Genova, il Ponte immobile, le strade distrutte, Portofino isolata e chiude anche la Rinascente

Genova, Ponte Morandi, Portofino isolata e chiude anche la Rinascente
Genova, Ponte Morandi, Portofino isolata e chiude anche la Rinascente

GENOVA – Le suore indiane hanno deciso che è giusto andare a pregare per il ponte caduto, le sue vittime, 43, i suoi sfollati, quasi settecento, i suoi danneggiati, migliaia di aziende, di piccoli e grandi imprenditori, di commercianti. E così voltano le spalle al mare cattivo che ancora ruggisce sulla costa devastata, con onde bianche e lunghe, fameliche, a divorare tutto e se ne vanno alla messa del cardinale Angelo Bagnasco, celebrata nel giorni dei Defunti sotto il ponte maledetto.

Se ne vanno, queste piccole suore indiane, il velo e la tonaca grigia scossi dalle raffiche dello scirocco che continua a soffiare dal mare, in fondo alla Valpolcevera dei sette, dei mille dolori e cercano la piccola chiesa sotto i mozziconi del Morandi, intitolata a San Bartolomeo della Certosa, dove Sua Eminenza sta arrivando con la sua tonaca porpora, lo zucchetto e il tricorno ben calzati sulla testa e il piccolo seguito di segretari, monsignori e parroci. Oggi si prega e si ricordano quei 43 morti, a quasi 80 giorni dalla tragedia, ma è facile voltarsi verso il mare che sta là, oltre le strade del grande caos genovese, alla foce di questo torrente Polcevera, ancora un po’ gonfio di acqua e fango, per capire se la tempesta è veramente finita, se il cielo sopra le onde, che così si è accanito negli ultimi giorni, si incupisce ancora carico di pioggia e di quei venti terribili.

Le suore sono serene come solo le suore giovani sanno essere e cantano quasi, mentre camminano lungo la strada Perlasca, l’unica via che è aperta nella valle separata dalla città da oramai tanto tempo e cercano nel vento e nel deserto di questo pezzo di Genova periferica e ferita la via di quella messa di suffragio che Bagnasco ha scelto di celebrare qui sotto i mozziconi del ponte e non nel Monumentale Cimitero di Staglieno come tutti gli anni.

Ma che 2 novembre è questo per questa città dolorante, piegata, prima dalla tragedia del ponte e ora dalla tempesta che ha riempito di nuovo i torrenti, facendo temere l’alluvione e ha alzato il mare con onde di 11 metri, soffiando a 193 chilometri l’ora, spaccando tutto, sbriciolando luoghi da sogno come la strada da Portofino a Santa Margherita e piccoli borghi nascosti sul’Appennino dimenticato, a Mele, a Masone e in cento altri comuni dell’Appennino genovese e ligure, grande e sconosciuto di boschi abbattuti dal vento, di strade franate, di piccole case disseminate qua e là?

Il cardinale non era ancora venuto in Valpolcevera sotto il ponte dal giorno della tragedia e un po’ lo avevano criticato per questo, mentre ministri, onorevoli, senatori, perfino il capo dello Stato, si erano precipitati nelle prime ore. E così oggi lo aspettano gli sfollati che hanno incominciato a venire nelle case abbandonate dal 14 agosto a ritirarsi le loro cose, preoccupati per gli allerta della tempesta in arrivo, perché i sensori piazzati sul ponte maledetto hanno lanciato segnali di pericolo e tutti si sono chiesti come ha resistito quel ponte smozzicato a raffiche così potenti, pericolante come è, come è rimasto in piedi nella nuova tempesta, così diversa da quella di quel giorno malefico, quando è venuto giù alla luce dei fulmini che cadevano alla vigilia di Ferragosto. Dal Ferragosto culmine dell’estate ai giorni dei Santi e dei Morti pieno autunno: un calvario senza tregua.

Ci sono gli sfollati nella piccola chiesa della Certosa, per la prima volta insieme ai parenti delle vittime, in una comunione toccante: insieme chi ha perso la casa e un pezzo di vita e chi ha perso la vita intera dei propri cari volati giù dal Morandi, che ancora oggi non sembra possibile, oppure incomincia a sembrare il segno di un destino cattivo, che si accanisce con i crolli, le tempeste, le distruzioni, ottanta giorni di inferno.

Oramai quel ponte, fuori ma non lontano dalla chiesa di san Bartolomeo, sembra esso stesso nella sua tragica discontinuità, con quei duecento metri di vuoto in mezzo alle arcate, il segno di una crocifissione, di una agonia, lo stilema di una tragedia che non finisce, perché il ponte nuovo non c’è e non ci sono segni che presto ci sarà.

Il cardinale celebra e non lesina nell’omelia gli ammonimenti. La dedica, questa omelia, al bisogno di ripartire e all’unico modo nel quale si può fare. “Bisogna costruire un futuro – dice rivestito dei panni viola del giorno dei Morti – con le preghiere e con altro, con qualcosa di concreto…”

Questa è come una stoccata alla politica, una stoccata chiara, quando non c’è solo l’ombra dei Defunti che aleggia sul ponte e su Genova, ma anche questa sensazione che tutto si sia come fermato, nell’incertezza, nel contorcimento burocratico-politico.

“Non deve esserci paura perché Genova ce la farà, si sta muovendo, la coesione per far ripartire la città c’è, ma deve esserci la normalità per costruire, la normalità di questo territorio a tutti gli effetti, a tutti i livelli: dal lavoro alla viabilità. Ogni tipo di diatriba – alza la voce Bagnasco – anche la più legittima non deve in alcun modo rallentare la nostra rinascita”.

Ora il cardinale scandisce quasi le parole e i tempi di questa tragedia, come se si fosse trattenuto fino ad oggi: “La vicinanza e il senso di unità che ci sono stati tra tutti noi da subito, tra la comunità del territorio, tra chi ha lavorato per mettere in salvo e chi si è stretto attorno a chi ha sofferto, colpito direttamente o indirettamente dalla tragedia”.

Preghiera, vicinanza fiducia – è l’invito del vescovo-cardinale che lancia come un monito ai tanti comitati impegnati sul fronte tra la zona rossa degli sfollati e quella arancione dei confinanti, sospesi nel limbo del futuro. “Tutto quello di buono che è stato costruito dopo il crollo non deve essere perduto – dice ancora Bagnasco – non deve diventare inutile. In quei giorni Genova è stata al livello, all’altezza della sua storia, ha fatto vedere la sua parte migliore: capacità, generosità l’operosità dei corpi di sicurezza, delle autorità e dei cittadini. Una compattezza che non si deve perdere per strada per dissidi e incomprensioni”.

Poi la messa finisce e un piccolo corteo, con in testa Sua Eminenza, esce dal piccolo portone e si dirige proprio sotto il ponte, dove Bagnasco poggia un mazzo di fiori e dice una preghiera che non poteva che essere quella: l’Eterno riposo per i caduti che sono volati da là sopra e sono caduti in una scena da Apocalisse in mezzo ai tronconi di cemento, là davanti, in mezzo al fiume che quel giorno era secco, tra pezzi di automobili, di Tir, di asfalto, le corsie quasi intere di un pezzo dell’autostrada A10 e oggi è ancora, questo fiume, un po’ gonfio dell’acqua marrone, del fango quasi alluvionale.

Il cardinale alza lo sguardo verso i due tronconi, cinquantacinque metri più sopra: “Sembrano due braccia che hanno perso il corpo, ma che presto lo ritroveranno tutto e noi con loro…”, sospira. Poi il corteo lascia il mazzo di fiori, torna verso le case, dove il vento incanalato lungo il corso dell’alveo soffia meno, con un segno della croce, come se salutasse questo immenso sarcofago, il ponte troncato, il cemento sbriciolato di sotto, la zona rossa, il confine sul quale vigilano le camionette della polizia e dell’esercito, il silenzio e l’incertezza sul futuro.

Ma dopo le preghiere e gli ammonimenti? In questo grigio pomeriggio di novembre, a ottanta giorni dalla tragedia e a quattro dalla tempesta perfetta, a cinquecento chilometri da qua, la Camera dei Deputati sta facendo passare il Decreto Genova, il provvedimento che vara tutte le misure economiche, legislative, fiscali, finanziarie che aiuteranno a ricucire questa ferita del ponte.

Un decreto che bolle dal 14 settembre tra il Governo, il Parlamento e questa Genova piegata che lo aspetta come se quella grida fosse la prima pietra della ricostruzione. Ma non lo è. A cominciare dalla struttura stessa del decreto, che mette insieme Genova, Ischia, altre zone ferite d’Italia negli ultimi anni e perfino provvedimenti ambientali che cambiano, per esempio, la misura dei fanghi inquinanti da smaltire nelle campagne italiane. Che c’entra tutto questo con i 12 articoli dedicati a Genova, alla ricostruzione del ponte?

Alla Camera su questo ci si azzuffa e sopratutto ci si scanna sulla mescolanza tra le misure pro Genova e il maxicondono delle decine di migliaia di case di Ischia , “salvate” miracolosamente per l’intercessione del vicepremier del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio, che ha sponsorizzato la sanatoria tanto importante per il suo collegio elettorale.

Forse anche a questo alludeva il cardinale nel suo pellegrinaggio in Valpolcevera, quando invitava all’unità, alle divisioni da combattere, allo spirito da ricostruire?

Il decreto Genova è diventato un ring tra la maggioranza giallo verde e l’opposizione proprio per quel condono, che il Pd ha trasformato in un cavallo di battaglia, anche minacciando il percorso parlamentare del decreto.

A Roma si incendiano sul tema anche i rapporti tra i grillini e la Lega e a Genova, invece, soffia la coda di un altro tipo di tempesta, che continua a legare le due tragedie: l’apocalisse del ponte e l’apocalisse del vento e del mare che si sono scatenati. Alla fine la Camera approva il decreto che ora passa al Senato, dove il Governo spergiura che farà presto, a costo di mettere la fiducia e che deve anche essere trasformato operativamente con i 42 provvedimenti attuativi di ogni articolo.

Intanto il calo dei traffici portuali per il mese di ottobre si ferma al 6 per cento, ma le autorità portuali, il presidente, Paolo Emilio Signorini, spiegano che le aziende hanno dato fondo alle proprie riserve per parare i colpi. Novembre e dicembre saranno peggio. Il turismo, che stava agonizzando con cali paurosi, si è un po’ rialzato grazie al Festival della Scienza, una kermesse importante che richiama pubblico abbastanza giovane, ma la mazzata climatica lascia prevedere una specie di crack.

Che ne sarà di Portofino completamente isolata dopo il crollo della strada per Santa Margherita? Una via di uscita, attraverso una “pista” sul Monte, che collega il borgo isolato con il Monte e che è faticosamente carrozzabile, ha scatenato una dura polemica tra il governatore della Liguria, Giovanni Toti e Italia Nostra. Gli ambientalisti temono che dare il via all’allargamento proposto dalla Regione di questa strada, rendendola un po più carrozzabile, rilancerebbe gli appetiti degli speculatori su quell’angolo di Paradiso che è il Monte di Portofino. “Ambientalismo malato”, replica Toti, che si preoccupa dell’isolamento.

Oggi a Portofino si arriva solo via mare e per quel sentiero: i 250 residenti aspettano ogni mattina i viveri e i generi di prima necessità. Fino a quando? L’ipotesi di una nuova strada sulla costa, traguardata per la primavera, non poggia su nessuna base certa. Il rischio è che una delle località più famose d’Italia nel mondo resti un’isola abbandonata nella sua bellezza ancora più struggente.

Alberghi chiusi, locali chiusi, negozi di grandi firme abbandonati perché nessun cliente può arrivare se non a piedi dai sentieri del Parco o in barca.

In realtà la sindrome dell’isolamento è un po’ più generale e parte proprio da quel 14 agosto, perché tutta Genova è sempre meno raggiungibile e spesso la stessa circolazione interna, malgrado gli sforzi del sindaco-supercommissario alla ricostruzione Marco Bucci e dei tecnici comunali si ingolfa.

Tornare dalla messa del cardinale sotto il ponte è già un’impresa nel traffico di un normale giorno feriale di novembre. Se le suore indiane se ne tornano a casa a piedi nel vento della Valpolcevera, il percorso automobilistico è lento e complicato. La Valpolcevera è così un territorio di centomila abitanti con due passerelle che permettono i collegamenti con il resto della città e una autostrada, la A7, che corre di fianco alla valle fino al primo pilone del Morandi. Basta un tamponamento ed è il blocco totale.

Il sindaco Marco Bucci e il governatore Giovanni Toti girano come trottole per la città e cercano di tenere alto il morale, promettendo il nuovo ponte entro il 2019, recitando quella data come un mantra, nel quale non credono neppure loro stessi. Un gruppo di ingegneri ha studiato bene i tempi della demolizione e della ricostruzione, dividendo le diverse fasi. Si arriva ad almeno tre anni di lavori, dopo che quella parte della città sotto il ponte si sarà trasformata in un immenso cantiere nel cuore della Valpolcevera, con enormi problemi di trasporto, a partire dalla montagna di detriti che la distruzione del ponte e delle case sottostanti porterà.

Ogni nuovo pilone del nuovo ponte implica uno scavo di almeno 40 metri per le fondamenta, dicono gli esperti. E anche quel materiale di scavo dovrà essere portato fuori dall’imbuto. Fino a quando Genova riuscirà a sopportare i disagi connessi a tutto questo?

Intanto con una sintonia maligna, proprio nel cuore della città, ha chiuso i battenti la Rinascente, il grande magazzino, inaugurato nel 1960 e lanciato allora come il simbolo del boom. Ci fu una grande festa per aprire il supermagazzino: si incominciava a vivere la stagione migliore.

Alla Rinascente almeno una volta ogni genovese è entrato e ora che chiude i suoi tre piani nell’ombelicale quartiere di Piccapietra, a due passi da dove “Balilla”, il ragazzo genovese Giovanni Battista Perasso lanciò il suo sasso contro gli invasori austriaci, sembra che come un sipario cali definitivamente sul progresso della città, incominciato allora e oggi crollato.

 

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