Laigueglia (Sv). Concilio doc: Messa latina, canto gregoriano, preti in tonaca

Laigueglia (Sv). Concilio doc: Messa latina, canto gregoriano, preti in tonaca
Laigueglia (Sv). Concilio doc: Messa latina, canto gregoriano, preti in tonaca

GENOVA – Che ci fa quella sfilata di tonache nere perfette, le cosiddette talari, stirate fresche, la scarpa nera lucida, perfino i gemelli che spuntano sulle camicie candide ai polsi di quei reverendi giovani e scattanti, tra la folla dei turisti in infradito e minishort?

Non siamo intorno al Vaticano, all’uscita di una delle Congregazioni santissime di santissima Madre chiesa, quando si aprono le aule dei novizi o dei diaconi, pronti a tuffarsi nel sacro-profano della piazza di San Pietro.

E che ci fa tra quei giovani sacerdoti consacrati e benissimo impomatati perfino una tonaca candida con tanto di fascia, indosso a un pretino che non è certo il Papa Francesco in una delle sue leggendarie uscite in libertà tra i fedeli?

Il reverendo in divisa coloniale, come una volta usava alle latitudine calde, non è altro che il curato di un piccolo paese della Riviera Ligure dove sta fiorendo una nuova lettura della liturgia che di prima vista potrebbe sembrare tradizionalista alla Lebvefre il cardinale francese della grande dissidenza da Roma, il tradizionalista che strappò dal Vaticano negli anni Ottanta, ordinaando vescovi scismatici e post mortem fu perdonato da Ratzinger, ma non cancellò il suo verbo rigoroso e la sua restaurazione liturgica, che non voleva solo dire Messa in latino, turibolazioni a man bassa, canti gregoriani, sfilate di chierichetti e linea dura su ogni frontiera della Chiesa conciliare in avanzamento, dopo la Teologia della Liberazione, ma anche dopo tutti catechismi border line, da quelli olandesi a quelli più recenti, recentissimi di Hans Kung, l’amico-avversario di papa Benedetto XVI.

La scena di questa parate di impeccabili talari ( si chiama così la veste lunga e nera con bottoni piccoli dal colletto duro di plastica fino ai piedi, che è quasi universalmente sostituita dal clargy men e spesso, sempre più spesso, da abiti assolutamente informali e civili, distinti solo per una piccola croce appuntata sulla giacca) si svolge in quel paesino nel cuore della diocesi di Albenga-Imperia, dove regna da oramai una quindicina di anni Sua Eccellenza Mario Oliveri, un prelato giunto in questa propaggine della Liguria occidentale negli anni Novanta, inizialmente destinato a una grande carriera vaticana in diplomazia, ma poi fermatosi all’ombra della vecchia cattedrale di Albenga.
“Un sant’uomo”, dicono alla vigilia della sua possibile pensione, molti dei suoi preti.

“Un vescovo di manica larga”, sostengono i suoi avversari, addebitandogli una certo lassismo nel non opporsi a clamorosi casi di pedofilia che hanno visto protagonisti alcuni dei suoi preti, soprattutto nella tentacolare (turisticamente) città di Alassio.

Proprio la grande chiesa di Laigueglia, intitolata a san Matteo, una vera cattedrale a due navate, costruita tra il seicento e il settecento grazie alla improvvisa ricchezza dei suoi pescatori, che scoprirono nel loro mare un giacimento favoloso di corallo e eressero quel tempio immenso con due campanili, è al centro di una specie di rivoluzione che giustifica la sfilate delle talari e l’impeccabilità del clero locale.

In un paese di appena duemila abitanti e in una parrocchia unica sono schierati ben tre sacerdoti, l’arciprete don Danilo Galliani, quarantenne genovese di rara vivacità e iniziativa, don Francesco Ramella, il curato e don Jean Pierre che arriva dalla Corsica.

Tre preti quando in tante parrocchie di grandi città come Genova, parrocchie che scrissero la storia non solo ecclesiastica, non c’è neppure un prete e le chiese chiuse sono un pugno allo stomaco non solo dei fedeli, ma pure alle aspirazioni religiose e culturali della città.

A San Siro, ex cattedrale di Genova, monumento vero e proprio della città, centocinquanta metri sotto via Garibaldi, “la strada dei re”, ora officia un sacerdote argentino, perché il parroco precedente, don Luigi Traverso, universalmente considerato un santo, ottantenne sfinito da una vita di carità, di assistenza al nuovo mondo suburbano che vive e spesso muore di fame nei caruggi genovesi, ha dovuto ritirarsi e la grande chiesa di incommensurabile bellezza è rimasta vuota.

A Laigueglia, invece, le tonache svolazzano e la rivoluzione va avanti come se quella chiesa fosse entrata in un altro pezzo di storia o magari nella macchina del tempo.

Il parroco, don Galliani, regge la parrocchia da cinque anni e in questo tempo ha capovolto non solo le panche della Chiesa, ma anche la liturgia, stando attento a non violare nessuna costituzione vaticana.

La Messa viene celebrata come prima del Concilio Vaticano II, con il sacerdote in cima all’altar maggiore e l’altare rivolto ai fedeli spazzato via. Alla domanda di Blitzquotidiano se non c’era una violazione di qualche regola universalmente conosciuta in questo salto indietro di un cinquantennio liturgico, il parroco, un pezzo di ragazzo alto, imponente, risponde che quell’altare conciliare non stava fisicamente nei limiti del presibiterio, quel pezzo di chiesa dove si celebra la Messa, era più avanzato verso la balaustra che separa l’altare stesso dai fedeli e, quindi, l’unico altare dove legittimamente celebrare la Santa Messa era quello originale, storico, antico…..

Nessuna restaurazione, quindi, ma solo una attenta applicazione delle norme liturgiche originali.

Don Galliani ha una storia e un presente di grande decisionismo, malgrado l’età giovane. Non c’è solo l’altare “restaurato”, ma altri segni liturgici che tornano indietro nel tempo.

Prima di impartire la Comunione ai fedeli, il sacerdote che officia o uno dei suoi assitenti, annuncia dal pulpito che “secondo le norme vigenti” la comunione può essere ricevuta anche in ginocchio, capovolgendo una tradizioine che dura dal Concilio Vaticano II, anni Sessanta, quando papa Giovanni mutò la liturgia e permise di riceve il corpo di Cristo in piedi, in fila per due davanti all’altare.

E così succede che la folla dei fedeli fa un bel salto nel tempo e torna a inginocchiarsi intorno alla balaustra, attendendo che il sacredote con il chierichetto e il piattino d’argento o d’oro in mano, a evitare la caduta delle briciole dell’ostia consacrata, gli porga il “corpus cristi”.
Solo chi non può inginocchiarsi, e i fedeli in questa condizione non sono pochi considerata l’età avanzata, si mette in fila come avviene da una cintuantina di anni e aspetta il suo turno. Quelli in ginocchio hanno la precedenza.
Questi sono solo alcuni dei segni di una liturgia che recupera la tradizione stando ben attenta a non commettere il presunto reato di tradizionalismo. Il parroco spiega con precisione rigorosa che sono state proprio le regole dettate da Ratzinger nel suo pontificato a chiarire quel che dopo lo storico Concilio Vaticano II non era stato sufficientemente spiegato.

Le nuove norme liturgiche che si erano consolidate in tutta la Chiesa mondiale ed anche nel suo epicentro romano-vaticano non erano regole ferree. O vi erano equivoci sulla loro interpretazione.
E allora ecco di nuovo i canti in latino, la pompa magna della vestizione sacerdotale, gli argenti, le pianete tempestate, la sacralità di ogni passaggio del rito, i canti impeccabili e l’organo restaurato, che riempie del suo suono le grandi navate, perfino le ex perpetue, oggi signore del paese, che si muovono in coreografia per raccogliere nei loro cesti di vimini le offerte.

“I vecchi paramenti marcivano nei cassetti, perchè non usarli, perchè non mostrare non la potenza, ma la grandezza storica della chiesa” _ ricorda don Galliani, senza fare una piega davanti alla strisciante accusa di avere glorificato i riti e la liturgia in tempi di miseria, usando tutto il lusso della tradizione, riposto nei grandi cassetti delle sacrestie.

Altro che la sobrietà di papa Francesco, la sua semplicità, le sue scarpe ortopediche, la cartella portata a mano, la utilitaria, la residenza nel collegio self service di Santa Marta, il linguaggio verso i poveri……..

Don Danilo Galliani, genovese, nato e cresciuto nella popolare e operaia Val Bisagno, nel quartieere di Montesignano, via Terpi, quello che una volta era consideato il Bronx di quella fetta genovese, dove gli abitanti spesso non sanno neppure che qualche chilometro a valle c’è il mare per tutti, mica solo per i “signori” che vivono in Riviera, alza un po’ sopracciglio, se parli di Francesco. E brusco dice: “Parole tante, intenzioni belle, aspettiamo i fatti……”.
Ma Papa Bergoglio non è Renzi e qui in ballo non c’è un problema di governo e un piano di riforme, qua c’è la chiesa di Cristo, che legge le sue regole e tu le puoi anche approfondire in un microcosmo come questa grande chiesa di una piccola Riviera balneare e turistica, il cui assetto imponente risale molto indietro e somma tempi, stili e munificenze diverse.

Tutta questa liturgia, questa grandiosità negli abiti, nei riti, nelle turibolazioni, nei cori, nella musica (il parroco è un appassionato, canta con voce grande e potente, suona e dirige con passione), non sarà la traduzione di quell’atteggiamento, appunto corretto da papa Ratzinger che finalmente ha spiegato bene le riforme del Concilio Vaticano II, smontando quello che i teologi di una parte avevano definito “il paraconcilio”, cioè l’interpretazione affrettata e molto aperta delle sue riforme e delle enicliche che lo avevano seguito come la Humane Vitae , la Nota Praevia del 1968, le “incisioni” di Paolo V, papa Montini?
Ci fu allora un movimento teologico che schierava anche l’allora vescovo Ratzinger, Hans Urs Balthazar e Henri de Lubac, che si contrapponeva ai cosidetti “conciliatori”, i quali, sulla rivista Communio scrivevano denunciando una atmosfera che esaltava il Concilio e ne forzava le aperture.

Ha scritto recentemente, in un grande articolo su “Il Foglio”, Roberto de Mattei che il Vaticano II è stato, in qualche modo, un Concilio tradito. E’ una tesi, solo una tesi ma fa molto discutere soprattutto dopo che il Papa Emerito nel suo pontificato, ricco soprattutto di approfondimenti teologici, ha “messo le cose a posto”, ridimensionando le interpretazioni di Paolo VI e dei suoi consiglieri.

Insomma, secondo questa teoria, ci fu come un equivoco colossale sulla lettura del concilio di papa Giovanni, di cui molti approfittarono e ci sarebbe voluto alla fine un papa teologo forte come Ratzinger per ridefinire, tanto per fare esempi concreti, che si poteva tornare a riti precedenti e finalmente applicare un “concilio reale”, rispetto a quello “virtuale” che nell’entusiasmo del tempo giovanneo si era imposto.
E di chi era la grande colpa, secondo questa teologia dell’ermeneutica? Della pressione mediatica, che spingeva il “concilio virtuale” e le sue grandi innovazioni, la Messa non più in latino e tutto il resto.
Se poni questo tema nelle mani del prete rivoluzionario a rovescio, perchè restauratore, come il don Danilo Galliani, che nella sua piccola-grande parrocchia sta rivoltando altari e liturgie, lui fa quasi un salto:
“ Ma basta con questa contrapposizione tra i tifosi del Concilio e i suoi denigratori! A noi preti di quarant’anni non interessa più quella storia. Me lo ricordo bene don Baget Bozzo che mi spiegava il Concilio e io pensavo che quei contrasti si erano oramai spenti….Il Concilio è stata una contingenza storica e Benedetto XVI ce lo ha confermato e spiegato con la sua scienza. La chiesa si era lacerata, noi lavoramo per riconciliarla, tenendo conto del fatto che non ci sono mai novità fine a se stesse nella Chiesa. Ho una grande passione per il canto gregoriano e non ci sono regole che mi impediscano di suonarlo nella mia chiesa…….

Se tu entri in dieci chiese diverse, probabilmente trovi dieci modi diversi di celebrare la Messa. E’ questo il vero tradimento del Concilio, cui bisogna porre riparo, rientrando nelle regole che nessuno ha cancellato, come ci ha insegnato Ratzinger. Ma questi ragionamenti con chi si possono fare senza cadere nella trappola dello scontro conservazione-innovazione e senza ascoltare i lamenti delle vedove di Paolo VI, che urlano sui tradimenti del Concilio.”

Sembra di capire che il binario su cui si muove questo giovane sacerdote che lavora in una piccola-grande chiesa di un piccolo paese, di una diocesi in fondo marginale, è diverso da quelli conosciuti, se è lui per primo a vantarsi del giudizio che dava del suo sacerdozio un personaggio molto controverso, ma forte della Chiesa del Novecento, appunto Baget Bozzo, “figlio” di Giuseppe Siri, il cardinale-principe, poi guru politico di Craxi e Berlusconi. “ Mi diceva _ spiega il giovane parroco _ che il mio sacerdozio era estetico-sacrale.”
Come dire, canto gregoriano, grandi vesti , liturgia sfolgorante, riti e supermusica sacra dopo le chitarre e latino tanto latino……
” Tutti devono saper cantare la Salve Regina e il latino non è mica una lingua proibita…..”. E attraverso la dimensione liturgica torna il senso del sacro che il nuovo rito troppo popolare ha in qualche modo banalizzato?
Alla richiesta di spiegazione sull’inusuale numero di sacerdoti della sua minuscola parrocchia, il reverendo arciprete risponde che la sua Diocesi è ricca di accoglienza, di capacità di ricevere sacerdoti, che vengono da fuori e che se sono in tre dove altrove non c’è neppure la possibilità di aprire la chiesa, è perchè non fanno solo i preti: lui insegna Teologia in Seminario e tiene altri corsi ad Albenga, il suo vice insegna greco e dogmatica…..

Ecco allora come si spiega la piccola processione delle tonache super stirate nella folla dei turisti di un’estate declinante. Il popolo locale, di pescatori (residui) addetti a un turismo molto nazionalpopolare, tramandatisi il culto per quella grande chiesa, guarda al giovane parroco carico di energia come a un piccolo tsunami che ha dato vitalità a tutta la comunità, anche a quelli che in parrocchia non ci vanno mai, ma vedono le migliorie della canonica restaurata, degli argenti rispolverati, dell’incenso che profuma le navate, perfino di un grande Cartelame, un addobbo gigantesco recuperato nel ventre della canteria, arte povera ma efficacissima, diventato una attrazione per turisti ed esperti d’arte, che è appeso sopra un altare laterale e mostra un sepolcro aperto.
Qualcuno con l’ironia caustica tipica di un piccolo paese ha battezzato il parroco “Dom Perignon”, alludendo alla sua frizzante vitalità da champagne francese. Lui va avanti come un tornado di tonache sempre stiratissime e progetta viaggi all’estero per i ragazzi del paese e aggiornamenti culturali e religiosi.
Alla fine riconosce che Papa Francesco sta muovendosi come un parroco del mondo e questo alla Chiesa serve eccome: si erano dimenticati che bisognava comunicare con tutti. E in questo il Concilio Vaticano che tagliava la Chiesa tra tifosi non c’entra niente. Quindi ben vengano anche le tonache con i gemelli al polso e le opere parrocchiali. Ma non si cada nelle vecchie trappole post conciliari. E’ proprio il tempo di conciliare?

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