Diciotto mesi dopo passo di nuovo sotto il ponte. Non si chiama più Morandi,come quello maledetto, crollato quel tragico 14 agosto 2018, portandosi dietro 43 vite, la distruzione, la città di Genova spezzata, infiniti dolori, sofferenze, fallimenti. Passo sotto il nuovo ponte in costruzione in via Fillak, nome di un martire eroe partigiano e di antica strada, chiusa per mesi, desertificata e oggi un fulgore di cantieri h 24, ragazzi in tute gialle, caschi bianchi, operai, ingegneri, trasportatori, designer, camion, putrelle lunghe decine di metri, “conci”, come li chiamano, di ferro scintillante, pronti per essere portati lassù, a 40 metri di altezza, a comporre come un gigantesco puzzle lungo 1067 metri, largo più di sessanta, alette comprese.
Passo sotto le campate tirate sù in tempi rapidissimi in macchina e mi sporgo per vedere l’effetto che fa questo ponte così diverso da quello di prima, che poggiava sui tetti delle case di via Porro, che oggi non sono neppure più cumuli di macerie, ma solo qualche alito di polvere, che fila via dietro le ruote dei camion, che come formiche entrano e escono dal maxi cantiere.
Passo anche a piedi, lentamente, prima sotto gli alberi della via Fillak, dove anche il benzinaio chiuso per quattordici mesi, ha riaperto e poi sotto il tetto del nuovo ponte e sento il ronzio ininterrotto del lavoro che non si ferma mai, quando nelle orecchie ho ancora il silenzio di un anno fa, il senso di morte di quelle strade, via Porro, la cui vita era tagliata in due, di qua chi ancora abitava case rimaste come avamposti perduti verso il vuoto del pezzo di ponte caduto e di là le case abbandonate, con ancora le tendine alle finestre, i fiori secchi sui davanzali, la sentenza di morte che ci pendeva sopra, sotto le grandi arcate del Morandi moribondo, spezzato.
Ora la maggior parte di quelle case non c’è più.
Le hanno sbriciolate con gli esplosivi e le ruspe e ogni tanti vedi qualche abitante o ex abitante che viene qua, a debita distanza, e guarda in lacrime il vuoto della sua ex casa, che ora è un cantiere in fibrillazione o un pilone già piantato o una trave che gli “strand jack, gli argani ultramoderni, tirano su verso il cielo.,
I piloni del nuovo ponte, che chiameranno con la maiuscola “Ponte di Genova” o chissà come, sono lisci, bianchi, secchi e precisi nel loro svettare, sprofondano per 40 metri nella terra martoriata della Valpolcevera e poi saltano su per accogliere quella chiglia di impalcato che Renzo Piano ha disegnato come il pezzo di una nave e dentro ci saranno tre corsie di qua e tre di là.
Lui, l’archistar che ha disegnato e che detesta chi lo chiama così perché dice che il suo titolo più amato è quello di geometra, il mestiere più bello che ci sia, visita il grande cantiere, tocca i piloni, quasi li accarezza, controlla la curva della chiglia.
Il geometra misura la terra e le cose che ci si mettono sopra, tira le righe, decide gli spazi, quello è un lavoro nobile. E così il “geometra” Renzo Piano, in questa giornata un po’ grigia, un po’ ventosa, cammina là sotto, lungo tutto il cantiere, che spazia da una parte all’altra della Valpolcevera e misura la terra, il cielo, i pezzi del suo ponte, che stanno montando, con in testa il suo casco bianco, la barba bianca e quell’aria dinoccolata, un po’ da capitano Achab che va alla sua battaglia.
Ma qui la battaglia non è cacciare la balena bianca Moby Dick, ma finire il ponte, disegnato da lui, costruito da Fincantieri, Italferr, Salini e Impregilo, controllato dai certificatori del Rina e montato da questo esercito di 1500 operai, ingegneri, tecnici, che non si ferma mai e che lavora con le mani, con i motori, con i computer, con i droni dall’alto, in una specie di miracolo.
“Per fare un ponte così in Giappone ci abbiamo messo tre anni, questo lo finiamo in meno di uno“, ti dice Renzo Piano, mentre cammina con i giornalisti, guardando un po’ in basso e un po’ in alto. “ In una città dove si sanno costruire le navi, vuoi che non sappiano fare un ponte. In una città così si sa costruire tutto….” dice il capitano Achab, il geometra, il grande architetto, che forse mai si è identificato in un’opera come in questa, nel cuore sanguinante della sua città, ai confini dei quartieri dove viveva la sua famiglia.
Là nel centro della valle stanno per tirare su il pezzo più lungo finora issato, quello che coprirà una parte del buco aperto con la tragedia, 100 metri di “concio”, quasi duemila tonnellate di peso, alzate lentamente, con la stessa velocità con la quale un anno fa stavano incominciando a calare i pezzi rimasti del vecchio Morandi nell’opera di distruzione che, pezzo per pezzo, svuotava il cielo della Valpolcevera, lo rendeva nudo, in qualche modo ancora più ferito.
Ora quel cielo si sta riempendo di nuovo, con questo pezzo la metà del ponte è in piedi. Entro la fine di marzo sarà tutto in piedi, da Ponente a Levante, dove metteranno una grande bandiera di Genova a sventolare, croce rossa in campo bianco, come a dire: attenzione, questo è quello che i genovesi sanno fare.
Prudente Piano aggiunge : “Alla fine di giugno, e io spero il 21 di giugno, la data del Solstizio d’estate, incominceremo a vedere qualcosa……”
Cosa vuol dire “vedere qualcosa”? Significa che a quella data il ponte sarà percorribile interamente in tutta sicurezza o già che sarà collegato alla rete autostradale, che da 18 mesi è mozzata, con quella voragine in mezzo a tutta la Valpocevera, da Ponente l’autostrada interrotta a dieci metri dall’ultima galleria e da Levante, sotto quella bandiera di orgoglio genovese, il salto nel vuoto dopo i raccordi spettaccolari rimasti ciechi, dietro la barriera della chiusura per chi arriva dal supercasello di Genova Ovest?
Piano cammina passo dopo passo oltre via Fillak, seguendo come Pollicino il percorso dei lavori, solo che qui i sassi lasciati come indicazione sono i piloni, i pezzi del ponte posati da giganteschi autocarri, da immense gru, da trasporti eccezionali che hanno riempito notte tempo di un traffico inconsueto e incredibili le strade: dal porto dove sbarcavano questi immani pezzi di acciaio scintillante, lucidati come se fossero l’argenteria di casa e non i pezzi del Grande Ponte, i piazzali frenetici di lavoro.
Arriva Piano fino alla Certosa, il quartiere più colpito dalla tragedia. Ha misurato lo spirito di chi lavora al “miracolo di Genova”, scoprendo, come spiega in una intervista a “Il Secolo XIX”, che “ si sentono tutti genovesi”, che molti vengono da lontano, ma si sentono parte di questa città, del suo sforzo di risollevarsi, facendo leva su quelle travi, su quei piloni, su quei conci, sulla precisione ergognometrica con la quale ilgrande puzzle si compone e ora approda nel luogo dove suo padre lo portava a passeggiare da bambino, perchè era il suo quartiere di origine, dove ora arriva la metropolitana, stazione di Brin, da Piano architetto disegnata, dove il crollo aveva lasciato il segno più forte di separazione, di spezzettamento della città, con via Fillak interrotta, i negozi, la grande zona commerciale prosciugati dal mancato passaggio di mezzi e di uomini, in una desertificazione commerciale e umana che per certi mesi sembrava quiasi cimiteriale, con decine di saracinesche abbassate, il crollo degli affari, la chiusura delle ditte e quella terribile sospensione nel vuoto.
Genova di là, noi di qua, schiacciati dal traffico impossibile e deviato. Il tutto riassunto nella assemblee disperate nel cortile-chiostro della chiesa di San Bartolomeo della Certosa, dove i preti venivano a predicare la mobilitazione contro i ritardi delle autorità, dove il cardinale di Genova Angelo Bagnasco veniva a prendere i fiori da gettare nel Polcevera per celebrare, mese dopo mese, l’anniversario da quel 14 agosto, l’estate, l’autunno, l’inverno del grande dolore, sotto il ponte spezzato a metà, che sembrava quasi un Cristo in croce.
Ora Certosa rivive anche nei sorrisi che la gente fa davanti alla passeggiata di Piano: c’è chi lo ferma, chi lo saluta, chi lo incita. Ora non è più Pollicino o il capitano Achab, è come un Mosè che faceva attraversare il mar Rosso.
Qui si attraversa la valle dei dolori, delle sofferenze dei blocchi, della città spezzata che si sta ricomponendo un pezzo dopo l’altro, come se i conci di metallo saldati in alto con le alette che sporgono a 40 metri di altezza fossero i pezzi di un grande paesaggio che si ricompone.
E allora ti sembra che come una nuova vita sia ricomparsa a Certosa, nelle vie Jori e Canepari, quartiere di Rivarolo, che percorrevi mesi fa quasi segnandoti per come sembrava una terra separata, appunto quel cimitero di negozi, di aziende, di traffico, perfino di passanti che sfilavano quasi rasente ai muri. Oggi perfino i negozi sembrano più ricchi di merce e colorati, cataste di frutta sui marciapiedi, il macellaio che espone i suoi pezzi pregiati appesi ai ganci, perfino i pesci luccicanti nelle pescherie, arrivati dal mare che sembrava irraggiungibile e ora, se ti affacciassi dal nuovo Ponte, lo vedi lì.
Se guardi verso via Fillak non c’è più quel senso della barriera chiusa di Sampierdarena, non più raggiungibile se non con un giro di chilometri e chilometri, su e giù per una valle strangolata dalle code, dalle vie chiuse, da quel senso spezzato di un ponte levatoio che si è alzato e non passi più, non ce la fai più a circolare per andare in ufficio, ci metti ore e ore e i bambini per raggiungere la scuolasi devono svegliarsi un’ora prima.
Certo, ora passo anche io a piedi o in auto lungo via Fillak e guardo in alto la perfezione lucida del pavimento del sottoponte, dove passare era come attraversare un inferno, un dolore mai sopito e mi chiedo come il miracolo sia stato rapido.
Tutti aspettano che salga quel pezzo da cento metri, cui seguiranno gli altri, uno dopo l’altro, fino a completare, con le saldature, i 1067 metri dell’intero tratto. Poi ci sarà un altro ponte, molto diverso da quello sbriciolato il 26 giugno dalle cariche di esplosivo, in un boom totale, che resterà negli eventi “storici” della città, davanti al quale la gente piangeva dal dolore della scomparsa totale di quello che chiamavano “il nostro ponte di Brooklin” o dalla speranza che un altro ponte fosse costruito presto, più presto possibile.
Ora, come ha promesso davanti a ogni disagio e difficoltà, il sindaco commissario Marco Bucci, il nuovo ponte lo vedi e lo misuri e lo traguardi.
Ma non per tutti è il segno della riscossa, della speranza, di un nuovo orizzonte che si apre. I parenti delle 43 vittime, le cui lacrime non si esauriscono, hanno dichiarato che loro lassù non ci vogliono salire. Non vogliono percorrere la nuova strada, che ha preso il posto di quella che ha inghiottito i loro cari.
Non vogliono salire in quel cielo, nel punto in cui, sotto le ruote delle auto dei furgoni, dei camion sui quali viaggiavano i loro figli, padri, madri, si è aperta la voragine assassina.
Il ponte nuovo, il Ponte di Genova, scintilla nel cielo di febbraio, incarna l’orgoglio dei genovesi, ma non cancella i dolori, il lutto e non risarcisce dei danni, dei crak economici, degli enormi disagi che Genova e la Liguria stanno ancora pagando.
La Società Autostrade promette ancora risarcimenti, sconti, chiede perdono, nonostante i Benetton, le polemiche, la infinita trattativa sulle concessioni, ma la partita è ancora tutta aperta.
Basta affrontare un qualsiasi viaggio sulla rete genovese, sui suoi 500 viadotti, dentro le centinaia di gallerie, dove il traffico è interrotto continuamente da cambi di corsia, da chiusure, da stop scarsamente spiegati, da deviazioni improvvise, da code di ore e ore, per misurare ancora la rabbia.
Allora passi sotto il nuovo ponte, a piedi, in macchina, ti compiaci, ma lo prendi come un piccolo risarcimento. Qui la battaglia non è per niente finita.