Naufragio Costa Concordia: Genova e Schettino uniti, orgoglio perduto

GENOVA – Dove è finito l’onore dei genovesi, i grandi marinai, i grandi comandanti, le grandi navi costruite nei cantieri, quella selva di fumaioli nel porto da cui partiva la storia della Superba, potenza dei mari? Dove è finito l’onore di una genia di naviganti, “timbrata” per sempre dal Cristoforo Colombo dell’intuizione geniale e della capacità di sognare e percorrere rotte mai viste anche verso l’ignoto e l’impensabile, altro che gli scogli degli “inchini” turistici?

Che ne è della capitale dello shipping, il mestiere universale e complessivo di chi costruisce, arma, noleggia, assicura, riassicura, carica, scarica, spedisce la merce meglio di chiunque altro al mondo e si concentra in questa striscia di terra tra la Lanterna, i moli, il ventre pulsante di Genova, l’arco del Golfo chiuso da Portofino, aperto verso il mondo?

All’inizio di questa triste storia, che fa ripiegare anche Genova su se stessa, nel porto incasinato dai blocchi dei Tir, dai suoi traffici confusi, dalla crisi epocale della Fincantieri, che rischia di chiudere la fabbrica dalla quale uscirono le antenate della Costa Concordia, dal Rex in avanti,  la Colpa con la maiuscola era solo di Schettino.

“Un comandante di Napoli, di Meta di Sorrento”, sussurravano sulle banchine, sui moli, ma anche negli uffici, una volta detti “scagni” di quei mestieri immortali della marineria, dei traffici, non con razzismo fuori tempo, ma con l’alterigia aristocratica di una primogenitura inattaccabile o  mai messa in discussione, anche nei tempi della crisi marittima più profonda.

I comandanti veri sono solo quelli nati a Camogli, piccola città a trenta chilometri dal confine genovese, in quel posto da favola con in faccia il promontorio di Portofino, la Città dei Mille Velieri del secolo diciottesimo, dove l’arte di comandare le navi sta nei geni di una razza che neppure il tempo e le rivoluzioni sui mari scalfiscono.

Eccelsi a governare il timone e la randa e i fiocchi e tutte le vele, ma anche la barche con i motori o con i remi, qualsiasi cosa galleggi, navighi, prenda il largo verso le rotte più dure del globo terracqueo, nelle tempeste di capo Horn,  di capo Buona Speranza, per esempio, che  sulla  calata  sotto la chiesa, che fa parte della piccola diga portuale camoglina, te le raccontano ancora quelle storie, rammendando le reti con le  dita rosicchiate dalla salsedine e il basco blù in testa. Eccelsi i comandanti di Camogli e  di Genova e di questa Liguria avara di tutto, ma non di quel gene marinaro, anche oggi pronti a pilotare con tutti i sacramenti della tecnologia più sofisticata, a bordo di quelle cattedrali del mare che sono le navi da crociera del Duemila, settanta metri di altezza, trecentocinquanta fuori tutta, nove di pescaggio, città galleggianti non navi.

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