GENOVA – Petrolio killer a Genova. Questa volta la onda nera viene da terra, viaggia all’incontrario. Il petrolio nero, pesante, sputato dai pozzi tunisini, trasportato fino al Porto Petroli del grande porto genovese dalla nave “Sea Dance”, bandiera maltese, aspirato nella sua stiva dal tubo verso la raffineria Iplom di Busalla, scavalcando la città, la collina, perfino il passo dei Giovi, sta scendendo a valle. Viaggia lungo il torrente Polcevera, uno dei due maggiori corsi d’acqua di Genova, dopo avere “asfaltato” il suo affluente rio Fegino e il rio Pianego, con una patina nera, puzzolente, alta decine di centimetri, una gomma micidiale che alza un odore nauseabondo, che ti prende il naso, la gola e ti fa dubitare della tua salute.
Scende lenta verso il mare, questa marea all’incontrario, seminando la sua distruzione moderna lungo la Vallepolcevera, che una volta era l’area delle grandi raffinerie di petrolio delle grandi fabbriche, dove bruciavano le fiamme di quel processo di raffinazione e che ora è, all’ombra del grande monte dalla Madonna della Guardia, svettante lassù a 800 metri, il luogo della post-industrializzazione.
L’onda nera non si sparge sulle onde delle mare verso riva, come 25 anni fa esatti, all’epoca dell’Haven, non arriva dal mare, come accadde nei grandi disastri, tipo quello della Exxon Valdes o quello della Erika, catastrofi quasi bibliche per il mare inquinato, la fauna e la flora distrutte sotto la coltre nera, gli uccelli pietrificati come simboli catastrofici, messi lì per sempre, i pesci sventrati a branchi dall’”olio nero”, a imperitura memoria di quanto l’uomo distrugga il suo habitat, il creato da Dio.
I 700 mila litri di grezzo, saltati fuori dal tubo di circa settanta centimetri di diametro dell’oleodotto Iplom, scendono lungo questo fiume – torrente della complicata orografia genovese, secco quasi sempre, ma maledetto assassino se c’è alluvione, che va a sfociare di fianco al grande stabilimento dell’Ilva di Cornigliano, dove fino a dieci anni fa sputava fuoco l’altoforno della acciaieria a ciclo continuo.
Scende questa massa oleosa da domenica notte dentro alla pancia di una delle zone più martoriate del Ponente genovese, quella parte di città che dalla fine del milleottocento è diventato una dei grandi poli industriali, non solo di Genova, ma del Paese intero.
Hanno riempito il mare di pietre e cemento, hanno distrutto la linea di costa, trasformandola nei muraglioni, nelle dighe del porto, dell’areoporto, dell’altro Porto dei Petroli, cancellando per chilometri e chilometri le spiagge, gli stabilimenti balneari, riducendo le barche, i gozzi panciuti dei pescatori in pezzi da museo, spegnendo perfino il respiro salato delle onde, allontanando il rumore del mare di chilometri. E ora arriva, dal suo ventre, dal ventre del Ponente così martoriato, la marea all’incontrario.
Ecco la marea nera che scende lungo il torrente e atterrisce la popolazione della valle e sopratutto di Borzoli, il pezzo di delegazione più colpito da quello che i tecnici chiamano “sversamento”, come se fosse una tazza rovesciata e invece è un inferno nero, un fiume che dal buco della collina si rovescia verso i torrenti e li “usa” come un toboga per andare verso valle, verso il mare.
La grande paura ora è questa: che possibili, temute piogge trascinino quella parte di grezzo, che i tecnici della Protezione Civile e le ditte incaricate stanno cercando di aspirare via dal greto “petrolizzato” dei due torrenti interessati.
Le previsioni parlano di piogge sabato e domenica, un rischio enorme, perché la portata del Polcevera crescerebbe in modo tale che le “muraglie” di panne protettive piazzate in serie lungo il corso del fiume, e soprattutto alla sua foce, sarebbero travolte dall’onda nera. Ci hanno messo pure le panne “oceaniche” per fermare la discesa del petrolio, ma chissà se reggeranno?
Intanto la scia dello “sversamento”, i suoi danni li ha già fatti e la bonifica appare già un’operazione complicata, costosa, invocata da una popolazione esasperata che sopporta da decenni una condizione globale di servitù del territorio: gli oleodotti, la grande incombente discarica di spazzatura del monte Scarpino, un monte di rifiuti che cola veleno e il conseguente viavai di Tir, il cantiere del Terzo Valico, la linea ferroviaria veloce che collegherà Genova con l’Oltre Appennino, correndo più o meno parallela a quel tubo Iplom.
I danni “umani” sono pesanti per una popolazione che urla di non poter più sopportare tante sofferenze, che denuncia l’Iplom, la raffineria con soci genovesi di nobile storia famigliare-imprenditoriale, i Profumo e altri soci lussemburghesi, di creare pericolo e a monte di ammorbare l’aria, di tenere in scacco la loro salute, il loro territorio.
Almeno trenta persone si sono fatte visitare da una unità mobile della Asl che è andata a piazzarsi nell’area di rischio: gente che denuncia malori, svenimenti, problemi agli occhi, difficoltà di respirazione. I sanitari tranquilizzano: “Se ci fosse rischio per la salute non potremmo lavorare senza maschere”, spiegano gli esperti dell’Arpal, che dall’ora dello sversamento sono immersi con gli stivali nel petrolio.
Ma intanto il petrolio in mare ci è arrivato e ha fatto diventare iridescente la superficie delle onde che la Capitaneria perlustra minuto per minuto con gli elicotteri e con i mezzi navali.
La lunga scia nera all’incontrario non è solo visibile lungo il greto, fino alle onde del Mar Ligure, che arrivano a riva tra i moli del porto satellite di Prà-Voltri e la banchina dell’aeroporto Cristoforo Colombo.
C’è un segno forte e forse il più spettacolare, diventato già l’iconografia del disastro, decine e decine di cormorani, aironi, di anatre, di papere, di germani e di oche “colpite” dal petrolio e diventate, nello loro nere sculture, il simbolo di quello che è successo.
Il volo spezzato dalle ali pesanti di greggio, le zampette che si saldano alla poltiglia nera, hanno richiamato gli esperti dell’Enpa che lavorano a salvare gli animali travolti da quel nemico sconosciuto. Insomma l’ecosistema è colpito al cuore e le sue vittime diventano la foto da prima pagina dell’ultima catastrofe petrolifera, per micidiale coincidenza nel giorno del referendum sulle trivelle….
L’onda all’icontrario dovrebbe percorrere circa quattro chilometri per trasferirsi in mare, per spargersi come una grande macchia davanti a questa costa, che non è stata madre natura a disegnare, ma l’uomo con le sue opere, i moli, le banchine, i cantieri. Ma sapete come è il mare, come sono le onde, le correnti……Se il petrolio fosse trascinato in mare le onde potrebbero portarlo al largo e spargerlo per il grande golfo blu di Genova e secondo il giro di quelle correnti trasportarlo verso le zone più turistiche di Arenzano, Varazze, dove stanno preparando la stagione balneare, dove il terrore di una Haven due serpeggia.
E allora vai con gli ultimatum: le autorità costituite chiedono duramente alla raffineria Iplom di portare via entro sabato, data meteo della presunta pioggia, almeno il 90 per cento del petrolio dalla anse pietrose del Polcevera.
Lungo la Valpolcevera, a guardare la marea all’incontrario arrivano tutti, il presidente della Regione Giovanni Toti che parla di danni da pagare subito con le casse dello Stato, il sussiegoso sindaco Marco Doria che parla di accertamento di responsabilità, assessori, presidenti di municipii, esperti ambientali, cassandre che da decenni prevedono la sciagura e segnalano i precedenti, il rosario degli allarmi, le fughe di petrolio, i miasmi, le puzze asfissianti di questa valle nella quale se entravi da bambino ti raccomandavano di chiudere il naso “perchè c’erano le raffinerie, e ora lì, intorno, sembra di essere tornati indietro di trenta quaranta anni. Ma questa volta la puzza insopportabile non viene da quei depositi enormi della Erg di Garrone, che non ci sono più da venti anni, ma proprio dalla macchia nera che scivola lenta, all’incontrario del percorso dei tubi.
Da quando è suonato l’allarme su un manometro della Iplom che ha segnalato la perdita di presssione del tubo e, quindi, la disastrosa perdita, lassù a Busalla, dove il “mostro” della raffineria giace dal Dopoguerra con i suoi depositi, i suoi grandi tubi, l”archiettettura” a fianco dell’autostrada Genova-Milano, la famosa camionale, costruita da Mussolini, il lavoro si è fermato. Duecentocinquantadue operai rischiamo la cassa integrazione. È l’altra faccia del disastro ambientale. Il petrolio non viene più pompato da valle dalle stive nere delle navi in Porto, i depositi si seccano, la produzione si ferma. Ora siamo al “si salvi chi può” e i tecnici dell’Iplom devono lavorare per togliere il petrolio. La ditta Betrof lavora con gli aspiratori con gli altri mezzi giù verso il fondo valle. Deve fare in tempo prima della pioggia, deve ridurre il duro petrolio tunisino uscito dalla pancia di quella nave maltese a uno strato minimo che la piena non trasporti in mare.
È una lotta contro il tempo, mentre la Procura della Repubblica indaga e sequestra, mentre quelli della Valpolcevera si tappano il naso e guardano il cielo, maledicendo il petrolio, i suoi derivati e la marea nera all’incontrario.
L’impianto aveva 60 anni di età, il tubo maledetto era controllato ogni cinque anni, la prossima volta sarebbe stata tra un mese. Troppo tardi. Il disastro non ha aspettato.