GENOVA – Se ne è uscito dal portone della Grande Banca, l’uomo più potente di Genova dopo avere detto la stessa frase che 26 anni fa aveva pronunciato, terminando la sua carriera di cardinale-principe della sua diocesi, Giuseppe Siri, il due volte papa mancato: “Fosse per me sarei rimasto qua per sempre a lavorare….ma devo obbedire.”. Così ha detto Giovanni Berneschi, presidente della Carige, la ex Cassa di Risparmio Genovese, oggi la sesta banca italiana per patrimonializzazione, seimila dipendenti, sotto attacco della Banca d’Italia e della Procura di Genova, dopo una lunga ispezione, diventata una crocifissione per il presidente factotum che se ne va dopo 57 anni di servizio, da impiegato, a caposervizio, a dirigente, a direttore generale a presidente, amministratore delegato, deus ex machina di ogni pelo che si muoveva intorno alla banca.
Siri aveva parlato nell’ottobre del 1987, seduto sulla cattedra di arcivescovo, davanti al popolo dei fedeli nella chiesa stracolma e attonita di san Lorenzo, con la mitra ben calzata in testa, il pastorale impugnato per l’ultima volta, la voce stentorea, il concetto chiaro: “ Me ne vado perchè me lo ordina il Papa, ma io sarei rimasto qua con voi.” Aveva quasi tuonato, dopo 45 anni di servizio di vescovo. Aveva 82 anni e da un bel po’ era pensionabile per la Costituzione vaticana, ma in prorogatio apparentemente eterna e la testa lucida.
Sarebbe morto due anni dopo, in una nobile villa di cui gli aveva lasciato l’usucapione una di quelle famiglie aristocratiche che hanno sempre vissuto all’ombra della chiesa genovese.
Giovanni Berneschi, il banchiere, genovese come il cardinale, ha parlato davanti all’assemblea incandescente dei soci di Carige, in una sala stretta nei bassifondi del grattacielo della banca: saranno non più di trecento metri dall’ingresso della cattedrale. In mezzo c’è solo il Palazzo Ducale, dove abitavano i Dogi e dove dodici anni fa hanno celebrato il G8 più infausto della storia moderna.
Pensavano che Berneschi avrebbe respinto una ad una le accuse che, come una grandinata, dopo decenni di dominio incontrastato, gli sono piovute addosso per la gestione della banca, che lui aveva ereditato in una dimensione ancora poco più che municipale e che lascia con 700 sportelli, un gigante con i piedi d’argillla, piantati in una città, in una provincia, in una regione in grande decadenza e propaggini in tutta Italia, filiali in Sicilia e due società di assicurazione e altre banche nel sistema solare costruito intorno a Genova, la banca di Savona, il gioiellino della banca Ponti di Milano…
Pensavano che avrebbe attaccato, il presidente-factotum, accusato di egemonia totale su un consiglio di amministrazione che lo seguiva come un cagnolino in ogni mossa, che si sarebbe difeso punto per punto e magari lo ha fatto, ma quel che resta è l’annuncio stile Siri: “Mi sono guardato allo specchio e ho deciso che accetto, me ne vado anche se restereii qua ancora….Forse mi fanno pagare quella mia battaglia con Banca d’Italia per avere indietro le quote …..” ,
E poi, nei giorni dell’epilogo e del suo addio, questo banchiere che sembra Govi per l’eloquio strettamente dialettale e il look tradizionalmente genovese, è andato a salutare uno per uno tutti i suoi dipendenti, che nella sede principale sono più di tremila: giorni e giorni a stringere le mani a chiamare per nome e a spiegare che la banca è sicura, che il posto di lavoro è sicuro, che lui voleva arrivare, prima di andarsene, a sessanta anni di servizio in Carige e gliene mancavano ancora solo tre. Un abbraccio, una stretta di mano, qualche informazione e poi la pacca sulle spalle, in qualche caso qualche lacrima trattenuta, da una parte e dall’altra, alti dirigenti, impiegati, sottoimpiegati, fattorini, guardiani, donne delle pulizie, mai si era vista una scena del genere…
In questo modo e con la stessa fierezza di un ruolo eterno l’uomo più potente di Genova negli ultimi venti anni, colui che nel degrado di tutti i ruoli popolitici amministrativi era diventato la diga be il parafulmine di ogni crisi, se ne è andato a 77 anni di età, in un vigore di forze fisiche e mentali che neppure gli ultimi mesi di guerriglia bancaria, di scontro con il suo azionista di maggioranza, la Fondazione presieduta da un altro grande vecchio tutto d’un pezzo, il cavaliere Flavio Repetto, padrone di Elah Dufour, Novi, Baratti, imprenditore dolciario tra i più potenti, hanno fiaccato.
Sulla sua scia di uscita, in un turbinio di polemiche che scuotono la città per i nomi dei presunti beneficiati dal credito largamente concesso secondo gli ispettori di Bankitalia da Carige, sono entrati al vertice della banca i successori e Genova è diventata a tutti gli effetti una monarchia.
Il nuovo presidente della Carige è, infatti, il principe Cesare Castelbarco Albani, grande famiglia nobile, discendente per il ramo paterno niente meno che dalla famiglia di papa Clemente XI e per quello materno dai Groppallo, patrizi genovesi, proprietari, tra l’altro della Villa dello Zerbino un parco fantasmagorico nel cuore della città. Casterlbarco, un uomo elegantissimo, di grandi frequentazioni tra Genova e Milano, molto vicino da anni al cavaliere Flavio Repetto, schierato politicamente a destra, a fianco dell’ex governatore della Liguria Sandro Biasoitti, deputato Pdl, l’unico a vincere una contesa elettorale contro la sinistra e che lo nominò presidente della Filse, la Finanziaria regionale.
Castelbarco ha buone introduzioni in Mediobanca e nei salotti milanesi, si occupa di una agenzia marittima, la Prosper di cui è titolare e dei suoi molteplici beni terreni, che sono appunto grandi aziende agricole in Lombardia, dove si coltiva il riso che lui regala a sacchi agli amici più fedeli. Sacchi rossi con chicchi della Lomellina, terra di riso, dove i Castelbarco hanno anche un possedimento il cui disegno, alla periferia di Vigevano, fu tracciato niente meno che da Leonardo, magistrale nel far degradare i giardini della famosa “Sforzesca”, di prato in prato, di declivo in declivo verso la ripa del fiume Ticino, il confine della terra Castelbarco.
Siccome Genova ha già da quindici mesi, un sindaco marchese, Marco Doria, come già più volte raccontato da Blitzquotiudiano, della nobile famiglia dell’ammiraglio celeberrimo, Andrea Doria, la sensazione è che l’accoppiata principe-marchese abbia instaurato una sorta di monarchia dopo che la banca e ancor di più il Comune, erano stati retti da veri figli del popolo, come sono, appunto, Giovanni Berneschi e Marta Vicenzi, sindaco prima del marchese, figlia di un operaio di Rivarolo, la periferia industriale di Genova, altro che i palazzi nobiliari di via Garibaldi e la villa dello Zerbino.
La nomina di Castelbarco, signore affabile, noto per la sua diplomazia oltre che per i suoi doppiopetti inappuntabili e pei i suoi leggendari cappotti di cachemire purissimo, color cammello, blu’ scuro e grigio e il modo gentile di approcciarsi con chiunque, veramente da principe, è stata nel segno di una discontinuità dal “regime” precedente.
Il neo presidente ha aderito in pieno ai diktat anche duri della Banca d’Italia e dei suoi sei commissri, che per sei mesi avevano settacciato i conti di Carige, spulciando rischi, sofferenze, finanziamenti, clienti traballanti e clienti sull’orlo del patatrac, un panorama, che è anche quello dell’economia genovese e ligure nell’anno 2013, a partire dagli sbilanci della società di calcio Genoa Criket and Footbal Club dell’imprenditore-joker Enrico Preziosi, sorretto con un finanziamento di 175 milioni di euro forswe anche per le sue aziende di giocattoli , proseguendo con l’operazione Erzelli, la futura capitale dell’industria hig tech sulla collina di Sestri Ponente, dove sorgono i nuovi centri di Eriksson, Siemens e dei probabili laboratori della IIT, Istituto di Tecnologia avanzata, dove si sfornano robot come brioches calde, dove dovrebbe trasferirsi la Facoltà di Ingegneria, che recalcitra da anni, che Carige appoggia con un megafinanziamento al Consorzio e al costruttore, Pino Rasero, manager fedelissimo di Romano Prodi dai tempi dell’IRI.
La blak list che Banca d’Italia ha puntigliosamente sfornato nel suo rapporto, che sta facendo tremare Genova da mesi e ancor più oggi, dopo l’uscita di scena di Berneschi, include anche altre grandi operazioni molto delicate dello sviluppo economico genovese e ligure: la costruziuone del grande porto turistico di Imperia, da parte di Francesco Bellavista Caltagirone, in accoppiata con Beatrice Cozzi Parodi, imprenditrice del l’imperiese, con coinvolgimenti, poi giudiziariamente smantellati, dell’ex ministro imperiese Claudio Scajola, i finanziamenti a grandi armatori, fino a ieri orgoglio di Genova, come Alcide Rosina, leader della Premuda, ex presidente di Finmare, come Gianni Scerni, uomo del più classico establisment genovese, ex presidente del Genoa, armatore e agente marittimo. Poi ci sono aperture di credito e finanziamenti a personaggi anche un po’ più sospetti e border line di queste figure “forti” di una economia presa a mitragliate dalla crisi e più vicini alla accusa che il rapporto di Roma butta lì, contestando a Carige di non avere sempre rispettato con loro i limiti delle leggi antiriciclaggio e antimafia, che regolano il credito.
Su tutto questo si apre la discontinuità che il principe Castelbarco ha annunciato tra i suoi primi gesti di governo dopo la sua elezione e si apprezza anche la difesa che Berneschi sta preparando con le controdeduzioni al rapporto Banca d’Italia.
L’ex presidente precisa già che le sue aperture di credito, che i suoi finanziamenti sono sempre stati concessi a imprese, imprenditori che avevano solidissime basi e progetti pronti per creare posti di lavoro e se non li dava a quelli i soldi, con chi poteva rischiare?
Come dire: erano quelle le aziende su cui si reggeva la sempre più fragile economia cittadina, nel turbine della crisi, nel calo di traffici, nella paralisi delle iniziative pubbliche, come la costruzione delle infrastrutture, da lui tanto evocate, fino all’anatema, fino al turpiloquio o alle sue classiche intieriezioni in puro dialetto genovese, con cui condiva filippiche che facevano tremare i muri dei palazzi.
Ben diverso è lo stile del principe, che è pure console di Lussemburgo, non certo abituato a sporcarsi le mani con uno stile rozzo e modi rudi. Lui, le mani le calza in felpati guanti di alpaca che, quando non sono indossati, tiene abitualmente con un guizzo ulteriore di eleganza infilati nel taschino dei suoi invidiatissimi cappotti.
Castelbarco, a parte i guanti finissimi, avrà come vice un altro revenant della classe dirigente locale, Alessandro Repetto, ex presidente della Provincia per due mandati e prima deputato della Margherita, ex democristiano e, quel che più conta, ex superdirigente della Carige fino a una quindicina di anni fa, dalla quale uscì per dedicarsi alla vita politica probabilmente perchè “sbarrato” _ sostengono i soliti maligni_ nella sua brillante carriera dall’inesorabile ascesa di Berneschi.
Nel nuovo consiglio di amministrazione non siederà più l’avvocato Piergiorgio Alberti, grande cattedratico di diritto amministrativo, ex consigliere di amministrazione di Parmalat e di Finmeccanica, che probabilmente nelle strategie di pensionamento di Berneschi era destinato a essere il futuro presidente e che, invece, da persona per bene qual è, ha letto nelle critiche della Banca d’Italia un segnale di discontinuità contrario alla sua conferma: Alberti era infatti consigliere di amministrazione con Berneschi ed era tornato al vertice della banca dopo molti anni, a grande distanza dalla sua partecipazione al vertice di quella che si chiamava allora Cassa di Risparmio di Genova e Imperia.
Il nuovo regime monarchico, nel quale si vedrà quale destino ha la banca governata dal principe Castelbarco, dal suo attrezzato vice Repetto e da un amministratore delegato, non ancora scelto e che stanno cercando i migliori cacciatori di teste in circolazione, è appena cominciato. Non si sa quanto durerà, ma c’è chi teme commissariamenti e attacchi alla autonomia della banca, rimasta grazie a Berneschi e al presidente della Fondazione, quel cavalier Flavio Repetto, con il suo 47 per cento di azioni, autonoma e indipendente nelle tempeste degli ultimi anni. E’ sicuro il ridimensionamento della quota della Fondazione stessa, salita ben oltre i tetti che la legge sulla Fondazioni bancarie prevede.
Sull’altro fronte della Repubblica “monarchica” genovese anche il marchese-sindaco Marco Doria sembra destinato a cambiare qualche cosa negli assetti del suo governo. Il Pd, anche un po’ ringalluzzito dai fatti romani, sta premendo sul sindaco marchese, che tentenna troppo a far scattare le grandi opere infrastrutturali destinate a stappare Genova e il suo porto, la Gronda e il Terzo Valico, cioè la tangenziale attesa da un trentennio e il collegamento ferroviario con la Pianura Padana, atteso da 110 anni.
Il Pd e i suoi giovani turchi vogliono un rimpasto di giunta che velocizzi le decisioni. Ma il sindaco-marchese non ha i guanti raffinati del principe Castelbarco per spostare le pedine con oculatezza politica e Genova continua a frenare. Malgrado queste iniezioni di sangue blù nelle sue vene.
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