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Jolly Nero, scatola nera. “Buttato giù la torre piloti, saranno tutti morti…”

di Marco Benedetto |8 Luglio 2013 9:57

Jolly Nero contro la torre piloti di Genova: le prime foto dopo la sciagura

GENOVA – Il mito della capacità marinara italiana e genovese, la gloria del popolo di santi, poeti e navigatori, il primato dei comandanti, nostromi e mozzi usciti dalle flotte tricolori, si infrange beffardamente sulla crudezza dei verbali di inchiesta che la magistratura trascrive, cercando la verità sulle ultime tragedie dell’ isola del Giglio e del porto di Genova.

Se Francesco Schettino, il comandante dalla Costa Concordia, è rimasto inchiodato a quella frase-urlo della Capitaneria di porto di Livorno:

”Comandante, cazzo torni a bordo!”,

Roberto Paoloni, il comandante della Jolly Nero, flotta Ignazio Messina, resterà inchiodato da quest’altra frase meno colorita, ma semmai più funebre:

“Tutte le volte che si esce dal porto di Genova bisogna farsi il segno della croce…….”.

E poi, mentre la sua nave sta scarrocciando nel vuoto delle banchine genovesi, tra la diga foranea e il Molo Giano, dove si schianterà di poppa, facendo crollare la palazzina dei piloti e sepellendoci dentro nove vite, nella tragedia più assurda mai capitata nello storico porto genovese:

“ Qui non è partito niente, il motore….’ca miseria oh, quando i direttori di macchina salgono sul ponte so’ sempre guai…..”.

Altro che guai: dalle intercettazioni della scatola nera sulla Concordia infilzata sugli scogli del Giglio era uscita l’invettiva verso Schettino. Dalla scatola nera della Jolly Nero (funebre coincidenza cromatica!) rimbalzata sulla torre piloti, esce un resoconto incredibile di errori, negligenze, perfino cinismo agghiacciante, davanti a un incidente quasi incredibile.

E’ il gip di Genova, Ferdinando Baldini, che sbobina la verità sulle sequenze dell’incidente che la sera del 7 maggio 2013 colpisce al cuore non solo il porto di Genova, ma l’intera città.

Cosa è successo su quella portacontainer, lunga 240 metri, che lascia il suo ormeggio nella notte buia e viaggia in retromarcia dalle banchine di Sampierdarena verso l’imboccatura del porto, quasi davanti alla sede del mitico ex Salone Nautico genovese, dove assistita da due rimorchiatori dovrebbe “volteggiare”, mettersi di prua e lasciare la sponda genovese? E che invece si schianta alle 22,59 sul Molo abbattendo come un castello di carte la torre piloti, dove stanno lavorando in nove, che saranno schiacciati tra le macerie, il mare nero, la poppa alta settanta metri della Jolly.

Ecco la crudezza delle trascrizioni, che i magistrati, a quasi tre mesi dalla sciagura spiattellano in un documento che crocifigge il comandante Paoloni, il pilota Antonio Anfossi, salito a bordo alle 21, 59 e il primo ufficiale Lorenzo Repetto e indica i nove errori clamorosi di una manovra che in un porto come quello di Genova dovrebbero essere automatico e sui quali risalta, sopratutto, la mancata decisione di fare tutta l’operazione a motori spenti, usando sole le cime dei rimorchiatrori.

Ma usare il rimorchio suppletivo sarebbe costato 1.200 euro in più che la nave avrebbe dovuto pagare al porto. E 1.200 euro sono 1.200 euro e qui siamo a Genova…… Tra la Società dei Rimorchiatori Riuniti e il Gruppo Messina, armatore della Jolly Nero, c’è una lunga polemica sull’uso del traino nelle manovre di entrata e di uscita dal porto.

Che sarebbe finita male lo si capisce dalle prime battute uscite dalla scatola nera che in realtà si chiama Vdr, Voyage Data Record.

Alle 2O, 57 di quella notte, che sarebbe stata tragica , quasi un’ora e dieci minuti prima della partenza, a bordo provano a accendere i motori, ma i motori non partono:

“Il motore non ha soffiato”.

dice laconico il comandante. E qualche minuto dopo al suo primo ufficiale che gli chiede come se dovesse accendersi una sigaretta:

“Partiti?”, risponde: “Ma che partiti? Qui non si è acceso niente.”

Il secondo ufficiale aggiunge:

“E’ il motore che ha un……Anche l’altra volta ha fatto perdere……”.

Insomma, si sta perdendo tempo e quella nave, carica di container, deve andarsene, ha un carico, una rotta, un viaggio.

Cosa aspettiamo? Il comandante non si spazientisce neppure di fronte all’inconveniente, ma non gli viene in mente di cercare una soluzione diversa da quella del traino dei rimorchiatrori già all’opera. Ci sono i motori, no? Anche se bisogna farsi il segno della croce, come se si uscisse non dal porto di Genova, ma da qualche buco della costa sotto il mare in tempesta.

Alle 22 in punto sale a bordo il pilota del porto, che anche lui non fa una piega. Venti minuti dopo dalla plancia viene dato l’ordine, come se niente fosse:

“Macchina indietro, adagio”.

Quale macchina se il motore non parte?

Il secondo ufficiale, che sta incominciando a fiutare qualcosa chiede ancora più insistente di prima:

“E’ partita no? Perchè i giri non mi danno niente?”.

Mentre questi colloqui surreali stanno consumandosi tra la plancia e la sala macchine, la nave è trascinata “all’indietro” dai rimorchiatori e la sua distanza dal Molo Giano, davanti al quale dovrebbe compiersi l’evoluzione grazie alla quale la Jolly si piazzerà di prua per puntare con tutta la forza dei suoi motori verso l’imboccatura del porto e il mare aperto si riduce progressivamente lungo il canale.

E’ partito o no questo motore? Alle 22,53 viene impartito l’ordine di “fermare le macchine”, anche se in plancia il contagiri non ha segnalato che c’è stata la messa in moto. Alle 22,57 il comandante chiede al suo ufficiale se i motori sono stati avviati.

Risposta:

“Mi sembra di sì:”

“Partita, Primo?”

chiede il comandante Paoloni, riferendosi al primo ufficiale perché vuole essere sicuro che la nave sia controllabile, visto che il Molo Giano si sta avvicinando e le cime dei rimorchiatori di poppa e di prua si stanno tendendo.

Gli sembra di sì, ma la nave con tutto il suo peso e con l’abbrivio che si è caricato nel tragitto a rimorchio lungo il canale sta andando dritta verso la banchina. Alle 22, 58 dalla scatola nera esce una voce agghiacciante:

“Il motore non è partito”.

E un attimo dopo il secondo ufficiale:

“Distanza dalla torre piloti 150 metri.”

Alle 22,58 secondo annuncio :

“Poppa a settanta metri.”

Vuole dire che tra la nave e la banchina, su cui troneggia la torre, c’ è solo un piccolo buco d’acqua.

Se ne accorge anche il pilota, che “confessa” che non gli parte la macchina e subito dopo ordina ai rimorchiatori di dare tutta la potenza.

Siamo oramai al dramma, nel buio e nel silenzio del porto. Il comandante ordina:

“Siate pronti sulle ancore.”

Gettare le ancore è l’estremo rimedio per fermare la corsa della nave. Ma siamo oramai a 25 metri dalla banchina e i dialoghi si fanno concitati e sembrano un drammatico count down.

Alle 22,59 la scatola nera registra rumori forti di scarrocciamento della nave, lo stridore della chiglia sulla banchina. Il secondo ufficiale urla:

“Poppa arriviamo……”.

E, alle 22,59 il comandante Paoloni annuncia.

“Eh, niente abbiamo buttato giù la torre dei piloti”.

E un secondo dopo aggiunge quasi meccanicamente.

”Eh se abbiamo buttato giù la torre dei piloti, questi saranno tutti morti…..”

Che differenza c’è tra questo dialogo allucinante e quello tra la Capitaneria di Livorno e il comandante Schettino, sbarcato sugli scogli del Giglio con i suoi ufficiali?

La Concordia si è adagiata di fianco e le sue migliaia di passeggeri cercano di mettersi in salvo, calandosi in quel buco di mare che li separa dalla riva, mentre il comandante è già coni piedi all’asciutto. La Jolly è montata sulla banchina, ha sbricioolato la torre e ora rimablza indietro verso il centro del canale, con la carrozzeria solo un po’ rigata.

I morti in un caso sono nella immensa pancia della supernave da crociera, nell’altro sono tra le macerie della torre piloti, nell’ascensore che saliva nella sala comando.

Il comandante Paoloni è sulla plancia, che comunica alla sua compagnia armatrice via radio.

“C’è stato un grosso incidente….Siamo andati addosso a una banchina….Abbiamo buttato giù la torre piloti.”

Il comandante Schettino è sullo scoglio che cerca di dare spiegazioni sul fatto che ha abbandonato la nave

“per soccorrere meglio i suoi passeggeri”.

Così passa la gloria della marineria italiana, la perizia degli ufficiali, la leggenda dei piloti, che salgono con un salto acrobatico sulle biscagline delle navi e le portano al guinzaglio e al sicuro, la solidità degli armatori che garantiscono sicurezza e mezzi alle loro navi. Così si infrange un prestigio per cui hai sempre cercato in giro per i mari del mondo i comandanti italiani, le navi italiane, la perizia marinara italiana, quando in ballo c’era una vicenda nella quale si potesse misurare il nostro primato di navigatori.

La scatola nera, meglio il Vdr della Jolly Nero, è come una lapide non tanto su quei poveri ragazzi schiacciati dentro alla Torre Piloti di Genova, ma su una storia millenaria, che parte dalle galee a remi e vela del primo Medioevo e arriva a questi bestioni immensi, che nascondono perfino l’orizzonte quando arrivano nell’ex primo porto del Mediterraneo.

Ora il processo di Genova e quello del Giglio, quello della Concordia e del Jolly Nero, si intrecceranno con due comandanti e i loro ufficiali e i piloti e le compagnie armatrice sul banco degli imputati.

Sulle banchine e sui moli l’unica risposta è di studiare un porto più largo, dighe più distanti dalle strutture portuali, canali più profondi e larghi per garantire le evoluzioni, le rotazioni dei nuovi colossi del mare. Che altro c’è da fare, oltre che piangere i morti, annegati per un “inchino” della Concordia o schiacciati dalla poppa della Jolly Nero, con il motore inceppato e un rimorchiatore in più non pagato per un pugno di 1.200 euro?

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