Hanno deciso che l’unico modo di salvare Genova, semiaffondata nel suo declino industriale e isolata dalle infrastrutture di treni e tangenziali che non partono mai, era attraversare il Mar Rosso e andare a trovare il loro Mosè, cioè Renzo Piano, l’architetto che non ama farsi chiamare archistar, che abita proprio in fondo al Mar Rosso, in fondo a Genova, sulla collina incantata di Vesima, tra fasce di ulivi, carubbi e pini marittimi, in uno studiò da perdere il fiato, sospeso cinquanta metri sopra il mare.
Ci sono andati, i maggiorenti di Genova, in testa il governatore della Liguria Claudio Burlando, in sella dagli anni Ottanta, battendosi il petto con un mea culpa, mea culpa che richiamava il corteo dei flagellanti medioevali.
La colpa dichiarata in quella traversata era di non avere giustamente considerato, nove anni fa, il grande regalo, per la verità non del tutto gratuito, che Renzo Piano aveva fatto alla città, di disegnarne l’ Affresco, cioè il progetto urbanistico di un nuovo rapporto tra questa città lunga come un serpente sul mare e la costa martoriata, dai confini lontani verso Portofino, proprio fino al maniero professionale di Piano.
Piano aveva tracciato le linee affascinanti di una nuova costa, che avrebbe compreso il vecchio porto rimodernato, riempito i vuoti, liberato i pieni, spostato attività storiche come le Riparazioni industriali, cioè la fabbrica industriale del porto, spostato l’aeroporto in mare, su un’isola al largo, trasferito la diga foranea cinquecento metri al largo, dilatando gli spazi per le navi immense dell’era moderna, quelle da crociera, come la malefica Costa Concordia che ancora giace all’Isola del Giglio e l’altrettanto malefica Jolly Nero, che ha spezzato nove vite nel cuore del porto stesso, uccidendo i piloti e i guardiani della torre piloti nella tragedia più cupa che il porto ricordi, dopo che i nazisti ci avevano messo le mine per farlo saltare in aria.
Piano-Mosè aveva anche riscritto tutto il rapporto tra la città e il mare nei punti chiave della costa, dove, tra il 1938 e l’Anno Duemila, i genovesi di quattro generazioni erano stati costretti a rubare il mare e violentare la spiaggia per costruire in fila lo stabilimento siderurgico di Cornigliano per l’Italsider, il Porto Petroli di Multedo, lo scalo satellite di Voltri e ovviamente l’aeroporto Cristoforo Colombo.
Tutto era sparito, il mare riempito, delegazioni intere private della spiaggia, del mare per sempre, con una tripla operazione di ingegneria marittima sconvolgente. E al posto dei gozzi panciuti, delle spiagge, degli stabilimenti balneari, dei pescatori, delle barche di ogni misura, il Mostro d’acciaio dell’Italsider-Ilva, i depositi e i tubi degli oleodotti, le banchine immense di Voltri-Prà. Per fare un tuffo in mare bisognava attraversare il mare Rosso o il deserto e arrivare, appunto, sotto il paradiso di Mosè-Piano, che abita là in fondo.
Piano è un genovese del mondo, che abita a Parigi e un po’ a Genova e ogni settimana va nel suo ufficio di New York, dove decide dove disegnare i progetti che il mondo gli chiede. Sembra proprio Mosè, con la sua barba bianca e la capacità di affabulare anche senza la tavola dei dieci comandamenti e i fulmini in testa dal cielo.
Nel 2004, dopo che aveva costruito il nuovo Porto antico di Genova per celebrare i 500 anni della Scoperta dell’America nel 1992, da parte di uno dei suoi predecessori più illustri, Cristoforo Colombo (lui è considerato dai ricercatori Usa una delle 120 persone più conosciute al mondo) a Renzo Piano hanno chiesto di ritracciare la linea della costa.
Salirono i maggiorenti di allora, il presidente del porto Giovanni Novi, l’allora presidente della Regione Sandro Biasotti, oggi onorevole Pdl e c’erano perfino i leader della Pirelli, Tronchetti Provera e l’allora amministratore di Pirelli Real Estate, Carlo Puri, pronti a fiutare uno degli affari immobiliari più kolossal possibile, nonché ovviamente il sindaco genovese di allora Giuseppe Pericu.
Se chiedi a Piano qualcosa che interessa la sua città non dice mai di no. Ci prova, dispiega il suo genio e la sua forza creativa, come se fosse la più grande opera del suo grandioso curriculum che viaggia dalla foresta della Caledonia, alle isole giapponesi, alle torri di New York e Washington, a Berlino alle schegge di Londra e via andare.
Così il 25 maggio del 2004, davanti a una folla un po’ esterrefatta di genovesi, con schierati beni in ordine tutti i potentati industriali e finanziari e commerciali della città, l’architetto piazzato sotto la tenda del Porto antico da lui creato, con in mano una grande asta di bambù, aveva illustrato su un grande schermo in fondo al Teatro tenda la mirabilia del suo piano, che poteva cambiare la faccia della costa genovese e la città intera.
Sembrava Mosè davvero quel giorno Renzo Piano o meglio anche il capitano Achab di Moby Dick, che con la barba bianca e la canna o l’arpione in mano indicava i passaggi del suo grande progetto.
Era o non era lì che nelle celebrazioni del 1992 Vittorio Gassman aveva recitato quella parte del capitano contro la Grande Balena bianca che la sua lancia doveva uncinare, in uno spettacolo indimenticabile? E non era quella folla di potenti, ricchi, miliardari, politici interessati, armatori, terminalisti, con la pruderie del business da proteggere di fronte alle novità, la Balena Bianca da catturare per convincerli che quell’opera avrebbe rappresentati la soluzione dello sviluppo genovese con opere da realizzare in una quindicina d’anni, con capitali raccolti in un sistema finanziario, che era a quattro anni dalla Grande Crisi e che avrebbero offerto al porto e alla città un’occasione di lavoro quasi incredibile.
Mosè-Piano parlava, parlava davanti a quella platea muta con i nasi affilati, simili a quelli dei genovesi della mostra de Lo Siglios de los Genoveses, allora esposta nel palazzo Ducale: silenziosi, le mani inanellate come artigli, i mantelli di ermellino, la diffidenza dipinta sui volti.
Era un disegno incantevole, quello di Piano, non le facce de los genoveses dell’anno Duemila, con colpi ad effetto magari discutibili ma molto attraenti: perfino quindicimila alberi da piantare tra le banchine, aveva immaginato Piano, oltre a un nuovo sistema per far girare le acque ferme del porto che si pulissero e creassero energie e poi l’aeroporto al largo con un collegamento di navette e la diga fuori e nuove spiagge per pescatori e tutte le industrie navali, i grandi stabilimenti di riparazioni spostati da una sola parte della città e l’altra liberata per la Nautica e grandi passeggiate sulle banchine per riscattare le delegazioni trascurate, quelle che avevamo pagato prezzi irrisarcibili di violenze ambientale, di salute compromessa per gli abitanti, che hanno respirato per decenni fumi e pestilenze di altro tipo da altiforni, gasometri…..
Sapete dove è finito quel disegno che aveva eccitato perfino l’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, corso lassù in Paradiso a accreditare l’opera e che avrebbe mosso investimenti per miliardi in un piano già cadenzato nei successivi dodici anni?
In un bel Museo, quello del Mare che sta in mezzo alla Darsena del vecchio porto genovese, in una bella bacheca, un oggetto di studio, archiviato in pochi anni, davanti alla diffidenza pelosa del potere economico e politico costituito, davanti agli interessi magari anche in parte legittimi di quei terminalisti e armatori, che non potevano rischiare la minima variazione ai ritmi dei loro traffici.
Quei nasi affilati della presentazione si erano chiusi alla proposta, non avevano sentito il profumo del denaro, dei dobloni, delle monete sonanti che smuovevano gli antenati. E salvo il sindaco Pericu, i leader politici, compreso Burlando, già allora diventato presidente della Regione, si erano voltati dall’altra parte, anche con una certa schizzinosità.
E allora adesso che cosa è successo che l’ Affresco è stato rispolverato, estratto dalla bacheca e che i leader della città si sono messi in marcia per attraversare il mar Rosso e arrivare a casa Piano che, munifico e generoso, ha prestato loro l’orecchio? E’ successo che Genova sta affondando nella grande crisi generale e nella sua specifica: si salvi chi può.
Finmeccanica rischia di chiudere le ultime fabbriche di un impero immenso, quello delle ex Partecipazioni Statali, l’Ilva del padrun Riva vive il suo dramma finale, la manifattura è morta in città, falliscono gli armatori grandi e piccoli, muoiono i commerci, la città è imbalsamata in decisioni che non riesce a prendere, come quella di far partire finalmente il Terzo Valico, la linea ferroviaria veloce con la Padania o di costruire la Gronda, una tangenziale già in pratica finanziata, l’ Amt, l’ azienda dei trasporti chiude linee e licenzia, il Teatro Carlo Felice non ha più soldi e poi è arrivata questa botta della Jolly Nero.
Quasi un segnale biblico, una nave che colpisce il suo porto e uccide il suo cuore, la casa dei piloti con una manovra sbagliata, anche costretta dagli spazi ridotti di questo scalo, la cui diga si deve al duca di Galliera, che la finanziò nell’Ottocento, quando le navi erano lunghe decine di metri e non quasi chilometri come oggi.
E allora che fare? Ripescare il progetto di Piano, l’ Affresco che riguarda la costa e l’unica vera fabbrica rimasta in città con le sue potenzialità ancora intatte e per grazia ricevuta, la posizione strategica in mezzo al Mediterraneo, i fondali profondi, la possibilità di collegamenti rapidi con le aree ricche dell’Europa, la Svizzera, l’Austria, la Germania.
Battersi il petto, come ha fatto Burlando: “Abbiamo sbagliato, forse…..” e andare in pellegrinaggio a Vesima, sulla collina incantata di Renzo Piano dove lui, Mosè aspetta, generoso e disponibile. Il porto è il suo sogno, la possibilità di lasciare un segno proprio da dove è partito lo affascina ancora.
I nasi affilati dei genovesi diffidenti oggi non si vedono, perché la crisi li ha inghiottiti e il problema di chi paga tutto questo, quale finanza, quali capitali e da dove, può perfino essere accantonato nell’esaltazione del momento. Non fu così anche per quelli che dietro Mosè attraversarono il mar Rosso e guardarono in alto, ringraziando il Dio dei comandamenti che li aveva protetti nell’attraversata. Non potevano sapere che cosa gli sarebbe accaduto se non rispettavano quei comandamenti.