A Genova, per le primarie del Pd, Matteo Renzi ha tenuto l’incontro numero 90, il suo assalto alla roccaforte rossa. Questa è la cronaca.
Eccolo finalmente il ragazzo toscano di Firenze, che salta su e giù per il palco del Teatro della Corte, massimo palcoscenico di prosa della nobile città Genova, a un mese esatto dalle Primarie. Arriva bello magro e affilato dalle cavalcate in camper per mezza Italia, jeans stretti e scuri, camicia bianca di ordinanza, scarpe sneakers elastiche e una giacca tradizionale, che si metterà e si toglierà durante uno show che sembra una canzone oramai ben mandata a memoria, sul cui testo si può anche variare, ma non troppo.
Salta e cavalca il palco il trentasettenne candidato, sindaco di Firenze, davanti a un pubblico strabocchevole, perchè siamo a “Zena”, la città che non molla di un centimetro il suo potere ex Pci e grande alleanza a sinistra dall’anno del Signore 1974 e che oggi è governata da un marchese della famiglia Doria, appunto Marco Doria, cinquantacinquenne professore di storia dell’Economia, indipendente ex Pci e vicino a Sel.
Strabocchevole perché Renzi si presenta come lo sfidante di quel potere e forse anche di questa città che uno sberleffo al Pd lo ha già lanciato, scegliendo come sindaco il suddetto Doria e non le zarine Pd Marta Vincenzi prima cittadina uscente, dopo un solo mandato e Roberta Pinotti, la senatrice granatiera, sulla quale tutti gli apparitikit puntavano a botta sicura. Insomma Genova, che gli spin doctor del “rottamatore” hanno tenuto un po’ in seconda fila perché ha già subito lo choc Pd della sconfitta delle sue donne di apparato contro un outsider.
E allora venghino comunque tutti a vedere cosa succede nella città che dovrebbe essere bersaniana o semmai vendoliana, quando lo spauracchio della rottamazione compare in carne e ossa, con le sue c aspirate da toscano doc nella patria dei camalli, del sindacato duro e puro della città più postfordizzata che ci sia, laddove tutto ruotava fino a poco tempo fa intorno a un grande porto pubblico e ai grandi stabilimenti ex Iri, cattedrali laiche fatte di altiforni, gigantesche turbine, cantieri capaci nella storia di far galleggiare navi come il Rex fino alle gigantesche ammiraglie della Costa Carnival e MSC, tanto mostruose che se le rimiri dalla Sopraelevata, strada-introduzione alla città stretta tra il mare e la collina, quel porto, direbbe Renzi stesso, ti sembra piccino, piccino.
Il rottamatore non riesce neppure a entrare agevolmente nel teatro che è uno dei templi anche di quella cultura fondata su album di famiglia spessi come enciclopedie del sapere e anche della lotta ai padroni e di relazioni sociali che hanno fatto scuola ovunque, tanta è la folla che cerca di entrare.
Ma che folla e che facce intravvedi, in una serata di autunno fasullo con quell’aria di pre-alluvione che sei condannato spesso a respirare a Genova, tra i calori fuori stagione e le tempeste giudiziarie che mitragliano la giunta regionale di centro sinistra, dove la avvenente vice presidente Marilyn Fusco si è appena dimessa per un’inchiesta giudiziaria e la giunta comunale del marchese rosso assiste all’inchiesta che sta inchiodando i tecnici e gli assessori competenti in Protezione Civile dell’amministrazione precedente, bombardata dalla tragica alluvione di un anno fa novembre 2011.
Doria, fino a ieri nuovo come oggi Renzi per le sfide elettorali, sta fermo ad aspettare che piova anche a dirotto, come gli allerta prevedono e la tradizione genovese teme apocalitticamente: i giudici della Procura accusano i suoi predecessori di avere falsificato il rapporto sull’ultima catastrofe dal cielo per mitigare le proprie responsabilità. Perfino “Il Corriere della Sera ha scritto, per la penna di Marco Imarisio: un anno fa l’alluvione di Genova faceva paura, oggi fa schifo.
E’ nella pancia di questa sinistra ripiegata che il rottamatore arriva fendendo quella folla che potresti anche mettere al microscopio per capire che alla fine quello che si raduna allo show della rottamazione potrebbe essere il Pd mezzo abortito alla sua fondazione: un partito progressista aperto all’esterno, frequentato da tanti pezzi della società civile, magari partiti da lontano, oppure ombelicali nella post storia comunista.
Perché non viene da quell’ombelico l’ex presidente della Lega Coop liguria, Claudio Pontiggia, un funzionario storico dell’ex Pci, poi dirigente del suo sbraccio economico potente e universale in questo territorio dove un supermercato EsseLunga non è mai riuscito a mettere piede. Solo Coop e niente altro che Coop.
Lui, Pontiggia, sta seduto da spettatore in quarta fila e sarà anche solo un curioso, ma porta qua dentro la rappresentanza di un movimento che in quell’album di famiglia ci sta eccome.
Quanti compagni ci sono a riempire il teatro, dove piomba il rottamatore? Compagni del Pd di oggi, magari anche alti dirigenti, come l’ex segretario Victor Raseto, trentacinquenne che ha pagato la sua battaglia anti Vincenzi con la poltrona o come l’altro ex segretario provinciale, Alfonso Pittaluga, di origini socialiste, esiliato anche dal ruolo di assessore per le distanze prese dalla giunta della signora Vincenzi.
Sono qui perché la ex gioiosa macchina da guerra li ha tagliati fuori, messi in quel limbo sempre più frequentato di ex? Ex comunisti, ex socialisti, ex democristiani, ex margheriti, ex popolari……una processione!
Vola in sala in posizione preminente anche l’ex vice presidente della giunta regionale Massimiliano Costa, appunto ex dc, popolare, margherito e quindi Pd, da tre anni fuori dal giro per scelta sua, non certo un post compagno ma un alleato di ferro, uno dei fondatori di quel Pd che Renzi chiede di rottamare e che nella sala si sta in qualche modo ricomponendo con potenti iniezioni di moderati, borghesi illuminati, borghesi curiosi e qualche clamorosa eccezione come quella dell’ex deputato leghista Sergio Castellaneta, padre fondatore padano in riva al mare, ex liberale, certamente un uomo di destra, che ha consumato al centro ogni possibile delusione e che ora se ne sta in mezzo a questa folla nella quale scorre il suo mondo di ex alleati, ex avversari, ex nemici giurati e rari amici. Che ci azzecca?
Ci sono compagni socialisti, che riemergono dalle opposte sponde del post craxismo: chi stava con Berlusconi stile Cicchitto e chi stava con il Pd e anche chi non stava da nessuna parte come l’ex superassessore dei tempi craxiani Michele Denaro, da anni diventato solo un libero professionista che ora si trova quattro poltrone più in là dei giovani leoni che il Pd ha emarginato e quattro poltrone sotto illustri professionisti di matrice progressista, come il professor Riccardo Pellicci, direttore scientifico del grande ospedale di Santa Corona nella Liguria di Ponente.
Sono testimoni, curiosi, tifosi, messi assieme dalla tensione di una politica in grave affanno e non sono per nulla un possibile Pd in ricomposizione sotto il vetro di un microscopio fortuito?
Per capire qualcosa forse meglio ascoltare come questa platea risponde allo show del rottamatore, giunto alla novantesima performance, che passeggia avanti e indietro sul palco, con un ritmo collaudato, alternandosi ai video e ai cartelli che quantificano la debacle dell’Italia, le voragini del debito pubblico, le cifre del progresso all’indietro, lo scacco delle mancate riforme di una società tradita anche dalla classe dirigente di sinistra.
Il primo applauso scatta, ovviamente quando Renzi, già senza giacca, spiega bene il termine rottamazione, venuta a noia pure a lui, confessa, poi smentendosi da solo.
Abbiamo esagerato a chiedere di rottamare? Forse, ma qualche risultato l’abbiamo ottenuto e altri arriveranno, spiega con la chiara allusione a Massimo D’Alema e a Walter Veltroni. Ma quanto è soft e distensivo il rottamatore nel suo coast to coast per il palco teatrale avanti e indietro, magari deludendo il pubblico che aspetta le stoccate all’apparato Pd.
Non infilza Bersani neppure sulla polemica per la riunione finanziaria con gli uomini delle isole paradisi fiscali delle Cayman e non sfiora la sfida che gli stanno muovendo con i paletti alle Primarie per fermare l’orda di esterni Pd che si stanno preparando a andare a votarlo.
Partono, costoro, anche da questa sala dove più guardi, più vedi spuntare i protagonisti di trenta, quaranta anni di vita politica genovese, nelle diverse ere geologiche: Michele Fossa oggi Ds, ieri Psi di governo, figlio di uno dei potentissimi leaders storici del pre-garofano, il senatore Francesco Fossa; Alberto Villa, uno degli ultimi spin doctor di Marta Vincenzi e prima ancora speaker del di lei avversario precedente, il senatore Enrico Musso, liberal; l’avvocato Waldemaro Flick, fratello del celebre avvocato Giovanni Maria, giudice costituzionale, ministro di giustizia di Prodi e tante altre cose. Flick non ha mai fatto politica, è un progressista puro e osserva. La lista potrebbe continuare, mentre Renzi vola alto arrotolandosi le maniche della camicia e rimbalzando sul palco.
Vola alto, denunciando non i singoli da rottamare, ma il sistema che è fallito, il berlusconismo al quale l’opposizione non ha mai contrapposto un suo modello alternativo.
E siamo arrivati a questo punto. “Basta con tutti quei privilegi alla classe dirigente: dal lampeggiante dell’auto blu al vitalizio!”, sentenzia Renzi, tirandosi dietro un altro applauso. Ma il gioco comunicativo non è quello della ricerca dell’effetto, della battuta, della spacconata toscaneggiante che arriva come il cacio sui maccheroni, per restare nel gergo renziano-toscano, ma è molto più raziocinante e serve al pubblico una piattaforma di dati del disastro del debito pubblico, 32.800 euro di deficit per ogni cittadino italiano per arrivare alla invocazione sul futuro, la parola magica del rottamatore: “Vogliamo una generazione di politici che costruisca il futuro e che non ci crocifigga tra gli errori del passato e le previsioni apocalittiche del presente”.
Ma l’affondo in sala non sfonda e i giovani bersaniani, che sono venuti compunti e seri ad assistere scetticamente allo show, incominciano a trasformare la loro attenzione in critica: “Ma questa è una visione berlusconiana con due pitturate di Grillo”, sibilano tra loro nelle poltrone sempre più affollate. Ed ecco che Renzi spara il video del famoso film del mitico Troisi, nel quale un monaco del cupo Medioevo ricorda al grande attore scomparso: “Tu devi morire, ricordati che devi morire!”.
“Preferite questi scenari alla speranza del futuro?”, gioca in contropiede il Renzi e poi ti sfodera l’altro video della Sonda spaziale americana, posata sulla superficie di Marte: “ E’ costato molto meno arrivare a Marte che costruire un pezzo della Reggio Calabria-Salerno”, sentenzia, provocando il terzo applauso.
Seguono gli esempi pratici di come invertire la strada degli sprechi, dei buchi di bilancio, dei tassi di interesse che ogni giorno divorano i risparmi degli italiani virtuosi.
Renzi gioca in casa: mostra in video lo storico palazzo della Signoria di Firenze, dichiara di avere aperto al pubblico la torre leggendaria, dove rinchiusero Giacomo Savonarola, ci ha guadagnato 10 posti di lavoro. Tanto per dire che la cultura fa mangiare e non è come predicava il Savonarola-Tremonti che lo negava, sprezzante.
Lo spauracchio del rottamatore affronta la accusa di connivenza con il Pdl, spauracchio a sua volta, ma in evanescenza, la sua famosa gita ad Arcore e l’accusa di andare a inseguire i delusi del partito berlusconiano. “E io mi preoccupo anche di andare a recuperare i delusi del Pd”, spiazza Renzi, sgranando il rosario della trasformazione partitica italiana a sinistra, una foresta di sigle da Pci a Pd e di alberi e regno vegetale dalla Quercia, all’Ulivo, al Garofano, alla Margherita….Per finire dove?
Non si indigna molto il ragazzo-candidato, che scavalla il palco e non alza i toni, forse solo quando mostra una statistica nella quale si dimostra il patatrac italiano del lavoro femminile, rispetto agli standard europei. Un accosto al pubblico femminile fin troppo studiato dai soloni mediatici che sembrano tirare le fila di quel palco e di quelle esibizioni.
Il finale è un colpo a effetto: video di Obama che parla di bambini, dei loro sogni innocenti infranti dai grandi, delle loro aspirazione quotidiane minime, come giocare a saltare le pozzanghere. Ecco il terreno di lotta del futuro renziano, restituire i sogni ai più piccoli con la faccia del presidente americano che se la sta giocando anche lui una elezione, così più importante nel mondo di questa Primaria italiana.
Fuori dal teatro il camper della cavalcata renziana è posteggiato nel vuoto siderale notturno delle grandi strade genovesi, che coprono il fiume Bisagno, quello che quando esce uccide, allaga, altro che pozzanghere.
Il cielo è ancora quello minacciosamente pre-alluvionale dell’ottobre genovese caldo umido, che aspetta le prime piogge violente, innescate da quel mare bollente. Una combinazione micidiale che mette al muro il potere di governo della città più alluvionata d’Italia. La tempesta meteo è prevista già dai bollettini di allerta 1 e 2. Quella politica dentro alla sinistra potrebbe incominciare proprio da questa sera di folla, in un teatro che non vibra, ma che ascolta il rottamatore, come è nello stile genovese. Si esce mugugnando tra i denti., senza far capire più del dovuto.