Genova. Pesto al Botulino, altra pugnalata dopo Jolly Nero, alluvione, industria

Genova. Pesto al Botulino, altra pugnalata dopo Jolly Nero, alluvione, industria
Pesto al botulino: per Genova una nuova pugnalata, ma solo l’ultima

Il pesto no, non si può accettare di essere traditi dal marchio genovese più noto al mondo, dall’alimento-condimento basico che oramai è senza frontiere e con quel gusto unico, quel sapore che se sgarri la combinazione di basilico, olio, pinoli e tutti gli altri segreti, sfori nel troppo dolce o nel troppo aspro e magari sbagli anche il colore.

E chi te lo concede di sbagliare: un genovese con il pesto fasullo è meno genovese e dovunque, se incontri uno che è stato a Genova ti chiederà del pesto come ai napoletani chiedono della pizza e ai milanesi del risotto…

No, essere traditi dal pesto, dai vasetti confezionati con il sospetto del botulino come sta accadendo in questi giorni a Genova, è una specie di nemesi storica in una difficile estate del 2013 ai piedi della Lanterna.

Quei 14.872 vasetti del pesto di Prà ( la delegazione genovese che coltiva il basilico stradoc) del famigerato lotto 13 G03, prodotto dall’azienda “Bruzzone e Ferrari”, hanno creato una psicosi travolgente, un centinaio di casi finiti al pronto soccorso, un paio di ricoveri precauzionali, ma nessuna prova certa, nessun allarme sicuro che in qualcuno di quei vasetti ci fosse la tossina “clostidrium”, vulgo botulino. E da parte della Regione responsabile della salute pubblica gli annunci sono molto tranquilizzanti: controllate solo il numero del lotto sul vasetto che avete in casa, ma non temete……

La paura fottuta dilaga lo stesso e nel più grande mercato di Genova, nella ombelicale via XX Settembre, sotto le volte che coprono i banchi rinomati per la merce più sicura, il Mercato Orientale, tradizionale per chi fa la spesa nel centro della città, dove una volta comperavi il miglior pesce possibile, dopo avere scelto, magari, la cravatta più elegante o la tela da camicia più raffinata, nei negozi che facevano corona a montagne di frutta anche esotica, a sfilate di formaggi e infilate di polli rosolati dal vivo, il pesto è crollato.

Neppure un vasetto venduto nei tre giorni dopo l’allarme botulino. Meglio farselo in casa il pesto, se si è capaci in quei vecchi mortai di marmo, dove devi pestare con la forza giusta, schiacciando e accarezzando le foglie tenere del basilico. Ammainare, comunque, la bandiera del pesto è sembrato quasi come ammainare la bandiera di san Giorgio, che uccide il Drago o quella del Grifone per i tifosi genoani in apprensione perenne o il marinaretto per i sampdoriani, sempre un po’ più distaccati o spegnere la Lanterna in una estate che tanto difficili così Genova non le aveva mai vissute, nel pieno di una crisi che stramazza tutta l’Italia, ma che nella ex Superba sembra ancora più crudele.

In tal proposito, la società “Il pesto di Prà di Bruzzone e Ferrari” ha comunicato che

“A seguito della non conformità riscontrata in autocontrollo nel mese di luglio 2013, la Bruzzone e Ferrari ha attivato la procedura di richiamo del prodotto dal mercato, a tutela dei propri consumatori. Tutte le successive analisi, tuttavia, hanno escluso la presenza sia di tossine botuliniche sia di clostridi produttori di tossine botuliniche, tanto nei campioni di prodotto analizzati quanto nei campioni biologici delle persone che si sono recate per precauzione al pronto soccorso.

Tutte le analisi successive hanno dato esito regolamentare, come peraltro riportato direttamente sul sito del Ministero della Salute

Intanto la città è attraversata dai rimbombi che arrivano dalle aule giudiziarie, dove vanno avanti processi che mettono in discussione l’ombelico della città, il suo ventre originale. Il primo processo riguarda l’ultima sciagura che ha colpito il cuore genovese, il porto con la morte dei nove travolti dal crollo della palazzina dei piloti sulla banchina di Molo Giano all’uscita del grande porto. Chi può dimenticare? Quella portacontainer della flotta Messina , Jolly Nero, un colore quasi profetico, che non controlla la sua evoluzione per farsi trascinare fuori dal porto e sbatte di prua contro la costruzione che ospita i tecnici, i piloti, quelli che controllano l’entrata e l’uscita delle navi.

Poteva picchiare dovunque quella prua alta sessanta metri e, invece, sbatte sulla torre facendo una strage.

I rimbombi giudiziari, dopo le intercettazioni delle concitate trasmissioni tra il comandante, la sala macchine, i piloti, che anche Blitzquotidiano.it ha pubblicato, dicono che quella nave aveva seri problemi di navigazione, di funzionamento del suom apparato propulsivo, che la sua partenza era stata ritardata perchè il motore non partiva e che durante quella manovra, che in un grande porto come quello della Superba dovrebbe avvenire tra due guanciali, cioè tra distanze di sicurezza indiscutibili, era fallita proprio perché la macchina motrice era in crisi, perché il contagiri non funzionava, perchè in plancia non sapevano che succedeva in sala macchine e perché il pilota non era “sintonizzato” e aveva solo disperatamente ordinato di cacciare l’ancora troppo tardi, quando la nave era a venticinque metri dalla banchina.

Un’ancora gettata in acqua nel cuore di un porto per fermare una “barca” lunga 350 metri? Una bestemmia marittima, una cosa mai vista dalle banchine genovesi, dove di ancore gettate alla disperata in mare ricordano solo quella della nave inglese London Valour, che si era ancorata impunemente all’esterno della diga foranea, quando il vento di libeccio stava incominciando a martellare la costa genovese in una giornata di incredibile azzurro di cielo e di mare blù.

L’ancora della Jolly nero ha sepolto nove vite nel maggio del 2013, quella della London valour nell’aprile del 1970 ne sepellì diciassette e i superstiti li tirarono su con le funi di un elicottero, che li pescava tra le onde di pece nera del gasolio uscito dallo scafo squarciato.

Corrono ancora i brividi dei ricordi così duri per la gente di mare che si tramanda la memoria, ma mentre i ricordi dolorosi della London Valour sono mitigati dagli atti di eroismo di un genovese, il capitano dei Vigili del Fuoco, Enrico che pilotava quell’ elicottero libellula e planava sulle raffiche di libeccio per tirare su i marinai britannici spinti dalle onde sulle rocce della diga foranea, i ricordi della Jolly Nero non hanno compensazioni di alcun tipo.

Un porto colpito al suo cuore in una notte senza una bava d’aria, durante una manovra ripetuta milioni di volte, la prua che gira davanti all’imboccatura del porto storico, poi l’abbrivio impresso dal traino che la sposta per inerzia verso quel punto, dove pulsa la centrale dei piloti e dove picchia la prua.

Tragedie così non si rimuovono, restano fisse nella memoria e ora che quei rimbombi giudiziari, amplificati dal martellamento mediatico, sono così forti e preannunciano perfino la conclusione delle indagini entro l’anno, Genova su questa storia dolorosa proprio non dorme.

L’altro processo che toglie il sonno e colpisce la pancia della città è quello per la penultima tragedia collettiva, quella del 4 novembre 2011, quando il rio Fereggiano, poco più di un torrente secco di quelli che segano a picco certe colline genovesi rosicchiate dalla speculazione del cemento anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, sbocca dal suo alveo strangolato da argini stretti, costruzioni, discariche, restringimenti di ogni tipo e allaga un grande quartiere popolare della città con furia ringhiosa, a Marassi-San Fruttuoso, il quartiere dello Stadio e del “fiume” importante di Genova, il Bisagno, quello interrato all’altezza dello stadio e dove quel Fereggiano dovrebbe confluire, tra una fogna a cielo aperto e una galleria del sottosuolo.

Se confuisce, aumenta a dismisura la portata del Bisagno, che a sua volta in caso di granbdi pioggie è una bomba innescata sulla città, se non confluisce e sbocca come il penultimo novembre uccide di suo, trascinando nei suoi gorghi e soffocandoli come topi sei vittime, tra le quali quattro bambini usciti da scuola.

I rimbombi dell’estate del pesto e della Jolly Nero in questa materia sono accelerati perchè il processo che nasce da quell’esondazione è ripartito con grande decisione e sta mettendo in croce un gruppo di imputati in testa ai quali c’è la ex sindaco Marta Vincenzi, regnante al momento della tragedia, sulla quale incombe l’accusa di concorso in omicidio plurimo colposo, come se la responsabilità della sciagura sia stata tutta del sindaco e della sua squadra di Protezione Civile e di vertice dell’apparato della pubblica sicurezza.

L’innesco giudiziario di questa imputazione, che si sta costruendo nelle stanze del palazzo di giustizia, è costituito anche in questo caso da una serie di intercettazioni che dimostrerebbero la truffa, il “taroccamento” con il quale la sindaco e i suoi fedelissimi truccarono il rapporto del dopo tragedia, addirittura anticipando l’esondazione di 45 minuti per spiegarne la totale imprevedibilità e si inventarono una vedetta comunale, che aveva non segnalato quanto alto era il livello delle acque del Fereggiano sotto la pioggia “ a bomba d’acqua” di quella mattinata di novembre.

A quasi due anni dal fatto quella versione di comodo per alleggerire la posizione dei responsabili comunali si è processualmente vestita di nuove testimonianze: le carte truccate, l’inesistenza della vedetta.

Addirittura in una delle intercettazioni cruciali parlano la signora sindaco e suo marito, il noto ingegnere Bruno Marchese, molto vicino alla moglie anche come consigliere e eminenza grigia, al quale la Vincenzi confessò di avere visto come erano salite le acque del torrente killer. E allora perché non furono prese decisioni conseguenti, perché non si allertarono le scuole che stavano per far uscire i bimbi, perché non si lanciò l’allarme generale?, urla l’accusa, mettendo in croce l’ex sindaco e il suo staff.

E’ un’estate dura, perfino crudele in questo caso, perché la sindaco oggi crocefissa ha sicuramente compiti importanti nella gestione delle emergenze, ma come arrivare al punto di considerarla il capro espiatorio unico di tutto, proprio tutto, dalle previsioni meteo, alla guardia dei torrenti, ai provvedimenti di chiusura delle scuole?

La città travagliata dalla crisi ha, dunque bisogno di capri espiatori e ne allinea uno dietro l’altro, preparando magari altri processi, magari non solo giudiziari, ma anche di altro tipo.

Come quello alla Finmeccanica, la grande finanziaria di Stato, che deve decidere che fare delle aziende importanti che restano a Genova con migliaia di posti di lavoro, come Ansaldo Energia, Ansaldo Sts, come la Selex, come Fincantieri. Venderle e concentrare il gruppo sul businesse delle aziende che si occupano della Difesa militare o mantenerle sul territorio genovese?

Portare alle estreme conseguenze il processo, appunto processo, di de industrializzazione che ha già ridotto in cenere un grande patrimonio manifatturiero genovese, che minaccia in un silenzio sepolcrale anche i tremila lavoratori della Ilva di Cornigliano della famiglia Riva, ai quali solo nel 2005 la Regione aveva allungato la concessione siderurgica di 90 anni per gestire il suo impianto a freddo?

Ecco perchè non si può accettare che anche il pesto diventi indigesto in una città che ha troppe debolezze in questo momento e che non riesce a uscire dalle spire di uno strangolamento quasi epocale delle sue attività che non c’è barba di amministratore in grado di sciogliere.

Il sindaco Marco Doria, eletto tredici mesi fa con un’operazione a sinistra diretta niente meno che dall’indimenticabile Don Andrea Gallo e da un gruppo di professori, avvocato e intellettuali che volevano rompere un duopolio femminile di candidate Pd l’una contro l’altra armate (Marta Vincenzi e la senatrice Roberta Pinotti) non sa decidere nulla , stretto tra la decrescita felice dei consiglieri grillini, le angoscie ambientaliste del suo partito di riferimento, il Sel e il Pd imbarazzato dall’immobilismo della giunta comunale.

Se la ex sindaco è attaccata alla croce dell’alluvione, il sindaco dal nome extranobile percorre una via crucis con troppe stazioni: la non decisione sulla Gronda, la tangenziale che dovrebbe alleggerire il nodo infrastrutturale genovese, il fallimento di fatto del teatro lirico Carlo Felice, ricostruito da pochi lustri, con un cartellone a zero e deficit abissale e superorchestra a libro paga permanente, l’ altro azzeramento della manifestazione più nota al mondo per Genova, il Salone Nautico della Fiera del Mare, ridotto a quattro giorni e a un solo Padiglione, con il resto del quartiere espositivo diventato un deserto dei tartari, il bilancio dell’Amt, l’azienda dei Trasporti colassata da anni con le corse ridotte ai minimo termini.

Se Doria, il discendente del grande ammiraglio Andrea Doria, naviga nelle secche e il suo galeone potrebbe andare a picco da un momento all’altro e oggi che non c’è più Don Gallo buon anima a consigliare il sindaco ancora di più, che dire della via crucis imprenditoriale?

Falliscono a ripetizione gli armatori, un tempo vanto della Superba e del suo porto, si polverizzano i settori imprenditoriali, a incominciare da quello edilizio dove il patatrac è di quasi tremila posti di lavoro in un anno e di un’azienda che chiude ogni tre giorni. Il simbolo della resa edilizia è proprio all’ingresso di Genova, dove una società delle Coop emiliane stava finendo di erigere due grandi torri, chiamate Torri Faro, un’operazione da 20 mila metri quadrati, duecento appartamenti a quattromila euro a metro quadro, due funghi nati al bordo della Sopraelevata, sullo scenario del magico sky line di Genova.

Le torri non sono ancora finite e non si sa se lo saranno mai. Gli appartamenti venduti sono il 20 per cento e se qualche santo( leggasi qualche banca o qualche fondo internazionale) non interviene questa è una delle più grandi incompiute mai viste. Con i fornitori in ginocchio.

E non in qualche periferia abbandonata, in qualche non luogo sperduto, ma a cento metri dalla Lanterna, a centocinquanta dal principale casello autostradale, in faccia all’ex primo porto del Mediterraneo, con vista perdifiato sulla Stazione Marittima.

Come non farsi andare di traverso il pesto in queste condizioni, come sperare che il botulino dell’intossicazione letale non abbia già contaminato un’economia ridotta al lumicino?

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