GENOVA – Qualcuno l’ha già ribattezzata “variante ligure”, alludendo a quelle modificazioni morfologico-politico ambientali che hanno cucinato a Genova il brodo primordiale in cui è nato il fenomeno Beppe Grillo. Qualcun altro aveva definito quella situazione addirittura “Finale Ligure”, abbracciando un contesto postpolitico genovese-ligure, impiombato da un calo demografico violento, marchiato da una crisi postindustriale inarrestabile, dal crollo delle roccheforti postcomuniste.
L’equazione era che in quel clima di “finale” si creava una condizione di dissolvimento delle tensioni politiche-sindacali, tanto forte da legittimare le jacquerie grillesche, le mutazioni genetiche del comico esiliato sulla nobile collina di Sant’Ilario dagli anatemi craxisti, trasformatosi in capopopolo web. Te la do io la televisione da cui mi avete cacciato……
Variante o finale che sia, il trionfo di Beppe Grillo incomincia da lontano, forse da quando lui lo chiamavano in modo un po’ tanto paesano, Giuse, da Giuseppe e giocava a pallone sui campetti in terra battuta di Savignone, un paesino di campagna appena oltre Appennino, in quella zona un po’ aspra che sta sotto i Giovi, nei declivi avari di tutto, che scendono verso la pianura padana, dove si parla un genovese un po’ cattivo (e c’è chi malignamente dice che l’accento tradisce l’animo della gente di qui), meno cantilenante di quello dell’ombelico dei carruggi di Genova; qui si vive o si viveva tra il campanile, quel campetto, una piazza, il paese e le ville dei “signori”, che arrivavano solo d’estate, con turbe di figli e domestici e aprivano le finestre e sbattevano i tappeti.
E Giuse e i suoi amici li sfidavano a pallone e in altri giochi, che spesso erano quelli del paese contro quelli della città, in una prima differenziazione socio ambientale che avrebbe segnato molto. Siamo all’inizio degli anni Sessanta e il Sessantotto deve ancora arrivare. Giuse gioca a pallone, magari all’ombra del fratello più grande Andrea, che è molto più pragmatico e che gli farà da manager per anni e che ancora vive in una mega villa di Savignone, che altro che quelle dei signori.
Di Giuse in campo gli amici di allora, o meglio quelli dell’altra squadra, dicono che non sembrava affatto il più furbo, il più predisposto, ma che faceva ridere tutti. Bastava una battuta e lui quelle ce le aveva già nelle tasche, magari un po’ logore di quei pantaloni da calcio sul campo di Savignone.
Dopo, quando Grillo- Giuse scende in città o meglio scavalca, perchè da Savignone a Genova bisogna farsi i Giovi, un colle da ridere che sale fino a trecento metri e poi si imbuca verso Genova, trapassando una periferia lunga e stretta, che una volta era occupata dalle industrie e dalle raffinerie tanto spaventose, che c’era una fiamma perennemente accesa di giorno e di notte, con la quale si terrorizzavano i bambini, indicandola come la “casa del Diavolo” e che, invece, era la raffinazione della Erg di Garrone, oggi padrona della Sampdoria (non sarà per questo che Grillo è sampdoriano?) la sua personalità per così dire artistica fa presto a formarsi, con quella vena di ironia corrosiva permanente, cresciuta molto nei contrasti socio ambientali, ma probabilmente anche in quelli religiosi.
Scendendo dal borgo di Savignone non si passa soltanto davanti alla fiamma della Raffineria Garrone, ma anche sotto l’incombente Santuario della Madonna della Guardia, sulla altura di quella Valpolcevera, una specie di visione mistica a quasi novecento metri di altitudine, una grande chiesa, un santuario, le cappelle votive, le statue, una specie di “memento”, una muraglia lassù in un luogo raggiungibile a piedi con i ceci dentro le scarpe, se adempivi al voto o a bordo di una guidovia, una funicolare che saliva in mezzo al verde-pelliccia delle montagne liguri, che a ogni curva ti giri e con la coda dell’occhio cerchi il mare…..Insomma un bel mix di visioni angeliche e diavolesche, che chissà cosa avranno ispirato alla mente fervida di Giuse in arrivo a Genova, allora quasi tentacolare, con quella città muro a muro, fatta di quartieri separati, che altro che i muri di Berlino, ma dove correva un filo artistico-musicale-spettacolare, ortodosso, ma anche pre-rivoluzionario.
La città dei cantautori un po’ isolati, un po’ sprezzanti, ma quanto ispirati e provocatori e contraddittori, come quel Luigi Tenco, che va a suicidarsi a Sanremo, il tempio empio della canzonetta, come Gino Paoli, che è già una colonna sonora di un paio di generazioni e se la fa con Ornella Vanoni, cantante della mala milanese, voce roca e Bruno Lauzi, un po’ appartato, ma che sventola una genovesità brasileira (“Che ti l0 accatti o frigideiru?”) dalla quale Giuse magari attingerà il suo “Te lo do io il Brasile, a Umberto Bindi e il suo Concerto da brividi, a quello che diventerà Fabrizio De Andrè, anche lui figlio di signori, come quelli che sbarcavano in villa a Savignone, ma allora timido, coperto, pudico e impaurito dal pubblico, ma già tanto geniale da sfornare in quasi clandestinità canzoni come “La ballata del Michè” o “ La Guerra di Piero”.
Una scuola, insomma, ancora a propria insaputa, ma che avrebbe fruttificato e ancora fruttifica, che aveva i suoi semi nella pancia ribollente della Genova anni Sessanta.
Ma nel futuro brodo di Giuse Grillo non c’erano ovviamente solo canzonette, seppure d’autore, ma un fervore teatrale che prendeva molte forme, come se quella città, appunto dei muri contro muri ideologici, con il cardinale quasi papa Giuseppe Siri che pontificava da una parte, i leader di una industria privata chiamata anche gruppo Costa con il capostipite Angelo, dalla cantilena zeneise tanto diversa da quella savignonese dei Grillo, alle piazzeforti di un Pci granitico e capillare, avesse bisogno di sfogarsi sui palcoscenici teatrali, cabarettistici e perfino della allora trionfante varietà.
Era la Genova del Teatro Stabile di Ivo Chiesa e Giuseppe Squarzina, una specie di nave pilota dell’intero teatro italiano, con le sue propaggini di scuole e palcoscenici minori, dove le vocazioni recitative e registiche fiorivano come rododendri sulle asperità delle montagne.
Tullio Solenghi, che inventava le sue performance nei salotti-bene, recitando “A Silvia” di Leopardi in tutti i dialetti italiani, il futuro imprenditore e poi politico finian-berlusconiano, Gianfranco Gadolla, figlio di grande costruttore e proprietario di decine di cinema, che montava spettacoli cabaret, trasversalizzando l’arte cabarettistica con le frange cattoliche scautistiche solidaristiche, dove sbucavano ancora imberbi i Carlo Repetti, oggi successore di Ivo Chiesa dello Stabile, i Marco Sciaccaluga oggi grande regista e direttore…..Il teatrino di piazza Marsala, il teatro della Tosse di Tonino Conte e di quel genio di Lele Luzzati, l’Alcione, perfino la compagnia goliardica Mario Baistrocchi, dove impazzava quel Paolo Villaggio, che poi sarebbe finito, dopo avere tagliato le cravatte agli spettatori universitari in prima fila (“Gioco Bellissimo”) allo Stabile e poi verso una carriera mirabile di comicità liberatoria dalla schiavitù fordista dell’impiegato-massa.
Giuse Grillo si immerge in questo brodo, che avrà poi altre sponde artistiche e si piazza nel quartiere cerniera di san Fruttuoso, in piazza Martinez a cavallo della ferrovia, delle alture scempiate dalla speculazione edilizia, ma anche alle spalle della Foce, il luogo simbolo dei cantautori, tra quella Corso Italia, che scorre sulla Promenade verso la Boccadasse della “Gatta” di Paoli e il centro genovese.
Quartiere che il Pippo Baudo, talent scout del lancio stratosferico del comico Grillo, avrebbe definito qualche decennio dopo, quando Giuse diventa una delle maschere italiane del finale della Prima Repubblica, Nazionalpopolare e nel cui ombelico c’è quel teatrino, l’ Instabile, nel quale Grillo raffina la sua vis comica e la corrobora con le ispirazioni caustiche del carattere genovese più autoctono, quello che nè a Savignone, nè dentro alla periferia, allora ancora potentemente industriale, avresti potuto cavarci lo stesso estro.
San Fruttuoso che non è quell’incanto vicino a Portofino, ma un quartiere dove la verve comica si può nutrire bene e crescere perchè da lì è facile tirare sui benpensanti, come sta già facendo De Andrè con le sue canzoni scritte, però, nei quartieri alti, abitando in una villa che non a caso si chiama Paradiso e che ne ha vicino un’altra che si chiama Paradisetto….
Chissà se sarà venuta allora a Grillo, decollante in quel mondo spettacolare, guardando le origini e la location di Fabrizio, il sogno di andare ad abitare lassù, sulla collina di sant’Ilario, dove ora è assediato dalle troupe di mezzo mondo, un luogo paradisiaco tra gli ulivi e le fasce sopra Nervi, che ti viene il torcicollo tra l’orizzonte e Est dove traguardi Portofino e a Ovest, dove si spiana Genova in una specie di prospettiva lunga, che percorre tutto il golfo.
Fino a qualche mese fa Grillo poteva permettersi di passeggiare quasi solitario su per le creuze, strade in salita di mattoni rossi e muri a secco, che hanno in cima i cocci aguzzi di bottiglia cantati da Eugenio Montale, tra giardini paradisiaci e ville da sogno, di quella collina e portare a spasso il cane, incontrando e attaccando bottoni di ore agli ignari cittadini che come lui pascolavano i quadrupedi.
Da sant’Ilario, barricata non si vede bene san Fruttuoso, ombelico di Grillo, nè i luoghi simbolo della “variante ligure”,che sta nel suo centro, né lo stesso centro storico, dove trionfa il finale ligure dello spopolamento e l’invasione delle “bagascie”, le prostitute che oramai occupano i caruggi a trenta metri dal Municipio, dalle strade nobili, quelle che Fabrizio cantava come “Bocca di Rosa” e che ora sono il melting pot prevalentemente latino americano di una ondata migratoria, il cui risucchio svuota i vicoli, illusoriamente rilanciati dalle Colombiane e oggi rinsecchiti dalle chiusure, dai fallimenti.
Restano appunto in certe zone solo loro le ex Bocche di Rosa, circondate dai negozi di stracci cinesi, che come una piovra allungano i loro tentacoli ovunque.
Eppure la variante ligure si nutre ancora in questo brodo ed ha ancora nidificato non solo nei pressi di Giuse, perchè la verve spettacolare e comica si alimenta e oramai troneggia come non mai.
Perchè, di dove è Maurizio Crozza, l’alter ego comico, l’uomo del giaguaro indelebile, la star tv che fa il comico al posto di Grillo. diventato leader politico, ma già border line? E chi scrive i testi caustici, sferzanti, i versi da “non siamo mica qui a riempire i Ringo con la crema da barba” di Crozza, se non un architetto archistar genovese, Vittorio Grattarola, cinquantenne rampante che nel 1992 faceva l’assessore ds, insieme con Claudio Burlando, il presidente della Regione, ex ministro, ex sindaco, figlio di un camallo del porto?
Accidenti come bolle questo brodo e quali spezie ci finiscono dentro per servire la pozione magica del mugugno universale genovese. Quello contro i benpensanti delle rime di De Andrè, quello di Bindi che mugugnava contro gli omofobi, quello di Paoli contro gli amori ipocriti, come ha magistralmente riassunto sul Corriere della Sera Francesco Cevasco, per arrivare a definire il Grande Mugugno Grillesco contro la politica sfasciata, corrotta, ladra, incapace.
La Liguria terra leggiadra, il sasso ardente, l’argilla pulita, come cantava il poeta Cardarelli, e adesso una travolgente capacità di trasformare quel mugugno in comicità corrosiva, creatività artistica, capacità spettacolare, fino alla mutazione genetica del Grillo, che va al Quirinale in giacca cravatta (ma la metterà?) a incontrare Napolitano….
In Liguria furoreggiano altri leader assoluti di questo mondo sospeso tra la protesta, il mugugno e l’arte comica e il nuovo filone politico. Se Albenga è in Liguria, da lì viene uno dei più grandi inventori televisivi, Antonio Ricci, che creò Drive In, Striscia la Notizia e l’eroe pupazzo di tutto questo mugugno, il Gabibbo e che si permette si sfottere come nessuno Berlusconi, avendogli fatto guadagnare i miliardi con le sue tv.
E dove è Savona, la patria di Fabio Fazio, l’altra icona a cavallo tra tv, spettacolo, politica, sottile intrattenimento domenicale e festivaliero, re dell’audience, partito da una regione dove l’ascolto è un mix diabolico di commistioni: appunto il mugugno incazzato, la comicità al vetriolo, la battuta infilzante, l’autocritica rovinosa come quella di Gilberto Govi, il capostipite di tutti, che faceva il verso alla avarizia con quella gag sulla sua giacca senza più bottoni: “Come me lo ricordo, qua c’era un pommello (bottone) e li la gassa(l’asola) e ora non c’è più…..”. Come dire non vale la pena di ricucire i bottoni, se ne può fare anche a meno…….
Il brodo di Giuse è bello, denso e ci si può continuare a pescare, almeno fino a quando la Liguria sarà sempre in qualche modo una variante e il suo finale non sarà definitivo. Intanto Genova-capitale era la città più bersaniana d’Italia, quella che lo aveva premiato di più di ogni altra nelle Primarie. Ora il primo partito è quello di Giuse e il giaguaro è diventato indelebile, anche se a Genova e in Liguria il suo partito Pdl prende solo il 18 per cento dei voti. Ma non lo sa, perchè è “a sua insaputa”, come la casa al Colosseo di Claudio Scajola, altro ligure imperiese, di un altro tipo di variante.
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