorare e far fiorire un business nel quale i genovesi sono maestri, hanno una tradizione primogenita e che porta ancora business.

“Se non ci fanno allargare, allora chiudiamo e ci trasferiamo a Marsiglia, ha tuonato Marco Bisagno, ad della Mariotti, ex presidente di Confindustria Genova, uomo forte del fronte delle Riparazioni Navali, quando si è sparsa la notizia dei ricorsi al Tar.

Non a caso il cadavere in demolizione della Costa Concordia lo stanno spolpando proprio in un bacino laterale al possibile riempimento e, insieme alla nave da maxicrociere della vergogna italiana, in lavorazione c’è una altra grande nave della Saipem, una trivellatrice per operare sulla quale hanno costruito una torre altissima, che ha sfondato lo sky line genovese, proprio sul muso di Carignano.

Il diktat del Comune, dell’Autorità portuale, del sindaco Marco Doria e del presidente portuale Luigi Merlo è di realizzare il Blue Print e di rilanciare le Riparazioni: Piano li ha serviti, disegnando un sistema di canali, di vie d’acqua e di terra che riscatti la colata di cemento sulle vecchie e nobili darsene e che ridia un altro fiato al defunto quartiere espositivo della Fiera del Mare, collegandolo con la zona dell’Expò nel porto antico.

Giù il grattacile dove nacque il nucleare dell’Ansaldo, la torre della Nira, via le piccole darsene dei circoli, canali perfino nella pancia del vecchio Palasport, trasformato dal genio di Piano in un palazzo con il primo piano liquido: il Blue Print cambierebbe, al prezzo di qualche decina di milioni di euro, la faccia di Genova a Levante.

Ma l’ammutinamento che è scattato nella nobile sede dello Yacht, dopo i ricorsi e il blocco di tutto in attesa dei verdetti del Tar, prevede lacerazioni profonde su un tema del quale a Genova si parla da quaranta anni, ogni qual volta c’è un progetto che riguarda, appunto, il porticciolo Duca degli Abruzzi, così si chiama la darsena dello YCI.

Da quaranta anni chi mette le mani in quella zona immagina di mandar via le barche e i soci di quella istituzione quasi sacra nella marineria, non solo italiana, ma mondiale. Non sarà un caso che il presidente è, appunto, anche il leader della vela mondiale, un personaggio che ha influenza in ogni Continente e che impersona un certo stile universale di andare per mare con le migliori barche a vela che esistano, dalla baia di Sidney, a Hiannys Port, ai circoli esclusivi della Gran Bretagna, alla costa francese e via, al duro Nor europeo della Norvegia, della Svezia, tirando fiocchi e strambando rande in questo mondo esclusivo e molto competitivo.

Per quelli dello Yacht lo sfratto è come un sacrilegio, non solo perchè tocca il loro cuore velico e storico, ma anche perché giudicano l’operazione inutile: riempire l’acqua delle loro barche di cemento e trasformarla in un cantiere di riparazione non serve, anzi è uno spreco.

Ma ecco l’ammutinamento, perché per la prima volta questa diatriba tra Genova portuale, industriale e marittima e la sua crema velica, tra un ceto politico amministrativo operaistico, anche se oggi post industriale e i blazer blu, le bandierine, gli stemmi blasonati, i trofei di tante regate, di piccole e grandi competizioni in ogni mare del mondo, svela divisioni e contrasti interni e spacca la città del mare e della vela stessa.

Non solo gli ammutinati dello Yacht, ma anche quelli interni al Club che giudicano un gravissimo errore ricorrere al Tar e bloccare con il ricorso un processo di cambio della città. A muoversi per prima è stata Confindustria Genova, che ha sparato a zero sul ricorso, schierandosi a favore del progetto di Piano e dell’industrializzazione di quella fetta di costa genovese.

Il presidente Giovanni Zampini, che è anche ad di Ansaldo Energia, ha criticato il blocco giudiziario, che ferma un’espansione della politica industriale. Ma le spaccature, come strappi di vela in piena regata, si sono rivelate anche all’interno riservatissimo del Club, che ha una infinità di illustri soci, a partire da Piero Ottone, il grande giornalista-velista, già direttore de “Il Corriere della Sera”, che ha dichiarato:

“Non frequento da qualche tempo il Club, ma sono perplesso rispetto alla decisione di ricorrere ed escludere ogni discussione: a Londra molti circoli hanno cambiato sede, senza certo perdere l’identità.”

Si sono levate altre autorevoli voci di dissenso contro Carlo Croce da soci storici, come Davide Viziano, noto costruttore e figura pubblica di primo rilievo in città:

“Sto valutando di dimettermi dal Club per protesta contro questa decisione”.

Anche Alfonso Clerici, notissima famiglia di big della portulità, dello shipping e del trading commerciale internazionale, ha criticato l’arroccamento dello Yacht.

Croce, infatti, ha assunto la classica posizione genovese di fronte alla novità questa volta portata avanti sulla punta della matita dell’archistar per eccellenza, Renzo Piano, decidendo univocamente dall’alto, senza discussione nell’assemblea del Club, di sparare il ricorso che frena violentemente la corsa del Blue Print.

Sembrava un progetto destinato a correre, perché sopra galoppava l’unica grande novità di una città ripiegata su se stessa, senza idee per il futuro, senza orizzonti, con tutti i grandi progetti al palo, con i soli cantieri di copertura e scolmameento dei fiumi e dei torrenti in chiave anti alluvionale aperti nella città.

Correva, il Blue Print, perchè ci scommetteva un uomo prudente, un timoniere attento a non toccare quasi nulla della pelle della città, come il sindaco Marco Doria, l’erede della storica dinastia.

E, invece, ecco la frenata che mette in discussione tutto lo scenario.

È come se intorno al porticciolo della discordia si sia attrezzato un fortino nel quale resistere con il rinforzo delle tribù più piccole, quelle degli altri Circoli, come quello dell’Elpis, potente e storica associazione che ospita imbarcazioni di ogni tipo. Il suo presidente, Pietro Dagnino, figlio di un indimenticabile leader della Dc che fu anche presidente della banca Carige, spiega che l’opposizioine con il ricorso è una mossa per cauterlarsi rispetto a un progetto che, per ora non offre garanzie per gli “sfrattati”:

“Il timore è che ci siano tante belle idee come in passato ma che poi non si realizzi niente. Con il rischio per noi di perdere tutto per niente, di avere gettato via cento anni di storia.”

La battaglia va avanti a colpi di scena quotidiana. Il presidente dell’Autorità portuale, Luigi Merlo, agli ultimi giorni del suo mandato, ha lanciato un ultimatum di tre giorni a quelli di fort Apache, chiedendo un confronto. Non gli hanno neppure risposto, anche perché l’oggetto del ricorso è proprio l’Autorità Portuale.

Il sindaco ha garantito che ci saranno adeguate contropartite, nuove sistemazioni, con maggior numero di posti barca. Ma gli ammutinati non si fidano, paseggiano facendo crocchiare le suole sui parquet di legno del circolo, annusando il vento di macaja che grava su Genova in questo novembre estivo e umido. La parola-chiave, che fischia tra gli alberi delle barche dondolanti nello specchio acqueo, è quella che simboleggia lo status quo zeneise: “maniman”.

Maniman in questo caso vuol dire qualcosa di intraducibile, ma perentorio: se cediamo ci spazzano via per sempre, se resistiamo le cose restano come sono e intanto quelli non faranno niente. E il Blue Print farà la fine dell’altro grande progetto che Renzo Piano disegnò nel 2006 per Genova, immaginando tutto il suo nuovo water front. I disegni e le mappe di quel maxi progetto sono sepolte in secula seculorum nella bacheca del Museo del Mare, a Genova. Maniman.

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